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La mafia, senza ambiguità, di Luigi Manconi

Posted By cubeddu On 11 maggio 2019 @ 01:50 In Blog,Società,Storia | Comments Disabled

Salvatore Lupo LA MAFIA. CENTOSESSANT’ANNI DI STORIA Donzelli, Roma, pagg. 412, e 30. Un’analisi del fenomeno, tra epoche e continenti, contro ogni tentativo legittimarlo come espressione di arcaicità, tradizione, valori quali onore o famiglia. Da Ilsole 24 ore, 21 aprile 2019.

SALVATORE LUPO, storico

La parola «maffia» appare per la prima volta nel 1865: già allora si accreditava tutrice dell’ordine. Raccontare cos’è la mafia, definirla, proporne un’interpretazione, senza mai dimenticare l’opera di “confondimento” – termine medico che bene si adatta a questa sorta di patologia sociale – messa in atto da chi ne è parte: La mafia. Centosessant’anni di storia (edito da Donzelli), di Salvatore Lupo, persegue questi primi obiettivi.

 

Ultimo tassello di una ricerca durata decenni, il volume ha tra le sue materie l’analisi di quel confondimento che mira a legittimare la mafia come manifestazione di arcaicità, tradizione e infine espressione di valori: famiglia, amicizia, onore e religione. La mafia, insomma, con la sua ideologia identitaria, utile per spiegarsi a sé stessa e acquisire consenso presso gli altri. Il libro di Lupo è un lungo viaggio tra epoche e continenti, un attraversamento continuo tra le due sponde dell’oceano Atlantico. Si documentano connessioni tra dinastie e sistemi di potere, tra lotte per il comando e accumulazione di fortune economiche e racconti minuziosi si intrecciano a dense questioni politiche e storiche.

E la storia è anche storia dei termini utilizzati per descrivere i fenomeni. La parola “maffia” appare per la prima volta in un documento governativo nel 1865 e undici anni dopo qualcuno già la definisce – insieme a brigantaggio e camorra – «una delle più gravi manifestazioni della questione sociale Italiana».

Troviamo così le radici dell’idea di una “cultura antistatale”, grazie alla quale già nell’Ottocento i capimafia si promuovevano tutori di un ordine che nessun altro riusciva a garantire, gli unici a poter mediare tra ricchi proprietari terrieri e mascalzoni e criminali. Quell’ambiguità, da sempre presente, che tenta di enfatizzare l’elemento di protezione per nascondere il più possibile la realtà dell’estorsione. Ecco allora che l’autore ripropone la definizione di mafia utilizzata da Leopoldo Franchetti a seguito della sua indagine in Sicilia nel 1876: «il sistema di voler curare il male col male».

Il fatto che certe decisioni politiche e alcuni provvedimenti repressivi ebbero l’effetto di agevolare o, viceversa, di contrastare Cosa Nostra è fuori discussione. Nel primo caso, lampanti sono state le conseguenze delle misure di proibizione degli alcolici negli Stati Uniti. Un’ampia fetta di mercato rimaneva non soddisfatta e gli stessi cittadini facevano fatica a riconoscere come illegale un comportamento che fino al giorno prima non lo era. Al Capone, all’epoca, semplicemente sentenziò: «tutto quello che faccio è accontentare la domanda del pubblico». Per altro verso, quando si parla della repressione durante il periodo fascista, non si può tacere il motivo dell’apparente efficacia di quell’operazione, riuscita appunto perché si procedé con metodi e strumenti che non tenevano in alcuna considerazione diritti civili e garanzie individuali.

Incontriamo poi la storia di Lucky Luciano, più modestamente nato Salvatore Lucania, le cui gesta criminali assumono un rilievo tanto intensamente epico da riproporre la leggenda, ancora dura a morire, di un suo intervento nello sbarco degli americani in Sicilia durante la Seconda guerra mondiale, come evocato da Tano Badalamenti nel corso del maxi processo degli anni 80. Una mafia, insomma, portatrice di libertà e capace di ristabilire l’ordine. Ruolo effettivamente attribuitogli nella vicenda della cattura di Salvatore Giuliano (autore della strage di Portella della Ginestra)- questa volta una vera trattativa Stato-mafia – in cui Cosa Nostra fu legittimata e utilizzata come strumento di stabilità, chissà a quale prezzo.

Come dicevamo, all’interno di questo libro sono molte le storie, i racconti minuti, gli alberi genealogici e le mappe dei luoghi chiave, tanto in Sicilia quanto negli Usa. E c’è un personaggio che accompagna questo saggio, con il suo rigore intransigente e le sue sferzate puntuali, quel Leonardo Sciascia che viene definito da Lupo la «voce più autorevole del garantismo». Nel racconto Filologia, Sciascia mette in scena un dialogo tra un giovane e un anziano, in una sorta di rappresentazione del conflitto tra la “nuova” e la “vecchia” mafia. Quest’ultima, prodiga di consigli, spiega alla nuova leva come l’origine del termine possa essere utilizzata a proprio vantaggio allo scopo di confondere l’interlocutore, ma mette anche in guardia sui pericoli della strategia terroristica. Strategia che rischia di rivelare la vera natura di Cosa nostra e di impedirle così di nascondersi all’interno di dinamiche di potere consolidate. Al giovane, con rammarico, resta solo da rispondere: «eh ma funzionava, la dinamite, funzionava!».

Che la dinamite abbia fatto strage di uomini e di istituzioni è indubbio, che la strategia si sia rivelata vincente solleva qualche ragionevole perplessità. Qui sta il punto, forse tra i più controversi, della storia recente della mafia e dell’antimafia. La contrapposizione, cioè, tra chi pensa che Cosa nostra abbia vinto e chi, come Lupo, è di opposta opinione. Lo storico avverte del pericolo di accreditare la mafia come potere invincibile e onnipotente, perché si rischia di compiere, pur senza volerlo, un’apologia del fenomeno che si intende combattere. Appare ancora più importante, allora, procedere secondo le indicazioni fornite, suo malgrado, da Francesco Inzerillo che, ignorando di essere intercettato, disse: «cosa più brutta della confisca dei beni non c’è». Chissà se avrebbe giovato agli attuali Governo e Parlamento leggere questo libro prima di proporre e votare l’articolo contenuto all’interno della legge sicurezza e immigrazione, grazie al quale i beni confiscati possono adesso essere venduti al miglior offerente. Se ne consiglia a ogni modo la lettura anche ora: nel caso si volesse procedere a tardivo ravvedimento vi si trovano spunti assai utili. Infine, il libro di Lupo è un antidoto efficacissimo contro le fantasie sempre ricorrenti di complotti mirabolanti e di macchinose cospirazioni che, nella pretesa di tutto collegare e di tutto attribuire a un’unica mente criminale, finiscono col non spiegare alcunché e, soprattutto, col deresponsabilizzare gli autori concreti e comprovati di ciascun misfatto. Qui si vede la mano raffinata di Salvatore Lupo che, insieme al giurista Giovanni Fiandaca, è autore di un libro irrinunciabile come La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa (Laterza, 2014), dove una serratissima indagine smantella non solo ricostruzioni approssimative e congetture cervellotiche, ma il nucleo fondativo di una mitologia della mafia che può risultare estremamente vantaggioso per la stessa mafia.

 

 

 

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