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LO STATO SIAMO NOI, a cura di ANTONIO CARIOTI

Posted By cubeddu On 2 gennaio 2019 @ 08:46 In Blog,Istituzioni,Politica | Comments Disabled

Conversazione tra FRANCESCO DELL’ORO, MAURIZIO FERRERA e GIUSEPPE REMUZZI

C’ è chi chiede di ridurre il perimetro dello Stato, mentre altri diffidano del privato. Il dibattito è aperto da sempre, ma certo vi sono settori – come la salute e l’istruzione – in cui non si può fare a meno di una presenza della mano pubblica. Per capire come ricalibrare i rapporti tra la politica e il mercato ci siamo rivolti a tre collaboratori de “la Lettura”: il politologo Maurizio Ferrera, il nefrologo Giuseppe Remuzzi e Francesco Dell’Oro, esperto di orientamento scolastico.

MAURIZIO FERRERA  -  Non bisogna porre un’alternativa secca fra Stato e mercato come tipi ideali. Occorre vederli come i poli di una dimensione che presenta tante possibili forme intermedie di combinazione fra elementi dell’uno e dell’altro. Il mercato è imperniato sulla ricerca del profitto, che produce efficienza: si raggiunge un risultato minimizzando i costi. Ma l’efficienza non genera di per sé equità sociale. Nel mercato, diceva Luigi Einaudi, non si entra nudi: ciascuno porta con sé le sue dotazioni naturali e sociali, alquanto diseguali, per cui ne possono scaturire esiti iniqui. Lo Stato a sua volta ha in teoria come scopo il bene comune, ma nei fatti non è un demiurgo premuroso e onnisciente, bensì un prodotto di processi politici che provocano distorsioni. Come i mercati possono risultare inefficaci e iniqui, così la politica e la burocrazia spesso falliscono nel loro compito. Si tratta allora di muoversi in modo accorto, senza pregiudizi ideologici, sul crinale tra le due polarità.

GIUSEPPE REMUZZI – L’obiettivo del privato è sempre il ritorno economico. Ed è giusto che sia così, anzi può essere proficuo, a certe condizioni, per la salute e l’educazione. Lo scopo delle pubbliche istituzioni invece, nel campo della sanità, è guarire le persone e prevenire le malattie. Sono obiettivi completamente diversi. A me sembra un errore dire che al malato non interessa se la struttura che si occupa di lui sia pubblica o privata, purché venga curato bene. Invece c’è differenza se il paziente viene sottoposto a un esame perché la clinica ha bisogno di fare un certo numero di quelle analisi per guadagnare, oppure se l’esame corrisponde a una reale necessità terapeutica. E questo vale anche per gli interventi chirurgici. Per me il privato deve integrare il pubblico dove e quando risulta carente, ma non sostituirlo. Jacques Tenon, un grande chirurgo francese del Settecento, diceva che la protezione della salute dei sudditi è un compito del re. Oggi la responsabilità è del governo.

E quello che lei sottolinea nel suo nuovo libro «La salute (non) è in vendita» (Laterza). Ma può sembrare un’impostazione statalista.

GIUSEPPE REMUZZI – L’economista Mariana Mazzucato ha dimostrato che gli sviluppi tecnologici più avanzati, negli Stati Uniti e non solo, sono sempre stati messi in moto dal settore pubblico, perché quello privato preferisce non avventurarsi in investimenti ad alto rischio, come sono quelli nell’innovazione spinta. Anche la salute è per definizione a rischio. E il diritto alla salute non riguarda solo le cure, ma in primo luogo la prevenzione, alla quale il privato non è interessato. lo mi sono occupato per tutta la vita di evitare che le persone andassero in dialisi, combattendo la progressione delle malattie renali verso quella necessità. Ma ciò è in contrasto con l’interesse di chi ha bisogno del maggior numero possibile di dializzati per aumentare i profitti. Negli Stati Uniti la dialisi, a differenza di altre terapie, è a carico dello Stato: di conseguenza oggi ci sono negli Usa 600 mila dializzati, il 70 per cento dei quali sono serviti da imprese private che letteralmente li comprano per assicurarsi lauti guadagni. Si calcola che la spesa complessiva ammonti all’1 per cento del bilancio federale.

E in Italia?

GIUSEPPE REMUZZI – Da noi c’è il privato accreditato. Cliniche la cui attività è coperta per l’80 per cento da fondi di provenienza statale. Così si sottraggono risorse alle strutture pubbliche per darle a istituzioni che non si occupano solo dei pazienti disposti a pagare di tasca loro, né vengono in soccorso dello Stato dove non arriva, ma pretendono di sostituirlo. Il risultato è che abbiamo due canali paralleli: quello pubblico che stenta e quello privato assai remunerativo per chi lo gestisce. Non condivido i pregiudizi ideologici ostili allo Stato, che non è necessariamente sinonimo di inefficienza. In fondo la grande crisi del 2008 negli Usa è venuta dal’indebitamento privato, non da quello pubblico. Oppure pensiamo al1′outsourcing, l’affidamento di alcuni servizi ai privati da parte di strutture pubbliche. Negli ospedali non funziona mai, nemmeno per il parcheggio, perché a quel punto il criterio direttivo sono gli interessi di chi gestisce il servizio, non le esigenze dei malati. lo una notte sono stato chiamato per un caso urgente e il guardiano del parcheggio, a gestione privata, non mi faceva entrare perché nella fretta avevo dimenticato il badge. Aggiungo che nella farmaceutica l’innovazione è in gran parte opera della mano pubblica. In America i National lnstitutes of lleallh, agenzia governativa, sostengono il 60 per cento delle spese per la ricerca di base, da cui le imprese private traggono enormi vantaggi.

FRANCESCO DELL’ORO – Io porto la mia esperienza nel settore dell’istruzione. Fino al 2013 ero responsabile del servizio orientamento scolastico del Comune di Milano. Dirigevo un’équipe di docenti e ci occupavamo di oltre 60 scuole medie, coinvolgendo migliaia di studenti, genitori e insegnanti. Poi mi hanno rottamato per motivi di età e da allora svolgo lo stesso lavoro come libero professionista. Sulla base della mia esperienza di circa 45 anni nel settore pubblico, vi dico che lo difenderò sempre, perché vi ho trovato persone straordinarie, sensibili, competenti. Spesso ho criticato la scelta di ricorrere a specialisti esterni, perché avevamo professionalità interne che non venivano valorizzate. Però nel pubblico ho riscontrato anche situazioni assurde, in cui più di tutto, nel valutare le persone, contavano le appartenenze politiche o sindacali. Inoltre ho constatato un appiattimento deleterio, per cui l’operatore eccellente veniva trattato allo stesso modo dell’incapace. Mi sono trovato spesso a difendere servizi di qualità nel totale disinteresse degli amministratori che cambiavano con le stagioni politiche, preoccupandosi solo di cercare il consenso. Molte critiche rivolte al settore pubblico, anche nella scuola, nascono da queste distorsioni.

MAURIZIO FERRERA – Certi meccanismi sono nella logica della politica. Come si accede ai ruoli di comando? Attraverso le elezioni. Ottengo i voti e vado al governo, locale o nazionale. A quel punto conservare e ampliare il consenso resta uno dei miei obiettivi primari.

Bisogna essere realisti. Non ha senso criticare lo Stato in nome di un ideale modello teorico di mercato, né prendersela con il mercato ipotizzando che i governanti siano tutti tesi a fare il bene del popolo. Come la corsa all’utile privato, anche la ricerca del consenso nella competizione elettorale, connaturata alla democrazia, può sortire effetti perversi. Del resto l’esperienza dei sistemi collettivisti dimostra che le alternative sono peggiori. Non credo che Remuzzi ci proponga come modello gli ospedali sovietici, che penalizzavano i cittadini comuni avvantaggiando i quadri del partito unico.

Allora vediamo che cosa è successo in Occidente.

MAURIZIO FERRERA – Da noi storicamente la protezione sociale ha conosciuto onde lunghe. Il Welfare è nato con le leggi paternaliste per i poveri, ma poi si è sviluppato, anche in sanità, attraverso le mutue, con i lavoratori che si organizzavano per garantire assistenza ai membri della loro categoria. Poi è intervenuto lo Stato con le risorse fiscali. In seguito all’onda lunga della statalizzazione è subentrata quella del ricorso al mercato. Ora invece si rivaluta la mano pubblica. Queste ondate sono autocorrettive, perché producono effetti negativi che suscitano una reazione. Nel caso della sanità, le assicurazioni private puntano alla scrematura dei rischi, a escludere i soggetti più deboli ed esposti. Perciò lo Stato deve fissare livelli di assistenza garantiti e soprattutto diritti. Ciò significa che, per esempio in base alla nostra Costituzione, il cittadino può invocare dei princìpi a sua tutela e pretendere che siano rispettati ricorrendo all’autorità giudiziaria. In diversi Paesi la voce dei pazienti è ben più organizzata che in Italia. Inoltre l’esistenza di un diritto impegna le autorità pubbliche a facilitarne l’esercizio, ad esempio costruendo scuole e ospedali.

A volte pare che i diritti esistano solo sulla carta.

MAURIZIO FERRERA – Certo. Nel Sud Italia, per esempio, la sanità è preda da decenni di interessi clientelari e particolaristici. I costi sono lievitati e i servizi sono spesso scadenti. Allora bisogna uscire dalla contrapposizione ideologica tra Stato e mercato. Quello che conta sono tre elementi: le regole, il monitoraggio e la valutazione. Uno Stato che svolga bene questi compiti, magari delegandoli in parte ad autorità indipendenti, può anche affidare servizi ai privati. William Beveridge, padre del Welfare britannico, diceva che il mercato è il miglior servitore per raggiungere in modo efficiente gli scopi che ci proponiamo, ma quegli obiettivi non devono essere stabiliti dai privati, bensì da attori pubblici vincolati da regole che impediscano degenerazioni.

In Italia di quelle storture abbiamo molti esempi.

MAURIZIO FERRERA – Basti pensare che il debito pubblico italiano nasce negli anni Sessanta da una voragine determinata nella sanità dal “pagamento a piè di lista”: il sistema per cui gli ospedali fatturavano alle mutue rette di degenza stabilite senza nessun meccanismo di controllo. Il sistema mutualistico accumulo così un debito di quattromila miliardi di lire, che nel 1974 costrinse lo Stato a un’emissione straordinaria di buoni del Tesoro pari al 6 per cento del Pil. Non ci siamo più ripresi da quel trauma, perché coincise  con la crisi petrolifera e generò una spirale perversa. E una lezione da tenere presente: le risorse sono sempre limitate.

GIUSEPPE REMUZZI – Anch’io non vedo un dilemma secco tra pubblico e privato. Credo ci debba essere un’integrazione, perché il profitto è una molla positiva in molti settori. Ma la salute è un caso diverso. Nel 1980 Bud Relman, a lungo direttore del «New England Jurnal of Medicine», scrisse che gli enormi profitti delle imprese attive nella sanità avrebbero generato un’  influenza indebita sulla politica, aggravata dal fatto che queste aziende, come pure le altre,  erano più attente alle esigenze degli azionisti che dei malati.  I fatti oggi danno ragione a Relman. Negli Usa per la sanità si  spendono ogni anno 9.400 dollari a cittadino, il 17,8 per cento del Pil, mentre in Italia ne spendiamo 3.500 (8,9 per cento). Loro sono al diciannovesimo posto nella classifica mondiale per le prestazioni sanitarie, noi tra il secondo e il terzo. Un esperimento sovietico è fallito anche in campo sanitario, però di recente l’”Economist” e il <<Lancet>›, riviste non certo comuniste, hanno ammesso che Karl Marx aveva ragione quando esortava a non affidarsi, per tutelare la salute della popolazione, solo al libero mercato e alle élite orientate al profitto, che magari inventano patologie allo scopo di smerciare i loro prodotti o creano l’illusione di una tecnologia onnipotente in grado di curare ogni male, costosissima e quasi mai capace di cambiare davvero la storia delle malattie.

Come scongiurare questi pericoli?

GIUSEPPE REMUZZI – Innanzitutto smettiamo di denigrare lo Stato, che deve essere un protagonista di rilievo. ll nostro sistema pubblico ha molti meriti, ma urge separare la politica dalla gestione. Non è accettabile che i direttori sanitari e i primari degli ospedali vengano scelti in base al colore politico. In materia d’investimenti, va corretta la situazione per cui il pubblico sostiene l’innovazione, mentre il privato, invece di impiegare le risorse nella ricerca, privilegia le operazioni finanziarie. Così spesso il costo esorbitante di un farmaco non dipende tanto da ciò che serve per produrlo, ma dagli oneri sostenuti per acquisirne il brevetto, magari comprando l’impresa che lo ha scoperto. I governanti devono esigere una sinergia diversa tra pubblico e privato.

MAURIZIO FERRERA – Non credo che si possa sperare più di tanto nel ceto politico, ossessionato dalle scadenze elettorali. Tocca all’opinione pubblica, alla società civile, alla classe dirigente intesa in senso vasto, alle persone come noi, compresi i lettori, farsi sentire di più.

FRANCESCO DELL’ORO – Certamente servono regole per assicurare più efficienza. Vale nella scuola come nella sanità. Ma stiamo attenti: per esempio l’applicazione delle norme internazionali Iso 9ooo per una gestione di qualità è stata molto difficoltosa e non ha determinato cambiamenti reali. Le regole troppo rigide sono inutili, se manca una capacita di aggiustamento alle situazioni concrete. E poi la scuola è  troppo autoreferenziale, sorda, non si apre alle risorse del territorio. Quando vado nei diversi istituti, mine esperto esterno di Orientamento scolastico, i docenti vivono spesso il mio intervento come una formalità, anzi come un disturbo rispetto al loro impegni quotidiani, piuttosto che come un aiuto. D’altronde abbiamo un sistema formativo che è più funzionale alla distribuzione delle cattedre che alla valorizzazione dei talenti. Diamo ai ragazzi un’istruzione valida, specie quella umanistica, ma poco flessibile. Nei paesi anglosassoni ci sono alcune discipline di base e poi si costruiscono percorsi personalizzati. Ma in Itali a sarebbe impossibile, siamo in una situazione bloccata, anche se non mancano realtà di eccellenza.

Come vede, a questo proposito,la questione dell’alternanza scuola-lavoro?

FRANCESCO DELL’ORO – Il rapporto delle camere di commercio sulle competenze richieste ai diplomati e ai laureati dalle aziende registra che i due requisiti più apprezzati sono la capacità di adattamento, cioè saper imparare cose nuove, e l’attitudine a lavorare in gruppo. Ma nota anche che l’83 per cento degli assunti vanno avviati immediatamente a corsi di formazione, perché le aziende non riescono a utilizzarli. Allora l’alternanza scuola-lavoro ha certamente prodotto situazioni critiche, ragazzi che svolgevano mansioni meccaniche senza alcun apprendimento. Ma in altri casi gli alunni, specie quelli degli istituti tecnici e professionali, ne hanno ricavato un forte giovamento. Ritengo quindi sciagurata la scelta del governo di abbandonare l’alternanza scuola-lavoro. E’ un percorso appena iniziato, si possono introdurre correzioni dove emergono difficoltà, ma bisogna proseguire su quella strada.

Come incidono l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dell’immigrazione sui problemi della sanità e dell’istruzione?

MAURIZIO FERRERA – La sfida demografica ha enormi implicazioni, riguardanti la qualità della vita degli anziani e la sostenibilità dei costi sanitari e previdenziali in un Paese con pochi giovani e molte persone in età avanzata. Quanto al problema dei migranti, specie delle seconde generazioni, vedo segnali discriminatori che non sono solo odiosi, perché violano il principio di pari dignità degli esseri umani, ma anche miopi sotto il profilo economico e sociale. Abbiamo bisogno di nuove leve ben integrate, è assurdo penalizzarle. Ma il nodo fondamentale per l’istruzione riguarda le competenze. La nostra scuola in genere funziona bene, ma si basa ancora interamente sulla trasmissione di saperi codificati. Non c’è alcuna attenzione all’adattabilità e alla flessibilità, alle competenze orizzontali che non scadono con il progredire della conoscenza. A parte alcune lodevoli eccezioni, sono doti che non vengono coltivate. Bisogna stimolare la classe insegnante, la quale forse risente del fatto che in media è abbastanza avanti con gli anni.

FRANCESCO DELL’ORO – E dire che certi ragazzi vedono vecchia una professoressa di quaranfanni…

MAURIZIO FERRERA – Vorrei tornare sul modello americano. Ho vissuto negli Usa e ho toccato con mano l’enorme avidità delle assicurazioni sanitarie private e l’inefficienza, spesso l”incuria, degli ospedali pubblici.  Ho avuto esperienze terrificanti. Invece mia figlia frequentava una scuola pubblica di Berkeley con docenti bravi, molte attività, attenzione alle competenze. Lo stesso buon livello riscontravo nelluniversità pubblica

dove lavoravo. Mi sono domandato: come mai le distorsioni del sistema sanitario Usa non si riscontrano nell’istruzione, anch’essa ampiamente condizionata da una logica di mercato? La differenza, secondo me, è questa: nella sanità il mercato, per alzare i profitti, deve scremare i rischi; nella formazione invece bisogna selezionare i talenti, a prescindere dalla provenienza sociale. Le insegnanti della scuola frequentata da mia figlia erano attentissime agli alunni afro-americani, che venivano da altri quartieri in base a un programma che mira a evitare che si creino ghetti a livello scolastico. Questo perché l’istituto veniva valutato e finanziato in base a un test al quale venivano sottoposti tutti gli allievi. Inoltre c’era una grande collaborazione tra la scuola e il quartiere, , con un forte coinvolgimento dei genitori: ad esempio, quando lo Stato ha tagliato i fondi, ci hanno chiesto un contributo economico per le lezioni di ginnastica. Cose che in Italia non succedono quasi mai.

Quindi torniamo ‘all’inerzia della società civile.

MAURIZIO FERRERA – Vale anche per l’alternanza scuola-lavoro. Perché le imprese non s’impegnano di più? I docenti si sono trovati a organizzare queste attività senza fondi, con evidenti difficoltà. Ma non ho visto le associazioni degli industriali mobilitarsi per un’iniziativa che era anche nel loro interesse. Bisogna capire che i beni pubblici non sono un’esclusiva dello Stato, appartengono a tutti noi. Non siamo solo cittadini elettori, ma membri di una società, che non possono delegare tutto all’autorità politica.

GIUSEPPE REMUZZI – Oltre allo Stato e al mercato serve un terzo pilastro: una società civile che simpegni perché l’integrazione tra pubblico e privato sia efficace. Di fronte a questioni epocali come l’invecchiamento della popolazione e i cambiamenti climatici, l’unica soluzione è investire nella ricerca. E serve uno scatto d’orgoglio della classe dirigente, compresi noi operatori del servizio sanitario nazionale. Dobbiamo dare la sveglia a una politica che si perde in dispute inutili e trascura le questioni essenziali, chiedendo che in tuttii settori, a partire dalla salute, si venga valutati sulla base dei risultati qualitativi, non di semplici criteri quantitativi.

MAURIZIO FERRERA – Purtroppo la valutazione della qualità comporta un elemento discrezionale. Ed è per questo che gli insegnanti si sono opposti alla “buona scuola”. Resistono perché temono che i presidi li valutino sulla base di fattori magari personalistici, diversi dal valore del loro lavoro.

FRANCESCO DELL’ORO – In un’audizione a Roma, un anno fa, ho dato due consigli agli esperti del ministero. Il primo: smettete di scrivere e riscrivere continue riforme scolastiche, perché non se ne può più.

MAURIZIO FERRERA – Giusto. Anche perché non spiegano mai le ragioni di questi cambiamenti, per esempio quelli introdotti adesso nell’esame di maturità.

FRANCESCO DELL’ORO – Il secondo consiglio: raccogliamo in forma anonima il pensiero dei ragazzi sulle scuole e sui docenti. Avremo un quadro parziale, ma io ho constatato che i giudizi degli studenti (maschi o femmine, della prima o dell’ultima classe) sugli stessi insegnanti coincidono sempre. E non si preoccupano del fatto che il professore sia severo o indulgente: considerano in primo luogo la competenza e l’interesse che mostra verso di loro, soprattutto nei momenti di difficoltà.

MAURIZIO FERRERA – Nell’università la valutazione dei professori da parte degli studenti ha migliorato la situazione, aumentando la sensibilità dei docenti.

 

 

 

FRANCESCO DELL’0RO -I dati parlano chiaro: la media europea dellinsuccesso scolastico è del 10,7 per cento, ma l’Italia è al 13,8, per giunta in crescita nelle previsioni. E mentre la Lombardiaè al 12, la Sardegna raggiunge il 21,2, la Sicilia il 20,9, la Campania il 19,1, la Puglia il 18,6. Se passiamo ai laureati, la media europea è 39,1 per cento nella fascia d’età dai 25 ai 34 anni: noi siamo penultimi nell’Ue al 26,2, ma solo grazie alle ragazze, che sono al 32, mentre i maschi si fermano al 19. Ovviamente al Sud la situazione peggiora. Il punto fondamentale è la formazione degli insegnanti: ci sono i bravissimi, competenti e appassionati, io li chiamo i “baciati dalle stelle”, poi quelli discreti, che fanno il loro dovere ma senza slancio e faticano a entrare in empatia con i ragazzi; infine quelli che causano danni. Se miglioriamo la qualità generale dei docenti, possiamo rimediare anche alle disparità territoriali.

GIUSEPPE REMUZZI – ll divario tra Nord e Sud è forte, anche per quanto riguarda l’aspettatìva di vita. Ma il turismo sanitario dei pazienti meridionali che vengono a curarsi al Nord, oggi reso meno agevole dalle Regioni del Sud che non pagano più con tanta facilità le spese sostenute altrove, è in gran parte un bisogno indotto dallindustria della salute per motivi di profitto. La soluzione è un rilancio del sistema sanitario nazionale, reso possibile dal prossimo pensionamento di molti medici anziani. Le nuove leve sono di solito molto capaci, ma bisogna vincolare questi giovani in esclusiva al settore pubblico, vietando di esercitare la libera professione a chi lavora negli ospedali del servizio sanitario, perché non è possibile che il cittadino si senta dire che deve pagare per essere operato in tempi brevi da chi ha comunque il dovere di assisterlo. Poi bisogna organizzare vasti progetti di ricerca che coinvolgano medici del Nord e del Sud per uniformare l’offerta terapeutica in tutte le aree del Paese.

MAURIZIO FERRERA – Le carenze più gravi nel Sud riguardano a mio avviso il sistema formativo. Da una parte  i fortunati o intraprendenti vanno a studiare al Centro Nord, con una grave emorragia di capitale umano; dall’altra abbiamo ancora non solo l’insuccesso, ma un’evasione spaventosa dell’obbligo scolastico, vicina ai dati del Messico, da parte di ragazzini che spesso vengono intercettati dalle mafie. Come rimediare? lo penso all’esempio di Barack Obama, che aveva creato un sistema d’incentivi al fine di spingere i docenti più bravi ad andare a insegnare almeno due anni nelle zone disagiate, per aprire orizzonti nuovi ai ragazzi di quelle regioni. In Finlandia hanno fatto qualcosa di simile nel loro Nord depresso, creando un ateneo di eccellenza a Rovaniemi. Forse dovremmo imitare questi sforzi nel nostro Sud, anche in campo sanitario.

Antonio Carioti,  SU LETTURA DE IL CORRIERE DELLA SERA, 9 DICEMBRE 2018

 

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