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Il sereno/tribolato quasi mezzo secolo cuglieritano del seminario regionale della Chiesa sarda in un nuovo libro di Tonino Cabizzosu, di Gianfranco Murtas

Posted By cubeddu On 22 gennaio 2019 @ 07:00 In Blog,Chiesa sarda,Storia della Sardegna | Comments Disabled

Lo scorso venerdì 11 gennaio è stato presentato a Cagliari, presso la Facoltà Teologica della Sardegna, il secondo volume della trilogia Per una storia del seminario regionale di Cuglieri, curato il volume e curata la trilogia da Tonino Cabizzosu. La recensione dell’opera, edita da PFTS University Press, è stata affidata alla professoressa Maria Antonietta Mongiu ed al padre Federico Lombardi S.J., già direttore della sala-stampa vaticana. A coordinare i lavori è stato chiamato il padre Guglielmo Pireddu S.J., del corpo docente della stessa Facoltà.


Direi alta, altissima la qualità degli interventi conclusi dallo stesso don Cabizzosu per anticipare i contenuti del prossimo conclusivo volume della serie (cinquanta testimonianze di ex studenti, oggi anziani preti e vescovi in servizio nella Chiesa sarda) e più ancora per riportare ai dati essenziali la sua pratica (e produzione) storiografica: che, secondo l’insegnamento di padre Giacomo Martina S.J., di Gabriele De Rosa, di Maurilio Guasco, di Pietro Borzomati ecc. si riconduce alla dimensione sociale, o sociale-popolare della Chiesa vista nell’ambiente territoriale e storico in cui si radica, in esso sviluppando azioni di pietà, solidarietà e spiritualità che, per essere correttamente interpretate, hanno appunto bisogno di una precisa e larga contestualizzazione… extracanonica. Lo specifico ecclesiale, in sostanza, va sempre collocato entro più ampie coordinate storiche e sociali. Il che, a ben pensarci, non è poi altro – pur visto da un altro punto d’osservazione o per altre ma assonanti considerazioni – che il rimbalzo di quella metafora evangelica che incorpora il popolo dei credenti, il popolo della sequela, in quel tanto di lievito chiamato a fermentare la pasta. V’è alterità e insieme vi è comunanza e connaturalità.

Con il suo elegante e sapiente eloquio, la professoressa Mongiu (sarebbe – lei archeologa e docente e altre cento cose – una splendida sindaca del capoluogo, se Zedda fosse eletto presidente della Regione) ha trattato dell’esperienza del regionale di Cuglieri come di un potenziale archivio storico-biografico della classe dirigente sarda, o di tanta parte d’essa come s’è proposta alla scena sociale ed istituzionale lungo il corso del medio e ultimo Novecento: non soltanto classe dirigente ecclesiastica (ove mai il ceto clericale possa essere assunto nella qualifica delle leadership pubbliche). A fronte dei circa 1.100 ordinati usciti dalle sue camerate e dalle sue classi, sono stati infatti qualcosa come 4.500 gli studenti passati per Cuglieri lungo il quasi mezzo secolo della sua faticosa e altrettanto generosa produzione formativa, didattica e culturale: larghe schiere delle professioni liberali od amministrative, della politica, della scuola o dei servizi pubblici è venuta da quella positiva – certamente positiva – avventura che soprattutto ha innalzato significativamente il livello qualitativo del clero isolano rispetto agli standard precedenti.

La Mongiu, in sostanza, ha visto Cuglieri come un’esperienza di comunità educante, una di quelle comunità educanti che alla società d’oggi, liquida e senza riferimenti ideali, mancano penosamente. Come un luogo capace di dar senso alle cose – al pari, pur sotto certi altri profili, delle facoltà universitarie come potevano esserlo prima dell’apertura massiva delle iscrizioni (per come essa è avvenuta o s’è compiuta, non per il fatto in sé), oppure i partiti politici ormai sepolti (anche dai loro errori) – Cuglieri fu una meraviglia all’osservazione, ha confessato lei stessa, di una “ragazza di paese” (di Pattada) che negli anni dei suoi studi ebbe modo di conoscere e farsi abbagliare dalla grande biblioteca o dagli strumenti di scoperta astronomica del padre Furreddu S.J.  “Dove è oggi, in Sardegna, la Cuglieri degli anni ’30 o ’50 o ’60, la Cuglieri come agenzia formativa di una classe dirigente?” s’è domandata la Mongiu; “perché la Facoltà di Teologia della Sardegna non riempie oggi pienamente quel vuoto forse da tutti neppure colto? La sua azione pedagogica – la sua ma non soltanto la sua, quella anche in capo a taluna delle istituzioni civiche – non sembra agita fino in fondo, nessun luogo sembra capace di accogliere tematizzazioni e discussioni di larga prospettiva…”.

Innumerevoli gli spunti offerti dalla relatrice (ed è un peccato che la Facoltà non si organizzi mai per registrare e poi sbobinare i tesori che nella sua sala-conferenze vengono con tanta frequenza depositati!). Potrei accennare alla “costante piemontese” cui ella ha fatto riferimento, alludendo ai padri della Compagnia di Gesù inquadrati nella provincia torinese (da cui dipendeva la Sardegna fin dai tempi dei Savoia) e destinati alle cattedre e/o agli uffici di responsabilità cuglieritani: interessanti qui i rimandi esemplificativi come quello alla commissione parlamentare del 1869, alla commissione d’inchiesta Depretis cioè, quella conclusasi con la relazione del biellese Sella sullo stato minerario e raccontata dai diari del Mantegazza…

Alla rappresentazione di una Sardegna sempre gregaria nella storia, priva della capacità stessa di esprimere una sua classe dirigente potrebbe invero rispondersi – così press’a poco ha ancora detto la Mongiu – con la storia antica della Chiesa sarda, quella che ha fatto corpo con l’elezione romana dei pontefici Ilario e Simmaco, con i messaggi di papa Gregorio qualche decennio dopo, con i vescovi emigrati o deportati insieme con Fulgenzio da Ruspe fra V e VI secolo, con la storia dei luoghi, e fra essi quei centri della Sardegna mediana – Cornus nel novero (riscoperto archeologicamente da Ovidio Addis e altri con lui e territorialmente tanto prossimo a Cuglieri!) – che molto hanno significato, nella modernità, con le centrali scolopie e salesiane, magari con Santulussurgiu e Sanluri e Lanusei, insieme con il maggior centro urbano e capitale dell’Isola, la Cagliari che fu, nel tempo remoto, la città di Sigismondo Arquer, finito sul rogo di Toledo per luteranesimo. “Un genio” – l’ha definito la Mongiu (curatrice di una recente rilettura del “coautore” della Cosmographia universalis del Munster, il genio e l’anticipatore, storico e cartografo, oltreché teologo e giurista, che attende la sua piena riabilitazione da parte della Chiesa: ma – dico io – i vescovi sardi d’oggi hanno paura della memoria di Goffredo Mameli, ucciso dal fuoco francese/papalino nel 1849, figurarsi di quella dell’abbrustolito del 1571!).

Cagliari dice di sé, per collocazione geografica sul mare, per dimensioni urbane e convenienze dei colonizzatori di turno. Ma la Sardegna centrale, pur con altra vocazione, ha avuto essa stessa una co-primazia – reinterpreto io adesso la riflessione della professoressa per come l’ho colta – in una considerazione più complessiva e riunitiva e coordinata dell’Isola: negli ultimi anni della vicenda di Cuglieri, coincidenti con l’esordio delle programmazioni della Rinascita (materia che entrò anche nella conoscenza dei seminaristi visitati apposta dagli assessori regionali e dallo stesso presidente Corrias), dopo Sarroch ed Assemini nel capo sud e PortoTorres nel capo nord si pensò ad Ottana, e se si dette illusione e poi frustrazione è però anche fu concesso alla civiltà industriale di segnare un progresso modernista nella cultura del lavoro e dei bilanci aziendali e al territorio di recuperare soggettività propria fra i due poli… Non fu quella la giusta scelta di sviluppo economico, e fu infatti premessa a rapidi consunzioni… prive di responsabili. Ma certo rivelò, anche quella scelta, il diritto e la vocazione della Sardegna centrale non soltanto a fare sistema ma forse anche a promuoverlo il sistema-Sardegna. Il seminario regionale di Cuglieri, molti anni prima, puntò, con la propria signoria baricentrica, allo stesso obiettivo, conciliando il settentrione e il meridione isolano, associando negli stessi aggregati i figli della città e quelli delle campagne…

Ha insistito ancora, la Mongiu, nel commento di ciò che a lei è parso, dalla lettura dei due volumi di Tonino Cabizzosu, una tendenza, forse inconscia, assimilatrice dei sardi da parte dei piemontesi, dei giovani seminaristi e chierici sardi da parte dei superiori e professori piemontesi. Un motivo, questo, che sembrerebbe aver trovato conferme nella rimozione della naturale sardofonia degli studenti provenienti da ogni centro abitato dell’Isola e presente dunque anche a Cuglieri: una rimozione rispondente alla logica dei tempi, che erano, almeno nella prima metà dell’avventura, quelli stessi del fascismo che aveva zittito tante produzioni in lingua sarda e di una certa Chiesa che era arrivata a condannare le improvvisazioni poetiche di paese… e che aveva visto – l’avrebbe poi ricordato Cabizzosu nelle sue rapide conclusioni – ben nove vescovi su undici, al Concilio Plenario del 1924, di provenienza continentale…

Mancherebbero, mancano, nelle relazioni dei rettori all’episcopato i riferimenti al carattere ed alla cultura bilingue dei sardi, tanto più dei sardi dei secoli trascorsi ed ancora ampiamente degli scorsi decenni novecenteschi. Una certa tendenza alla omologazione anche nei processi formativi costituirebbe, costituisce, un’ombra nel pur positivo quadro dell’esperienza cuglieritana.

In tale contesto, e in un gioco quasi di rimbalzi fra luci e ombre di cui Cuglieri fu il grande palcoscenico – come anche ha poi accennato il padre Lombardi nel suo successivo intervento riprendendolo dall’analisi offerta dallo stesso autore/curatore nelle conclusioni al primo volume della trilogia – la Mongiu ha inserito un appunto che avrebbe meritato approfondimento per quanto ha insinuato: vale a dire la tendenza affermatasi nel seminario, o tale registrata, quasi ideologicamente, nelle relazioni dei rettori, ad identificare “l’osservato (lo studente) nell’osservante (il superiore)”. Un limite importante, degno di essere rilevato e meglio messo a fuoco, naturalmente – sia detto e ripetuto – all’interno di una complessiva positiva valorialità per chiaro riconoscibile. Unitamente ad un altro limite, che la Chiesa del passato si è trascinata dietro, e che ancora ne impastoia il cammino: Cuglieri cioè, analogamente ai complessi della medesima tipologia altrove impiantati, costituiva un concentrato “tutto maschile”, quasi una dimidiazione del corpo religioso regionale che, nella sua assolutezza o nel suo rigore, congruiva quegli elementi misogeni od a rischio di sessuofobia che tanto male hanno portato nel tempo, irresolutamente, alla pratica pastorale.

Piuttosto orientato alla testimonianza personale, a dire di come un giovane studente poi novizio gesuita piemontese di Saluzzo abbia avuto percezione della esperienza cuglieritana negli anni della propria formazione, è stato l’atteso intervento di padre Federico Lombardi, che nel corso della sua vita ordinista è stato, della Compagnia di Gesù, anche il provinciale d’Italia (1984-1990). E’ in tale veste che egli ha anche conosciuto – e l’ha ricordato – la ricomposizione territoriale delle province, con l’inquadramento della Sardegna non più nella dipendenza torinese ma nella circoscrizione dell’Italia centrale (oggi credo che l’Italia, dopo l’unificazione delle sue provincie, sia inserita nell’unica e onnicomprensiva provincia euro-mediterranea).

Nessuna minorità gli fu mai dato di recepire dalle valutazioni raccolte nei suoi luoghi di studio e noviziato circa la realtà cuglieritana: le assegnazioni dei padri alle cattedre sarde non furono mai vissute da alcuno, né interessato né osservatore, come una punizione; forse era nella stessa cultura profonda della Compagnia il sentimento di quella certa orizzontalità o “pari dignitatis” delle sedi di missione che, invero, dovrebbe essere pertinente allo stesso abc ecclesiale.

Ha riferito ancora, il padre Lombardi, della piena sardità di alcuni suoi compagni di studi o noviziato come i confratelli Spanu, Marchesi e Manca, ha parlato dei nomi “mitici” che echeggiavano nello scambio di confidenze o nei notiziari veri e propri in circolazione al tempo, come quelli del padre Volponi, del padre Bozzola, dei vari padri Boschi; del padre Gamba anche – che a lungo operò a Cuglieri come formidabile animatore, formatore nato, promotore di cori, oratori e centri scout –, e di lui ha detto come della figura che finì per costituire una specie di collegamento con la realtà isolana di cui, nel divenire del tempo, riuscì a percepire ed ammirare appieno l’assoluta competenza sia liturgica che musicale (canto gregoriano)… Mai un giudizio di sottovalutazione, ma anzi un apprezzamento continuo che poi, nella famiglia gesuitica, poté semmai soltanto salire, se si pensa alle posizioni assunte dal padre Giovanni Marchesi, barbaricino di Mamoiada, nel novero degli scrittori de La Civiltà Cattolica o dal villacidrese padre Giuseppe Pittau al vertice della Compagnia, vicario assistente del padre Paolo Dezza preposito-commissario dopo la rinuncia del padre Pedro Arrupe (conseguente alla malattia e più ancora alle incomprensioni che subì da parte del papa Giovanni Paolo II, pari pari – direi io – a quelle sofferte da monsignor Oscar Arnulfo Romero).

Gli oltre mille sacerdoti e la ventina di vescovi usciti da quella scuola e da quell’accademia – ha rilevato padre Lombardi – sono la prova provata del successo religioso di un impegno generoso e doveroso misurato anche dagli oltre cento gesuiti offerti dal provinciale torinese alla missione del Montiferru lungo i 44 anni del suo faticoso espletamento, prima e dopo la guerra, prima e dopo il fatidico ‘68.

Una conferma sostanziale di questo impegno il relatore ha rilevato anche nella soluzione mediana e conciliativa trovata, nel passaggio fra anni ’60 e anni ’70, alla “crisi” che aveva indotto nel 1970 il padre Vergnano a formalizzare il ritiro dei padri dalle funzioni di direzione e gestione del seminario: perché distinguendo il seminario dalla facoltà (in trasferimento anch’essa a Cagliari), essi rinnovavano l’affezione alla Chiesa isolana ed ai suoi bisogni, pur concentrati e limitati, per il futuro, sulla scena accademica. Gli stessi sacrifici finanziari sofferti dalla Compagnia per ampliare ed attrezzare compiutamente gli spazi della Facoltà, ai piedi del Monte Urpinu di Cagliari e di spalle alla nuova chiesa di Cristo Re (officiata dagli stessi padri) segnarono tale fedeltà: una fedeltà appunto ribadita alla missione intimamente avvertita dall’intera Compagnia nei confronti della Sardegna (qui presente ormai da tre secoli). Di più: con le presidenze Mosso e Burroni fu forte e fecondo sempre il rapporto collaborativo con le Chiese diocesane e di primo piano fu anche e soprattutto la partecipazione ai lavori del Concilio Plenario Sardo conclusosi con gli Atti sottoscritti nel 2001 (fondamentale, nello specifico, il lavoro riservato svolto nella stesura dei testi dal padre Sebastiano Mosso).

Il senso di tutto il gustoso discorso dell’ex direttore della sala-stampa vaticana è in questa avvertita internità della realtà regionale sarda – nei suoi aspetti sociali e religiosi, culturali e, in certa misura, e meglio negli ultimi tempi, identitari – al sentimento universale proprio dei gesuiti, al netto naturalmente, com’è d’ogni cosa umana, di insufficienze occasionali. Se debito c’è stato, forse lo è stato della Compagnia verso la Sardegna, non certamente il contrario. Ma – direi io, perché no? contraccambiando i riconoscimenti – neppure noi siamo stati e siamo creditori verso i gesuiti. I due volumi proposti da Tonino Cabizzosu riferendoli specificamente all’esperienza cuglieritana (e così anche da altri suoi lavori) lo dimostrano ad abundantiam. A me sembrerebbe piuttosto doveroso collocare accanto ad essi il bello studio, tanto concentrato quanto documentato, di padre Raimondo Turtas S.J. – del quale in questi giorni ricordiamo il primo anniversario della scomparsa – offerto nel 2010, attraverso le edizioni Cuec, alla nostra lettura: I Gesuiti in Sardegna 450 anni di storia (1559-2009). Un intero capitolo, messo giù con la consueta libertà intellettuale dal compianto professore e amico, è riferito al seminario regionale e alla collegata Facoltà.

Spero di poter presentare a breve anche una personale compiuta riflessione sul libro in uscita. Valeva la pena, adesso, e quasi d’urgenza, di dar conto dei pregevoli interventi della Mongiu e di padre Lombardi. Il libro intanto è nei circuiti della distribuzione commerciale e nelle biblioteche. Auspicherei che, da parte delle parrocchie in particolare e di tutte le comunità religiose isolane, il testo fosse acquistato non soltanto per alleggerire i pesi finanziari incontrati per la pubblicazione della Facoltà editrice, ma soprattutto per dar modo, in specie ai giovani preti che non sanno nulla o quasi delle fatiche (delle luci e delle ombre, delle intuizioni illuminanti e delle contraddizioni penose) della Chiesa sarda e universale (o degli uomini della Chiesa sarda e universale) dei tempi pregressi, di misurarsi con la storia, e della storia prendere il passo, cauto misurato coraggioso, nei propri percorsi che dovranno essere oggi sempre più di affiancamento, di accompagnamento fraterno, non già di guida paternalista e leaderistica come un tempo era, e come un tempo ci si formava ad essere. Oggi finalmente fuori dalle logiche della protettiva casta clericale, ma dentro la composita e complessa pasta ecclesiale, che deve andare più per testimonianza che per magistero, consapevole del proprio esser diventata, o provvidenzialmente tornata ad essere, lievito, sale, fiaccola sul moggio.

 

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