UN ALONE DI TRAGEDIA SU ALDO MORO GIA’ NEL 1964. DUE FANTASMI SI AGGIRANO IN VIALE UMBERTO A SASSARI. UNA CONFERENZA DELL’ON. GERO GRASSI, di Federico Francioni

Un’iniziativa di grande interesse – Un alone di tragedia su Moro, già molti anni prima del 1978 – La drammatica estate del 1964 – Profonda ostilità di Antonio Segni per Moro  -  “Ha avuto quel che si meritava!” – Altre connessioni – Per concludere.


Un’iniziativa di grande interesse. L’11 gennaio 2019 ha avuto luogo una conferenza, organizzata dall’Ordine dei giornalisti della Sardegna, che si è tenuta presso l’Ateneo turritano (nell’aula magna del Dipartimento di Storia, Scienze dell’uomo e della Formazione, in via Zanfarino). Ha svolto una lunga, appassionata e lucida relazione – sulle vicende che si conclusero con l’assassinio di Moro – Gerolamo (Gero) Grassi, già deputato alla Camera per il Pd nella XV, XVI e XVII legislatura (dunque fino al marzo del 2018), membro della Commissione bicamerale d’inchiesta sul rapimento e la morte di Moro, giornalista ed autore, fra l’altro, di Aldo Moro: la verità negata.

Moderatore dell’appuntamento sassarese è stato il giornalista Anthony Muroni, già direttore de “L’Unione sarda”, al tavolo della presidenza con Emiliano Deiana, sindaco di Bortigiadas e presidente dell’Anci Sardegna (in Gallura, Grassi è stato di frequente ospite quanto mai gradito). Hanno portato il loro saluto Francesco Birocchi (presidente regionale dell’Ordine) e Nicola Sanna (sindaco di Sassari). Unico intervento è stato quello del giornalista e scrittore Vindice Lecis, autore di romanzi storici di notevole successo (pubblicati dalla casa editrice Condaghes di Cagliari) ed anche di un libro sulla figura di un militante del Pci infiltrato nelle Br.

Peccato che – in occasioni così stimolanti – ai giornalisti, professionisti o pubblicisti, che hanno accesso ai crediti, non venga più consentito, per un motivo o per un altro, di avanzare qualche quesito da rivolgere ai relatori, con grande vantaggio di tutti. Anche in questa conferenza, il nutrito e attentissimo pubblico era composto da persone tutt’altro che sprovvedute.

Un alone di tragedia su Moro, già molti anni prima del 1978. Nella riflessione di Grassi, un punto d’avvio quanto mai fecondo – anche ai fini della ricerca storico-storiografica – è stato, fra gli altri, un riferimento alla temperie politica dei primi anni Sessanta: al riguardo sia consentito formulare alcune considerazioni.

Il 1960 è l’anno degli scontri di piazza De Ferrari: Genova antifascista scende in piazza (moltissimi i giovani) contro l’annunciato congresso nazionale del Movimento sociale italiano; un partito sostenitore, dall’esterno, del governo del democristiano Fernando Tambroni, in cui Antonio Segni (nato a Sassari il 2 febbraio 1891) era ministro degli Esteri. In precedenza era stato all’Agricoltura e Foreste (1946-1951); aveva poi guidato il dicastero della Pubblica istruzione (1951-54); era quindi diventato presidente del Consiglio (1955-57); era passato alla Difesa (1958-59); in seguito era stato nuovamente alla guida del Governo (1959-60); sarà infine capo dello Stato (1962-64). Ora, nella prima metà degli anni Sessanta incombe già su Moro un alone di tragedia. Non è esagerato affermarlo.

Sia ben chiaro: non si vuole proporre qui alcun giustificazionismo di stampo, diciamo così, storicistico; l’assassinio dello statista pugliese rimane e rimarrà sempre come opera prevalente, come ignominia incancellabile delle Brigate rosse che tanto danno arrecarono, fra l’altro, alla crescita ed allo sviluppo dei movimenti di lotta, ancora lontani dall’esaurirsi: si pensi, per fare solo un esempio riguardante la Sardegna, alla Marcia pro su traballu, organizzata alla fine del 1979 dalla Flm (Federazione Lavoratori metalmeccanici). Certo, le Br furono appositamente infiltrate e, per determinati versi, pilotate e giocate dai servizi segreti, non solo italiani, come ha inequivocabilmente dimostrato una vasta letteratura e com’è stato confermato da Grassi nell’incontro sassarese. Non è necessario parlare solo e sempre di misteri (che comunque permangono) o fare ricorso al complottismo. Le prove ci sono e tanti, tantissimi documenti sono stati pubblicati.

La drammatica estate del 1964: due fantasmi si aggirano in viale Umberto a Sassari. Rispetto al 1978, torniamo indietro, cioè al 1964, alle drammatiche vicende del Piano Solo, che significava esattamente Piano approntato esclusivamente per l’Arma dei carabinieri, alla luce anche dell’aperta diffidenza coltivata dallo stesso Segni verso la Polizia. In quei mesi roventi, non è un mistero, il generale comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo venne a Sassari per conferire con Segni, nel signorile palazzo di viale Umberto, proprietà dell’allora presidente della Repubblica e della moglie donna Laura Carta, oggi sede del Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari. Chi voglia recarsi nell’accogliente e fornitissima biblioteca del Dipartimento potrà eventualmente meditare ed interrogare lo spettro di De Lorenzo che, forse, continua ad aggirarsi proprio lì, per chiedere garanzie e coperture al fantasma di Segni.

Questi era allora letteralmente ossessionato dal pericolo che la crisi economica precipitasse. Gli allarmi e le previsioni catastrofiste di Guido Carli, allora governatore della Banca d’Italia, amplificate dai più potenti mass-media, martellavano il capo dello Stato e lo tenevano in continua apprensione: ciò contribuisce a spiegare il crollo psicofisico del presidente, avvenuto di lì a poco, per una trombosi, in una stanza del Quirinale, durante una riunione alla quale erano presenti Giuseppe Saragat (allora ministro degli Esteri) e lo stesso Moro (presidente del Consiglio).

Quest’ultimo era rimasto profondamente impressionato dall’assassinio del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy (23 novembre 1963), su cui non è mai stata fatta chiarezza: alcune contraddizioni balzano subito in primo piano, evidenti già nella relazione della Commissione Warren, dal nome di colui che la presiedette. Estremamente preoccupato, Moro aveva in seguito riferito alla moglie Eleonora le aperte minacce che, per le sue posizioni “aperturiste” verso le sinistre, egli aveva ricevuto da Henry Kissinger, diplomatico e consigliere del presidente repubblicano Richard Nixon. Kissinger aveva detto a Moro, né più, né meno: “Te la faremo pagare!”.

Al riguardo si può sostenere – senza che venga meno il rispetto per Moro – che egli non fu mai veramente un riformatore o un riformista; non elaborò mai di sua volontà un progetto al riguardo; il suo obiettivo era inserire il Partito socialista italiano nell’area governativa, onde logorarlo ed indebolirlo. Tale traguardo, senza alcun dubbio, fu conseguito. Lo stesso proposito animò in seguito Moro nei confronti del Partito comunista di Enrico Berlinguer. Anche questo obiettivo fu pienamente raggiunto, questa volta da Giulio Andreotti. Certo, in precedenza la nazionalizzazione dell’energia elettrica, successivamente la legge urbanistica, per fare solo due esempi, preoccuparono non poco, nel contesto storico-politico del 1964, i ceti dominanti e proprietari, per non parlare dell’Alleanza atlantica.

Sia consentito aggiungere qui un’altra considerazione: l’Italia, molto più di altri Stati europei, è un paese dove, al fine di attuare un piano che decentemente si possa definire riformatore, occorre attrezzarsi adeguatamente e prepararsi ad un duro scontro per fronteggiare un potere che ha la vocazione alle spinte eversive. Antonio Gramsci lo ha efficacemente dimostrato, in particolare nei Quaderni del carcere; tutto ciò, del resto, è emerso dalle vicende storiche che videro in primo piano Francesco Crispi, quindi le leggi liberticide del generale Luigi Pelloux (il c. d. “colpo di Stato della borghesia”), sino alla dittatura fascista. Il luglio del 1964 è stato un importante tassello in quel processo storico che ha portato determinate forze a delineare la strategia della tensione. Lo abbiamo imparato anche attraverso radicali esperienze di lotta accumulate negli anni settanta, preannunciate, fra l’altro, in Sardegna, dalle lotte di Pratobello, presso Orgosolo.

Profonda ostilità di Segni per Moro. Mimmo Franzinelli, nella sua puntuale e documentata monografia sul Piano Solo, ha avuto, in un certo qual modo, facile gioco nel concludere che esso non scattò: non ci fu dunque un “colpo di Stato”. Ma è pressoché una tautologia, parola che indica, nel lessico filosofico, la spiegazione di un concetto con la sostanziale ripetizione del medesimo: per esempio, “i quadrupedi sono animali con quattro zampe”. Affermare che un colpo di Stato, nel 1964, non ci fu, semplicemente perché esso non venne posto in atto, è proprio questo. Ma che cosa era stato progettato? Come già Ferruccio Parri aveva autorevolmente sostenuto, si gioca con l’espressione “colpo di Stato”, che può significare involuzione nettamente autoritaria, soluzione gollista, oppure qualcosa di simile al golpe che, nel 1967, portò al potere i colonnelli in Grecia.

Segni, che pure era supremo garante della Costituzione, sapeva che – di fronte al pericolo di un’accentuazione delle lotte sociali – il Piano Solo prevedeva il più ferreo controllo dell’ordine pubblico, l’occupazione di Prefetture, della Rai, di sedi istituzionali civili e militari, nonché di quelle di partiti, sindacati e giornali. Per migliaia di persone, rappresentanti  dell’opposizione e registrati in appositi elenchi del Sifar (i cosiddetti “enucleandi”), sarebbe scattato l’arresto e l’internamento. Nel 1963, l’Arma dei carabinieri si era dotata di una Brigata corazzata che non trovava giustificazione alcuna nei compiti cui il corpo era preposto. Mariano Rumor ed altri capi democristiani erano perfettamente a conoscenza di tutto questo. Anche Moro – presente ad una riunione segreta presso l’abitazione romana del democristiano Tommaso Morlino – sapeva, ma non condivideva.

Piero Craveri, nel suo importante contributo alla Storia d’Italia della Utet, diretta da Giuseppe Galasso, ha scritto che la Commissione parlamentare d’inchiesta sugli eventi del giugno-luglio 1964, in maggioranza, pur tenendo fuori da ogni sospetto il ruolo di Segni, confermò largamente la denuncia dei giornalisti Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi – apparsa sul settimanale “L’Espresso” -  secondo la quale si preparava una soluzione della crisi assolutamente estranea ad una corretta prassi costituzionale. L’Italia andava verso una sorta di “repulisti” analogo alla situazione greca del 1967? Non scherziamo! I dirigenti della Dc sono sempre stati pronti a servirsi delle Forze armate, della destra eversiva e dei servizi segreti ma, di sicuro, non per farsi escludere dal potere: la vera posta in gioco era per loro il mantenimento dell’assoluto immobilismo politico (si veda ancora al riguardo il testo di Craveri ed anche il libro di Aldo Giannuli, storico dell’Università di Milano, su Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro).

Nel 1964, Pietro Nenni avvertì il rischio di un governo orientato a destra e convinse pertanto il suo partito ad entrare nella compagine governativa ridimensionando drasticamente il piano di riforme. Il socialista Antonio Giolitti, già ministro del Bilancio, volle rimanere fuori della coalizione governativa. Con l’ottenimento di questo risultato non erano più indispensabili provvedimenti eccezionali.

Ma torniamo a Moro: come emerge dal Diario (1956-1964) di Segni – curato ed introdotto dal giovane e valente storico Salvatore Mura – il presidente della Repubblica, dalle posizioni indubbiamente avanzate degli anni della riforma agraria (che prevedeva un netto ridimensionamento della grande proprietà assenteista) era approdato a una visione conservatrice (era giunto al Quirinale con i voti determinanti del Msi); egli nutriva un’aperta, radicata ostilità verso la logica “aperturista” di Moro: quest’ultimo, in seguito alle estenuanti trattative per la formazione del nuovo governo, era stanchissimo, provato specialmente dalle lacerazioni interne al suo partito, quasi sull’orlo di una depressione psichica. Tutto ciò è puntualmente registrato nelle pagine del Diario di Segni. Una monografia sullo statista sardo – che si è avvalsa di un’amplissima gamma di fonti archivistiche e documentarie ed è dotata di un solido impianto metodologico e scientifico, è stata scritta dallo stesso Mura (entrambi i volumi sono stati pubblicati da Il Mulino di Bologna). Sul 1964 tuttavia Mura riprende sostanzialmente la valutazione di Franzinelli.

Avversione profonda, dunque, quella di Segni per Moro, se non era proprio l’odio personale coltivato da altri capi della Dc che, dopo la tragica fine dello statista pugliese, nel 1978, si guardarono bene dal rilanciare l’accusa secondo la quale era lui il fantomatico Antelope Cobbler del caso Lockeed: lo scandalo che aveva coinvolto specialmente il leader socialdemocratico Mario Tanassi (si veda al riguardo quanto ha scritto Giorgio Galli nel suo volume Piombo rosso). Proprio quei conflitti senza esclusione di colpi, che imperversavano all’interno della Dc – certo, riletti decenni dopo, alla luce soprattutto dei 53 giorni che intercorsero tra via Fani e via Caetani -  inducono a intravedere quell’alone di tragedia che, come abbiamo scritto, sembra incombere su Moro già negli anni Sessanta.

“Ha avuto quel che si meritava!”. Come ha ricordato l’on. Grassi, l’ostilità verso Moro si era palesata anche da parte di esponenti della gerarchia ecclesiastica, come il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, esponente della destra più conservatrice all’interno della Chiesa. Dal suo canto, Segni tollerava ben poco il pontificato riformatore di Angelo Giuseppe Roncalli, papa Giovanni XXIII, perché lo considerava apportatore, in ultima istanza, di vantaggi ai comunisti.

Siri era un uomo che pensava o, forse, si illudeva di controllare e condizionare altri potenti, laici ed ecclesiastici, grazie agli stretti rapporti che aveva instaurato con i servizi segreti. Non sapeva, l’incauto, che anche lui sarebbe caduto nella rete dei colpiti da dossieraggio infamatorio durante la guerra infinita che opponeva i diversi segmenti dei servizi stessi (si veda ancora quanto ha scritto Giannuli). Ebbene, Siri, come ha detto Grasso, dopo il sequestro, dichiarò che sì, Moro, quella fine, se l’era, in fondo, meritata. Non potevo sferrargli un pugno – affermò Siri al tempo delle trattative di Moro con i socialisti – “perché le mie mani sono consacrate. Fortuna che non mi venne in mente che i miei piedi non lo erano” (per le fonti cui Grassi ha fatto ricorso, si veda ancora Aldo Moro: la verità negata e www.gerograssi.it).

Altre connessioni. Grassi ha accennato alle relazioni fra il caso Moro e quello di Mino Pecorelli, il giornalista, direttore di “OP”, che aveva intravisto il profilarsi di un tragico destino per Moro. Grassi ha ritenuto opportuno riprodurre nel suo sito le pagine del periodico e una mole impressionante di altri documenti (tra gli altri, quelli della I e della II Commissione Moro). Il rapporto tra la fine del leader democristiano e quella di Carlo Alberto Dalla Chiesa sarebbe legato ai materiali di Moro, di cui il generale era entrato in possesso. Dalla Chiesa, ha sostenuto a suo tempo Giancarlo Caselli, è stato ucciso dall’elemento mafioso, ma non per motivi strettamente collegati alle logiche ed alle attività specifiche della mafia.

Non poteva mancare – nella conferenza sassarese del parlamentare del Pd – un riferimento a Steve Pieczenik, funzionario del Dipartimento di Stato Usa, inviato in Italia: egli sedette nel Comitato di crisi insediato al Viminale dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Pieczenik ha dichiarato apertamente che egli agì in modo che le Br maturassero o rafforzassero l’idea di uccidere Moro. Insomma, questi doveva morire. Per il personaggio americano si è parlato apertamente di “concorso in omicidio”. Il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma, Luigi Ciampoli – ascoltato nel 2014 dalla nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro – ha chiesto un “procedimento formale” a carico di Pieczenik, uomo “autoreferenziale” in modo esasperato, se non “schizofrenico”, secondo la dichiarazione dello stesso magistrato, autore di indagini condotte con Otello Lupacchini, Ferdinando Imposimato e Antonio Marini. Dal suo canto, Ciampoli ha confermato che in via Fani erano presenti, oltre alle Br, uomini della Cia, del Mossad israeliano e del Kgb sovietico, impegnati, a vario titolo, per mantenere gli equilibri esistenti in Europa e nel Mediterraneo.

Le Br non erano assolutamente in grado, da sole, di predisporre e mettere in campo il “gruppo di fuoco” di 25-26 uomini (i brigatisti schierarono allora da 9 a 12 persone) che agì in via Fani, dotato di elevata preparazione militare, fornito di armi in dotazione a forze non convenzionali. Dei 96 colpi sparati, ne furono raccolti 48: di questi, 34 non erano numerati, come quelli in uso negli apparati della Nato. Tali dati erano stati messi in risalto già nel 1979 dallo stesso giudice Marini (cfr. Rita Di Giovacchino, Il consigliere della Cia indagato per il delitto Moro, “Il Fatto quotidiano”, 13 novembre 2014).

Nella sua lunga relazione, Grassi non ha fatto riferimento alla letteratura esistente, ai già citati libri di Craveri, Galli, Giannuli o a quelli, documentatissimi, di Sergio Flamigni (da La tela del ragno in poi), limitandosi in particolare ad una critica nei confronti di Imposimato che non avrebbe individuato il covo dei brigatisti nella romana via Massimi. Secondo alcune testimonianze contenute nel volume di Grassi, a sparare i colpi mortali contro Moro sarebbe stato il calabrese Giustino De Vuono, un ex-legionario, coinvolto, insieme a Carlo Fioroni, nel rapimento e nella morte di Carlo Saronio. Quest’ultimo apparteneva alla famiglia dei titolari di Surigheddu, la grande azienda agrozootecnica presso Alghero.

Per concludere. Questo ed altri aspetti vanno attentamente valutati alla luce degli sviluppi della ricerca che non può, non deve fermarsi mai nello sforzo di approssimarsi il più possibile ad una credibile ricostruzione storica. L’impegno instancabile di Grassi ha già fornito un contributo di cui, in ogni caso, non si potrà fare a meno.

Un’ultima considerazione riguarda la necessità di studiare la figura di Segni in rapporto agli studi sui meccanismi della dipendenza e sulle relazioni che si instaurano fra metropoli dominanti e satelliti coloniali, o postcoloniali, interni. Alla luce dei contributi del marxismo latinoamericano (ma non solo: ricordiamo che uno studioso come André Gunder Frank non si proclamava marxista) occorre andare oltre una visione riduttiva che, nelle aree sottomesse, vede in azione prevalentemente una borghesia compradora. Se si riflette sul ruolo di Segni, anche come grande protettore dell’industriale chimico Nino Rovelli, emerge un quadro senz’altro più articolato.

 

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