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“E’ evidente che noi Sardi abbiamo mille motivi per sentirci orgogliosamente un Popolo, e la nostra terra può e deve essere considerata una nazione”: è l’attacco della Relazione di RITA PODDESU al 7° Congresso della FLAI CGIL SARDEGNA

Posted By cubeddu On 9 novembre 2018 @ 18:23 In Agricoltura,Blog,Movimenti sociali, sindacati | Comments Disabled

Pubblichiamo la relazione della dott. sa Anna Rita Poddesu (nella FOTO).  Finora, nel sindacato confederale, solo i metalmeccanici della Federatzione Sarda Metalmeccanicos (cISL), a partire ufficialmente  dal 1985, avevano introdotto i loro congressi con parole simili ed al suono della launeddas che accompagnavano l’inno della Nazione sarda, Procurad”  e moderare…). Complimenti ed auguri.

 

 

 

Gentili ospiti, care compagne e cari compagni,
benvenuti al 7° Congresso della FLAI CGIL SARDEGNA.

E’ evidente che noi Sardi abbiamo mille motivi per sentirci orgogliosamente un Popolo, e la nostra terra può e deve essere considerata una nazione.

Questo lo dice la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra storia millenaria che seppur abbia subito diverse dominazioni, ha conservato e difeso i suoi tratti distintivi. La civiltà nuragica è li a testimoniare che la nostra è una storia unica, e la grandezza di quel periodo, la fierezza, l’organizzazione sociale e militare, gli strumenti di comunicazione, quelli di difesa, e l’arte arricchita nel 1974 con la scoperta che il popolo dei Nuragici, si è espresso non solo con i Bronzetti, ma anche con i Giganti di Monte Prama: tutto ciò è la dimostrazione che la Sardegna è stata la culla della civiltà nuragica, antichissima, presente nella nostra terra, con qualche testimonianza in Toscana. Ecco perché parliamo di popolo e di nazione.

Certamente a differenza di altri popoli noi abbiamo dovuto decifrare, studiare, capire chi erano, cosa facevano, come vivevano i nostri antenati, quale fosse la loro economia, come si muovevano, se erano in contatto con altri popoli e se con le nazioni limitrofe ci fosse conflitto o invece solo scambi commerciali. Ma la consapevolezza del valore di questo grande patrimonio deve tradursi nel dare pieno valore al diritto ad essere un popolo e una nazione che rivendica le sue specificità da trasformare in opportunità per rilanciare con fierezza quelli che sono i tratti peculiari della nostra storia e della nostra identità.

In questa giornata ci pregiamo di fare un dono di grande valore: la collana “Buongiorno Sardegna” ad opera di Giuseppe Dei Nur, pubblicata dall’Unione Sarda, oggi presente ai nostri lavori con il suo Presidente.

L’opera in modo romanzato ripercorre la nostra storia, mette in evidenza, con orgoglio i nostri tratti peculiari, le opportunità che abbiamo avuto, i “guasti” e i danni provocati dalle dominazioni straniere, le occasioni mancate, ma anche quelle che possono essere le azioni politiche e culturali che dobbiamo mettere in campo.

Un’opera illuminante che rappresenta un patrimonio culturale di straordinaria rilevanza di cui tutti i sardi e non solo, devono esserne a conoscenza per ricostruire e alimentare la propria consapevolezza, il proprio orgoglio e l’identità di popolo sardo, perché un popolo forte della sua identità è un popolo forte della sua coscienza collettiva, del suo valore e della sua forza nel rivendicare e salvaguardare i suoi diritti. Perché attraverso quei processi di identificazione, individuazione, imitazione e interiorizzazione degli archetipi, delle forme, dei simboli che l’ambiente e la cultura di un popolo trasmettono, l’individuo costruisce una coscienza collettiva, che a sua volta restituisce un senso migliore del sé ideale, verso l’auto realizzazione, che si trasmette con l’orgoglio, con il senso di appartenenza e di difesa della propria identità.

Ecco perché credo che sempre più si debbano declinare alcuni concetti, oggi usati e propinati in modo fuorviante, quali nazionalismi, populismi, sovranismi, e via via raccontando non come un becero e pericoloso ragionamento per rinchiuderci dentro i confini nazionali, costruendo muri, blocchi navali o reticolati di filo spinato che potrebbero portare, come del resto successo in altri periodi storici, a terribili catastrofi umanitarie, tantomeno usare e agitare questi concetti per nascondere le nostre incapacità ad affrontare temi che affliggono i popoli, ma piuttosto declinarli come opportunità per creare una coscienza collettiva che pur mantenendo le specificità e peculiarità dei vari popoli e nazioni europee, ci si adoperi tutti per creare una Europa sempre più forte e foriera di opportunità per tutti i popoli, sia dal punto di vista economico, ma anche culturale, sociale, prima di tutto come un luogo di pace, di tolleranza, di solidarietà, cosi come i padri fondatori l’hanno pensata.

Perciò, non meno Europa, ma più Europa, una Europa diversa attenta ai bisogni dell’economia ma anche e soprattutto alle persone, alle donne e agli uomini che lavorano, che hanno lavorato, che hanno costruito l’economia del nostro Paese.

Credo che la Sardegna abbia pieno titolo a rivendicare le proprie specificità all’Europa non come una concessione ma come una opportunità che fa crescere le coscienze collettive nell’affrontare e risolvere i problemi che finora non hanno permesso ad alcune zone dell’Europa di crescere in modo omogeneo e solidale.

La nostra terra ha dato i natali a tanti personaggi di spicco, mi piace ricordare Grazia Deledda nel 1927 prima donna Premio Nobel, fra i venti in Italia, Antonio Gramsci uno dei maggiori pensatori e intellettuali italiani, Enrico Berlinguer storico dirigente della sinistra italiana e grande intellettuale, ma lo stesso Cossiga così come Antonio Segni, Renzo Laconi, ma anche tanti altri personaggi importanti “sardi nel mondo”, di cui tutti dobbiamo sentirci orgogliosi, che hanno dato il loro contributo per affrancare il nostro popolo da dominazioni secolari, e per costruire il valore e la specificità della Sardegna, oggi sempre più apprezzata e ambita nel resto d’Italia e nel mondo.

Ma il problema è se la specialità e particolarità indicata dallo Statuto Speciale per la Sardegna approvato ai sensi lell’Art.116 della Costituzione Italia con la legge n. 3 il 26 febbraio 1948, l’abbiamo saputa cogliere, oppure l’abbiamo sprecata per incuria o incapacità di dar valore noi stessi per primi alla nostra terra, alla nostra storia, ai nostri valori, alle nostre potenzialità, per scarsa attenzione, o per scarsa etica e responsabilità o per incapacità di governo e di indirizzo da parte della classe politica: il risultato è che la specialità non si è mai tradotta in vantaggio, anzi…

Ci confrontiamo e rivendichiamo quotidianamente in tutti i contesti possibili il superamento di alcuni gap infrastrutturali materiali e immateriali che caratterizzano le i trasporti e la viabilità rurale, l’energia, l’acqua, le reti digitali, la scuola, il credito, la sanità, il funzionamento della Pubblica Amministrazione, ancora oggi esistenti, che indeboliscono pesantemente la capacità produttiva e competitiva della nostra terra, determinando un forte ritardo nello sviluppo economico, sociale e occupazionale.

Oggi però andiamo oltre le rivendicazioni per costruire una riflessione sulla condizione del popolo sardo e attraverso una ricerca di significati, esplorare quali strategie possiamo costruire per superare il gap, per ergerci da questa situazione di eterno svantaggio: la Sardegna non merita di essere trattata in questo modo, è necessario costruire un segnale di totale discontinuità a questo modello, prima che sia troppo tardi.

Nel libro che ho citato prima, c’è la metafora del tubo che collega la Sardegna al resto d’Italia, dentro questo tubo scorre un fiume di danaro che arriva ma viene disperso, non utilizzato, rimandato indietro: i fondi dei piani di rinascita, i vari fondi comunitari, i vari patti con aziende di stato, con il governo nazionale cosa hanno prodotto? Come li abbiamo spesi, anzi sprecati?

Quindi il tema è soprattutto quello relativo alle scelte di governo e di indirizzo della Sardegna, che vengono fatte o non fatte, alla mancata pianificazione e costruzione di un progetto di sviluppo strutturale compatibile e sostenibile, e alla qualità della classe dirigente Sarda, della politica, della classe imprenditoriale, delle organizzazioni di massa, del singolo cittadino e della cultura atavica, dominante nella nostra terra.

Se non facciamo una seria riflessione su questi aspetti, continueremmo a crearci degli alibi per nascondere il nostro fallimento ed essere ancora prigionieri delle nostre tare e gabbie mentali, e a continuare ad avvitarci in quello stesso modello che ci ha portato all’attuale situazione. E’

 

necessario perciò un importante salto di qualità a partire dalla classe politica, e arrivare ad un concreto cambiamento culturale, perché la Sardegna e il popolo sardo diventino protagonisti del loro futuro.

A marzo ci sono state le elezioni nazionali, a febbraio avremmo quelle regionali, a maggio quelle europee: tre momenti importanti che segneranno indelebilmente il futuro delle nuove generazioni.

Sulla legislatura Sarda che volge al termine il giudizio della Flai è articolato. L’inizio legislatura ha dovuto fare i conti con una eredità, lasciata dalla Giunta Cappellacci, in cui tutti i settori produttivi economici e sociali sono stati devastati dalle politiche scellerate portate avanti dalla maggioranza, e il programma con cui si è presentata la Giunta Pigliaru faceva presupporre una inversione di tendenza, che in alcuni settori c’è pure stata. Le strategie relative al piano di sviluppo indicate nel Piano Strategico, la scelta di interventi su settori importanti del sistema economico sardo, quali l’ambiente, il settore primario e quello dell’Agroindustria, oltre quelli legati alle riforme sui vari settori, hanno creato speranze e attese che per certi versi e in relazione ad alcune vicende sono state deluse.

A prescindere da come la possiamo pensare noi, il dato inequivocabile è che comunque esiste tra la popolazione sarda un sentire comune negativo nei confronti di chi ha governato la Sardegna negli ultimi anni. Il continuo conflitto all’interno della maggioranza, gli atteggiamenti da prima donna di ogni schieramento politico hanno fatto apparire tutto negativo al punto che si rafforza sempre di più la voglia e l’esigenza di cambiamento.

Se analizziamo il dato consolidato notiamo che mentre nel Paese la disoccupazione scende all’11,2%, il valore più basso da quattro anni, in Sardegna cresce passando dal 15% del 2016 al 17% del 2017 rimanendo in linea con i dati delle regioni del Sud.

Anche il tasso di occupazione scende dal 51,2% al 50,5% con gli occupati, che scendono a 562mila, rispetto ai 568mila del 2016. La disoccupazione giovanile resta il grande cruccio della Sardegna che continua ad essere a livelli insostenibili attestandosi costantemente al 56,4%, con una media nazionale al 40,3%. Dei 562mila occupati, 434mila sono occupati nei servizi, 54mila operano nell’industria, 40mila nelle costruzioni e 34mila in agricoltura.

Il reddito pro capite in Sardegna è cresciuto del 2,6% ottenendo una performance superiore al resto del mezzogiorno e persino a quella nazionale. In termini assoluti però il reddito disponibile per gli italiani è di 20.660, quello sardo è di soli 16.490.

Questi pochi dati ci presentano un’isola che non cresce o cresce poco a causa della bassa qualità delle istituzioni e del governo, di infrastrutture carenti e un basso livello di istruzione fra i più bassi in Italia, dati che paiono sufficienti a descrivere la condizione in cui versa la nostra economia e la situazione sociale del territorio isolano che vede un costante arretramento e registra un pesante gap strutturale con il resto di Italia. Ancora ci confrontiamo con il risultato di scelte sbagliate o non scelte che condizionano pesantemente sulla nostra economia.

Ma allora se è vero ciò che abbiamo detto in precedenza, a cosa è servito avere una Regione a statuto speciale? Ad avere specifiche competenze su materie importanti demandate dalla norma di legge costituzionale? Evidentemente non basta essere una Regione autonoma se non si riesce ad esprimere una classe dirigente che sa cogliere le opportunità offerte e le indirizza verso scelte, azioni e modelli di governo in grado di costruire le leve di un cambiamento culturale e strutturale e costruire così una visione del futuro.

Nel tempo le condizioni di arretratezza economica della nostra Isola, sono state l’alibi della classe politica dirigente a far pensare che tali condizioni fossero la conseguenza di una eccessiva presenza nel sistema economico isolano del comparto agro-pastorale, individuata come la causa del malessere, anche sociale, che ha vissuto la nostra isola. Così l’industrializzazione e la modernizzazione del sistema economico italiano, anche se in misura inferiore, permeò velocemente anche la Sardegna, che attraverso il Primo Piano di Rinascita, modificò il sistema produttivo, passando da quello agro pastorale ad uno più industriale.

Certamente quella scelta consentì alla Sardegna di uscire da una condizione di arretratezza economica, per andare verso la modernizzazione della società sarda, che per molto tempo quasi si è vergognata di avere una origine agro-pastorale, non comprendendo però che l’industrializzazione si sarebbe potuta realizzare facendola convivere con il sistema agricolo, senza sostituirlo. Perché quel modello, finanziato con ingenti risorse di denaro pubblico mostra ora evidenti punti di criticità, al punto che si ragiona da tempo su come e su cosa puntare per far uscire la Sardegna da una situazione di crisi economica e occupazionale assai preoccupante.

Noi, la Flai, con la CGIL, sosteniamo da tempo che in Sardegna un nuovo modello di sviluppo è possibile grazie alla valorizzazione delle nostre produzioni agroalimentari caratterizzate dalle peculiarità e specificità della nostra terra: l’abbiamo sostenuto in tante occasioni, fra le più importanti a partire dal Convegno di Nurri nel settembre 2006 “Lo sviluppo rurale: una opportunità da non perdere”, dove allora il tema sembrava una utopia. Lo abbiamo sostenuto a novembre del 2012 a Palazzo Regio a Cagliari all’importante Convegno “L’agroalimentare. Un valore antico per costruire il futuro”, di cui sono stati pubblicati gli atti, e ancora l’abbiamo sostenuto nei Convegni del 2016 e 2017 su pesca, agricoltura e zootecnia, forestazione, di cui pubblichiamo gli atti con 5° numero dei Quaderni del Lavoro della CGIL.

Riteniamo che la filiera agroalimentare possa e debba essere il volano dello sviluppo, e che il comparto industriale, quello dell’agro-industria e quello dell’allevamento, possono in modo intelligente convivere, perciò si devono sviluppare delle sinergie interessanti tra il settore agroalimentare con tutti i settori produttivi del territorio, per costruire un forte contributo alla fuoriuscita della Sardegna dalla crisi che sta vivendo e trarre opportunità di crescita economica, sociale e occupazionale.

Il “fenomeno” agro-pastorale è stato analizzato in tutte le sue componenti, però spesso lo studio si è concentrato solo sugli aspetti di criticità con scarsa attenzione alle reali potenzialità che il comparto può esprimere, ragionando su come il processo sta evolvendo per comprendere appieno quale è il reale contributo che il comparto può offrire all’intero settore produttivo sardo.

Una parte importante degli allevatori ha dimostrato una grande capacità di cambiamento, rivedendo e riorganizzando il sistema produttivo. Infatti da un lato stiamo assistendo al ridimensionamento del numero delle aziende con la conseguente modifica delle strategie di allevamento, dall’altro ad una modifica delle strategie produttive delle aziende di trasformazione, che prestano sempre più attenzione alla diversificazione e alle produzioni di qualità, vera opportunità per conquistare nuovi mercati e costruire valore aggiunto dalla trasformazione e creazione della filiera produttiva.

Questa è la vera svolta che può risolvere il problema relativo alla sovrapproduzione di latte: migliorare gli standard qualitativi e conseguentemente quantitativi perché esistono attualmente dei mercati sconfinati e inesplorati come la Cina, la stessa Africa, che sarebbero in grado di assorbire in breve tempo, non solo la produzione attuale di latte ovicraprino, ma di favorire aumenti della domanda di grande interesse per le nostre produzioni che sono sempre più apprezzate nel mercato europeo e possono trovare risposta nei processi di commercializzazione e internalizzazione delle aziende sarde. Questo può avvenire però, se saremmo capaci ad innovare e rispondere ai bisogni alimentari delle persone che hanno esigenze e culture alimentari differenti dalle nostre. Per fare ciò però è necessario che il settore riesca sempre di più ad internazionalizzare la propria visione produttiva uscendo dai confini interni alla nostra regione.

Al punto in cui siamo diventa improcrastinabile puntare sulla qualità della materia prima, sulla diversificazione del prodotto, sull’aggregazione delle aziende, sulla politica di commercializzazione, sul ricambio generazionale. Si intravedono alcune esperienze di cambiamento; certamente non siamo ai livelli di altre esperienze nazionali o comunitarie, dove esistono dei veri e propri distretti e il prodotto si identifica completamente con il territorio di provenienza, ma anche in Sardegna si intravedono segnali importanti relativi al crescente apprezzamento delle nostre produzioni.

Ora però è più che mai urgente rivisitare il modello di assistenza al mondo agricolo, senza il quale ogni ragionamento sulle produzioni e sulla loro qualità diventa un non senso: parliamo del tassello mancante costituito dalle Associazioni degli allevatori, ancora oggi, ingiustamente tenute ai margini dei ragionamenti che si fanno sul mondo agricolo. Perché si parla sempre dell’importanza dello sviluppo del settore agricolo sapendo che è una delle azioni strategiche enunciate dalla Giunta, ma paradossalmente anche qui sinora non si è risolta la condizione di precarietà in cui vivono i tecnici che svolgono un ruolo funzionale e fondamentale allo sviluppo del settore agricolo e zootecnico.

Pur sapendo che il filo conduttore di questa relazione non prevede la specifica disamina delle criticità quotidiane, ci sono in particolare 2 vertenze, Associazione Allevatori provinciale e Regionale e Forestas, la cui soluzione è fondamentale per lo sviluppo della Sardegna, sulle quali pesano determinate scelte politiche e di governo e sulle quali una Organizzazione sindacale come la Flai non può esimersi di riprendere alcune considerazioni anche in questo contesto, data la importanza e la gravità.

Da mesi e ancora attualmente, persino la tenuta dei libri genealogici e i controlli funzionali a Cagliari e Sassari sono stati cancellati causando oltre che un detrimento della qualità del servizio, la perdita di 13 posti di lavoro, la soppressione di tre APA provinciali e il mancato pagamento ancora ad oggi delle retribuzioni ai dipendenti di Sassari e Cagliari da oltre 12 mesi, che vivono una condizione ormai drammatica.

In Sardegna, il 26 giugno 1980, è stata costituita l’Associazione Regionale Allevatori della Sardegna, (ARAS), giuridicamente riconosciuta con decreto del Presidente della Giunta Regionale n. 19 del 9 marzo 1982. Negli anni, l’ARAS ha fornito un importante contributo alla crescita della competitività del settore zootecnico regionale, e su incarico, ultimamente di LAORE, realizza il Piano Operativo di Assistenza Tecnica (POAT) finalizzato all’implementazione di un processo virtuoso di miglioramento della qualità del latte e dei suoi derivati.

Finora la Regione Sardegna, su questa vertenza, ha assunto provvedimenti pasticciati e forse pure inattuabili che hanno tenuto il comparto e i lavoratori che vi lavorano in una condizione di precarietà e di scarsa adeguatezza ai bisogni del comparto. E’ per questa ragione che appare incomprensibile il fatto che non si riesca a chiudere la vicenda dell’Aras arenata in una secca oscura dai risvolti poco chiari mentre il mondo allevatoriale rischia di rimanere senza assistenza.

Cosa deve succedere ancora dopo che è stata messa in liquidazione l’Associazione, per convincere la Giunta Regionale che la strada intrapresa, cioè quella di chiedere una deroga al governo sui limiti assunzionali attraverso la legge 3/2009, è improbabile e per certi versi persino dannosa per parte dei lavoratori?

Crediamo non si debbano fare più calcoli politici, bisogna da subito procedere verso una delle soluzioni prospettata da tempo dalla nostra organizzazione attraverso la creazione di una struttura funzionale alla regione per dare certezze ai lavoratori, anche in vista del 2020, e dare la garanzia alle aziende che potranno ricevere nuovamente da una struttura aziendale tutta l’assistenza di cui hanno bisogno. Qualche settimana fa sono stati nominati dal Presidente del Tribunale di Cagliari 2 nuovi liquidatori che hanno preso l’impegno di assicurare una continuità dell’attività fino alla scadenza della convenzione con Laore.

Altra vertenza importantissima che riguarda la Sardegna, soprattutto quella delle zone interne, è relativa alla presenza nel territorio dell’Agenzia Forestas, che dovrebbe essere lo strumento che attua le politiche forestali previste dalla legge 8/2016.

Il sistema agro-forestale ambientale sardo, malgrado le carenze, e l’abbandono in cui è stato lasciato dalla politica, è ormai una realtà estremamente importante oltre che per la gestione del territorio, anche per il ruolo che può avere nello sviluppo economico e sociale della nostra Regione, essendo lo stesso ritenuto da tutti come uno dei settori strategici fondamentali su cui puntare.

Lo sfruttamento della montagna può favorire la nascita di attività compatibili con l’eco sistema in grado di offrire nuovi sbocchi occupazionali per i giovani e meno giovani che credono ancora nel loro territorio.

L’ambiente nella nostra Regione si caratterizza anche per una notevole differenziazione e diversificazione delle risorse. A distanza di pochi chilometri possiamo godere di un ambiente completamente diverso, mare, montagna, bosco, lago, con tutto ciò che ne deriva sotto l’aspetto della economia, della storia, delle tradizioni e dell’identità di quel luogo.

Nel nostro territorio regionale sono dislocati siti minerari immersi nel verde e situati spesso nel cuore della montagna, con villaggi minerari che possono e debbono essere recuperati come strutture logistiche e attrezzate per la fruizione di servizi culturali legati alla conoscenza del sottosuolo e delle sue produzioni, alla conoscenza dei processi produttivi ed estrattivi che sono tanta parte della nostra storia, e “Si potrebbero così rendere nuovamente percorribili sentieri percorsi dai minatori, dai carbonai e, perché no, dai bracconieri, che, attraverso i boschi e le vallate, rendevano comunicanti i piccoli paesi montani, attrezzandoli, come già detto, con servizi di accoglienza e culturali”. Questa è una parte virgolettata, estratta da una relazione presentata al Congresso FLAI del 2006: così come per tanti altri temi la Flai ha precorso i tempi, con le sue elaborazioni. Fa immenso piacere che i nostri ragionamenti siano stati fatti propri dalla Regione e che gli Assessori all’Ambiente e al Turismo abbiano ora inserito nella legge sul turismo la Rete escursionistica dell’Isola. Cosi come tanti altri ragionamenti sul modello di sviluppo da noi enunciati in 10 anni in tante occasioni, fra le quali quelle citate precedentemente.

Però capita molto spesso che la Giunta Regionale tiene conto dei soggetti che a vario titolo si occupano di ambiente, ma trascura, sbagliando, di confrontarsi con i rappresentanti del mondo del lavoro, quasi che il lavoro, i lavoratori e le loro rappresentanze non avessero nessuna importanza.

La Sardegna con oltre un milione e trecentomila ettari di bosco si colloca al primo posto tra le regioni italiane più boscate. Di questi solo 220.516 ettari sono gestiti attualmente da Forestas: di cui 83.500 sono costituiti da aree demaniali in comodato d’uso, 1.491 di proprietà dell’ex Ente foreste, 92.829 è costituito da aree comunali in concessione, e 42.673 sono gestiti da privati in occupazione temporanea. Come si evince da questi dati appena il 15% del territorio boscato è gestito da Forestas, che ha un ruolo fondamentale in Sardegna, non solo per la cura del bosco ma perché occupa 5.500 lavoratori.

Sulla gestione del territorio boscato in Sardegna e sulla necessità di avere una struttura che ha il compito di intervenire anche nella sistemazione idraulico-forestale del nostro territorio, il legislatore sardo se ne è occupato organicamente a partire dal 1999 quando con la legge 24/99, venne istituito l’Ente Foreste della Sardegna.

L’attuale maggioranza, consapevole dei limiti intrinsechi della Legge 24, ha approvato la legge forestale, la n. 8/2016, che contiene elementi di grande positività che però restano inattuati per limiti operativi evidenti legati ad un’assenza di strategia operativa all’interno dei compendi gestiti da Forestas.

 

Il sindacato ha creduto, forse ingenuamente, che la legge n. 8/2016, contenesse gli anticorpi per allontanare da sé l’invadenza della politica, che nel tempo ha assunto dimensioni veramente pesanti, perché manda il sistema fuori controllo e rende l’attività improduttiva e parassitaria, in quanto deresponsabilizza il gruppo dirigente che non dà più valore al ruolo e alla missione che gli viene affidata.

Noi invece vogliamo credere ad una classe politica che ha in testa un progetto a lungo termine, una classe politica che capisce la sua missione di governo e che la porta avanti a prescindere da pressioni corporative; vogliamo pensare ad una politica che si pone l’obbiettivo di salvaguardare l’ambiente, l’aria, l’acqua, la salute dei cittadini tutti, che combatte la corruzione; una classe politica che ha il coraggio di fare delle scelte attraverso le riforme e che non si fa intimidire da pressioni di potere.

Questo ragionare ci porta comunque ad affermare il grande valore intrinseco della legge 8/2016 che può essere giudicata tra le migliori riforme varate da questa amministrazione, ma anche a constatare che purtroppo il legislatore si è fermato, non si è più occupato di dare gli strumenti affinché l’Agenzia fosse messa in condizione di assolvere al suo compito. Basta fare un giro nei cantieri per rendersi conto dello stato comatoso in cui si trova la struttura.

Dispiace che tutto sia rimasto sulla carta soprattutto se si pensa a come e quanto ci siamo spesi come organizzazioni sindacali nel prospettare ai lavoratori l’idea che la nuova legge avrebbe avuto un ruolo davvero importante nel sistema Sardegna.

Consapevoli delle numerose difficoltà che si sono anche sedimentate nel tempo, non siamo tra coloro che pensano che una rivoluzione di tale portata si potesse realizzare in poco tempo, in considerazione anche degli obiettivi ambiziosi che la legge si è posta, non possiamo tacere sul fatto che chi avrebbe dovuto agire nella direzione indicata dalla legge, per poterla applicare e vederne realizzati gli indirizzi, ha lasciato che le cose andassero così come vanno da qualche decennio. Perché? Per quale motivo?

L’assenza di una riorganizzazione delle attività ordinarie e straordinarie, la mancanza di una visione strategica e consapevole dell’importanza dell’Agenzia, il mancato intervento sul personale per quanto riguarda il giusto riconoscimento professionale che solo ultimamente si sta affrontando, l’assenza di interventi circa il ringiovanimento degli organici, il disinteresse della politica che non si è preoccupata di vigilare circa i risultati da conseguire, unitamente ad una errata valutazione sul modello di governance che si è deciso di dare all’agenzia, ci fa dire che esiste il rischio concreto che tutto l’impianto riformatore della legge e tutto il suo valore, possano naufragare pericolosamente, se non si individua un chiaro segnale di discontinuità rispetto al passato.

Anche le relazioni sindacali non godono di ottima salute: lo Statuto, il regolamento del personale e il Piano della Performance, sono stati assunti tutti dall’Amministratore unico in completa discrezionalità senza il consenso dei lavoratori per tramite delle loro rappresentanze, questo non giova a nessuno.

Noi sappiamo bene che il sindacato confederale spesso è scomodo per i governanti e per una certa politica. Siamo portatori di interessi generali senza mai trascurare il particolare, ed è per questo che siamo i veri nemici del sindacalismo autonomo e di mestiere presente soprattutto nel mondo della pubblica amministrazione. La nostra azione ha un orizzonte complessivo, non foss’altro perché i lavoratori che rappresentiamo sono anche cittadini che hanno diritto ad avere servizi, scuole ospedali, trasporti, occupazione stabile e buona: in quest’ottica ci siamo sempre mossi e abbiamo agito, nell’interesse dei lavoratori, e il sindacato confederale resta un presidio di democrazia perché difende strenuamente il CCNL che è condizione di garanzia e di equità per i lavoratori.

E’ davvero paradossale che su una vertenza come quella relativa all’inquadramento contrattuale dei forestali, il sindacato confederale, ai massimi livelli sia impegnato a contrastare la più becera delle posizioni di una classe politica che fa del populismo e della demagogia la sua azione quotidiana, che si scontra con la volontà dei lavoratori espressa in occasione della manifestazione del 10 maggio a cui hanno partecipato oltre 1500 forestali, e nonostante questo la 1 Commissione Autonomia procede con l’approvazione di un DDL pesantemente dannoso per la maggior parte dei lavoratori per rispondere agli interessi corporativi di un gruppo ristretto di 100 quadri.

Fortunatamente abbiamo importanti soddisfazioni dall’industria alimentare che è presente in Sardegna con esperienze gestionali diversificate, con diversi poli di eccellenza e un tessuto di medie e piccole imprese spesso di grande pregio dal punto di vista della tipicità dei loro prodotti, talvolta meno dal punto di vista organizzativo, date le dimensioni aziendali limitate.

Infatti il settore alimentare sardo ha condizioni strutturali che meritano attenzione. Le aziende alimentari, in Sardegna sono 1999, di queste 543 hanno un solo dipendente, 852 da due a cinque dipendenti, 113 da 10 a 15, e solo 94 aziende hanno alle proprie dipendenze più di 15 lavoratori e solo una ha più 200 dipendenti. Da questi dati emerge chiaramente quali siano le dimensioni, e quali problemi vivano le aziende alimentari Sarde e quanta fatica devono fare per raggiungere e imporsi nel mercato.

In Sardegna, è rimasta solo una multinazionale, l’Heineken, che, attraverso una politica lungimirante e forti investimenti ha puntato, oltre che alla qualità del prodotto, anche sull’aspetto identitario individuando nuovi mercati e puntando sulle nuove esigenze dei consumatori, raggiungendo perfomance di produzioni quantitative e qualitative mai raggiunte in passato; tutto ciò, ovviamente consente di mettere al sicuro i livelli occupazionali e fa ben sperare in una crescita importante della produzione e del numero dei dipendenti.

Un’altra importante realtà, L’AS.do MAR, azienda leader nel settore tonno in scatola interamente lavorato nello stabilimento di Olbia, che ha rilevato l’attività della Palmera, ha dimostrato che si può fare impresa andando controcorrente, allocando le proprie produzioni in un’isola, quindi con costi di trasporto delle materie prime e di quelle lavorate che incidono sul costo finale del prodotto, dove il costo del lavoro è quello stabilito dal CCNL dell’industria alimentare, e ha fatto della sostenibilità ambientale una filosofia imprenditoriale indiscutibile. Sicuramente un bell’esempio da seguire da parte di altri imprenditori che non perdono occasione per giustificare la loro decisione di delocalizzare le proprie attività con il pretesto del costo del lavoro troppo alto.

Un’ altra importante realtà è costituita da Granarolo che è intervenuta rilevando la Casearia Podda, mantenendo la specificità delle produzioni sarde e inserendole in un mercato nazionale, costruendo importanti opportunità di crescita.

Abbiamo anche tante altre realtà produttive d’eccellenza nel settore caseario e vitivinicolo.

Nonostante i limiti e le carenze evidenziate per le piccole imprese, il settore dell’industria alimentare dimostra comunque una certa vitalità e si distingue, per produzioni che guardano con sempre maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale, all’innovazione dei prodotti, alla ricerca costante della qualità e specificità delle produzioni e alle buone prassi sociali e contrattuali. Per questo motivo le aziende presenti nel settore lattiero caseario, in quello vitivinicolo, della pasta fresca e dolciario, fanno della Sardegna una regione che è sempre più sotto osservazione da altri mercati, anche finora quasi del tutto inesplorati.

La ricerca costante della qualità va posta in essere anche nel campo della pesca e degli allevamenti di acqua-coltura: abbiamo l’esigenza di rilanciare lo sfruttamento ad uso più appropriato dei nostri preziosi stagni e delle limpide acque marine, e coniugarla con l’esigenza di indirizzare tale allevamento verso prodotti di qualità.

La Flai su questo tema ha sviluppato la propria iniziativa sindacale, approfondendo il ragionamento attraverso un confronto con tutti gli attori istituzionali, sociali economici e imprenditoriali e dell’Università, al fine di esplorare tutte quelle potenzialità che il settore può offrire in termini occupazionali e produttivi all’intero sistema economico della Sardegna, partendo da alcuni dati che paiono davvero rilevanti. Infatti la Sardegna dispone di circa 14.400 ettari ripartiti in 59 lagune e stagni costieri; in 19 di questi, concessi dalla regione ad altrettanti soggetti e pari a 8500 ettari, vengono svolte attività di pesca intensiva. In tali attività sono occupati circa 1000 pescatori (fonte LAORE), che faticano a ricavare dalla loro attività un reddito accettabile. Ma ben sappiamo che l’estensione delle coste sarde è pari a 1.840 km e che il sistema regionale soddisfa appena il 30% del fabbisogno alimentare.

Ecco perché riteniamo fondamentale il ruolo dei Flag, alla cui costituzione la Flai con l’Alpa hanno partecipato, per contribuire alla costruzione di una strategia di sviluppo locale di tipo partecipativo e ragionare sull’integrazione con il settore agricolo, con quello dell’agro-industria, con il settore turistico, e costruire cosi una sinergia tra settori produttivi.

Le lagune e gli stagni sardi hanno un elevatissimo valore naturalistico ed economico per l’attività della pesca, e sono tra i più estesi d’Europa, sono riconosciuti per la ricchezza della flora e della fauna. Sono ambienti di confine tra la terra e il mare e rappresentano ecosistemi dove è elevata la biodiversità.

Altro fattore di grande pregio è dato, dalla presenza nel territorio regionale di attività di acquacoltura, mitilicoltura, molluschicoltura con prodotti di grande eccellenza che possono avere successo nel mercato con un aumento della richiesta diretta da parte dei consumatori, e con importanti opportunità di trasformazione delle materie prime, vera opportunità di creazione di valore aggiunto.

L’attività di molluschicoltura in Sardegna ha raggiunto livelli di eccellenza con prodotti che sono considerati di alto pregio; a nostro parere le attività vanno incrementate perché tali attività si conciliano perfettamente con il rispetto dell’ambiente, dell’eco-sistema e cosa non trascurabile creano reddittività e occupazione.

Partendo da questi punti di forza crediamo necessario che le istituzioni, i partiti politici, le associazioni di rappresentanza, le imprese della pesca e i lavoratori, prendano consapevolezza dell’importanza che riveste il comparto, del contributo che è in grado di dare al sistema economico dei territori costieri e di quelli dell’interno attraverso politiche di integrazione tra pesca e settore agroalimentare e turistico affinché anche il comparto della pesca possa dispiegare tutte le sue potenzialità e diventare un fattore di sviluppo economico.

Il tassello fondamentale, il collante delle nostre politiche di sviluppo e delle nostre produzioni è ovviamente l’agricoltura. Perché dall’agricoltura e dalla pesca possono derivare tutte le opportunità di costruzione di una filiera agroalimentare. L’agricoltura ha sempre avuto nella nostra società un ruolo primario, non solo dal punto di vista economico-produttivo e di sussistenza, ma anche dal punto di vista sociale: ha in buona parte costituito la base della nostra cultura, delle nostre tradizioni, ha costruito le nostre radici e la nostra identità. Il settore agricolo funge da cuscinetto, mantiene un livello di produzione stabile, che si attesta comunque solamente al 30% del fabbisogno alimentare isolano e realizza una produzione assolutamente limitata pari al 4% dei PIL sardo.

In considerazione di ciò crediamo esistano grandi margini di miglioramento della performance del comparto attraverso una politica che consenta la crescita e lo sviluppo delle produzioni agricole: quando parliamo di sviluppo intendiamo anche quello rurale che consente la valorizzazione delle risorse proprie di quell’area, delle risorse naturalistiche, del paesaggio della cultura delle tradizioni, anche gastronomiche che appartengono a quel contesto, la valorizzazione dei saperi, dei sapori e dei mestieri, il mantenimento della sua storia, il perseguimento della qualità e della tipicità dei prodotti, la capacità di integrazione e di coesione sociale, e soprattutto la valorizzazione dell’identità di quei luoghi e di quel popolo.

Va da sè che lo sviluppo rurale deve essere contestualizzato, non può essere erga omnes soprattutto su un territorio come la Sardegna, Ecco perché lo sviluppo rurale deve trovare una totale integrazione con lo sviluppo locale e deve necessariamente costruire una sinergia con le risorse proprie di quello specifico territorio: lo sviluppo locale è il baricentro, in cui la multifunzionalità delle imprese agricole ha un ruolo fondamentale. Perché con la multifunzionalità si realizza l’opportunità che attraverso l’attività agricola sia possibile assicurare funzioni collaterali di importanza strategica per la difesa del territorio e per la qualità delle vita: assetto idrogeologico con la manutenzione dei versanti dei corpi idrici, aspetti di forestazione sostenibile con lo sviluppo di un insieme di attività che possono essere connesse alla funzione di attività agricola, attività di trasformazione, attività turistiche, ecc. in cui la condizionalità, l’ecocompatibilità, l’ecosostenibilità costituiscono le principali linee guida che ci proiettano verso una nuova agricoltura non più basata sulla produzione di beni ma sulla valorizzazione di tutte le risorse endogene.

Una importante opportunità è costituita anche dalla integrazione tra agricoltura e turismo e tra zone costiere e zone interne. Infatti attraverso la promozione delle produzioni agricole e agroalimentari integrate con tutte le opportunità dell’offerta turistica culturale e di svago legate alla valorizzazione del territorio montano o marino e le sue ricchezze ambientali, si può costruire un progetto integrato in grado di offrire un pacchetto vacanza che non comprenda solamente le zone costiere ma sia in grado di offrire opportunità culturali e di svago legate alla valorizzazione del territorio di tutte le sue ricchezze e specificità.

Un nuovo modello agricolo così strutturato può legittimamente aspirare a proporsi come un soggetto in grado di garantire l’approvvigionamento della materia prima necessaria all’industria alimentare, grande e piccola, che ha come missione e filosofia quella di produrre prodotti di qualità e di eccellenza, garantiti dal punto di vista della sicurezza alimentare, esportabili nel mondo con il marchio Sardegna.

Nelle nostre analisi sui settori produttivi abbiamo sempre evidenziato, il problema legato alla commercializzazione delle produzioni, vero e spesso insormontabile ostacolo alla crescita delle aziende, ma anche sotto questo aspetto registriamo importantissime novità.

Infatti per merito dell’intuizione di un grande imprenditore nostro concittadino, che ha realizzato la piattaforma Sardinia-eCommerce per soli prodotti sardi, oggi le nostre produzioni alimentari non hanno più ostacoli avendo una vetrina verso l’Europa e il mondo intero che consente il superamento degli ostacoli atavici finora riscontrati; crediamo che questa sia un’opportunità da cogliere e sfruttare come un grande supermercato a cui hanno accesso milioni di persone. Straordinaria intuizione che costituisce un tassello prima mancante ma strategicamente importantissimo per il nostro sistema produttivo.

Nel 1997grazie alla grande intuizione dello stesso imprenditore fu stipulato un accordo di programma che ha consentito la realizzazione in una estensione di 80.000 metri quadrati di un grande mercato agroalimentare che avrebbe dovuto avere una funzione, purtroppo a causa di una politica miope o poco lungimirante, le grandi potenzialità da mettere a disposizione del settore agroalimentare sardo sono rimaste in gran parte inespresse. Crediamo si debba riprendere un ragionamento che veda tutti gli attori protagonisti del comparto, tenuto conto anche della sua vicinanza a Cagliari e al porto di transcipment, all’aeroporto e alla ferrovia, oltre al sistema viabile che si irradia in tutta la Sardegna, circa la possibilità di favorire, la creazione di un interporto e di un grande mercato nel mondo dando al settore agroalimentare sardo una grandissima opportunità.

Infatti Cagliari con il suo porto di transcipment, può rappresentare nel processo di commercializzazione e di scambi economici con i paesi dell’Area Mediterranea uno snodo fondamentale per il commercio e gli scambi d’area nei confronti dei traffici che dai paesi dell’Oriente sono destinati al mercato americano e costruire per la Sardegna importanti opportunità economiche.

Una straordinaria opportunità è data dall’Associazione “La nuova Via della Seta Europa Asia” che si strutturerà con una Associazione confederata a quella nazionale, che ha la missione e il compito di sviluppare le relazioni commerciali tra l’Europa e l’Asia, aprendo così alle nostre produzioni alimentari d’eccellenza, e alle attività turistiche e persino manifatturiere, scenari davvero impensati fino a poco tempo fa, raggiungendo mercati sconfinati, dove le produzioni di qualità trovano grande apprezzamento e richiesta. L’Associazione ha la funzione, non solo di sviluppare i commerci, ma anche quella di dare supporto finanziario e imprenditoriale, per favorirne una crescita in termini di standard di produzione di qualità e sicurezza alimentare. Il progetto delinea una straordinaria opportunità per il rilancio economico della Sardegna, ma richiede da parte delle nostre imprese un grande impegno e rappresenta una sfida di grande importanza rispetto alla capacità produttiva ed organizzativa delle nostre imprese, che devono rispondere ad un modello di internazionalizzazione e perciò adeguarsi a standard qualitativi e quantitativi e performance non sempre condivise. Abbiamo piacere di annunciare a questo Congresso che sono in corso diversi contatti, e alcuni si sono già tradotti in importanti accordi commerciali.

Non possiamo che ringraziare i rappresentanti di Sardinia-eCommerce e della Nuova Via della Seta, per le opportunità che stanno costruendo per l’economia della Sardegna, oltre che per essere nostri graditissimi ospiti.

Nell’ottica di uno sviluppo del comparto agroalimentare non possiamo non tenere conto di alcune insidie ambientali. I cambiamenti climatici rappresentano la peggiore minaccia per l’intera umanità, e se non interverremmo con azioni tese a mitigare i fattori che determinano tali cambiamenti continueremmo a pagarne tutte le conseguenze. Per ridurre i cambiamenti climatici l’accordo di Parigi del 2020 prevede l’impegno alla riduzione delle emissioni e ad accelerare la transizione a un’economia a basse emissioni di carbonio: ciò implica il superamento delle fonti fossili di energia e delle attività correlate e questo colpirà molti settori economici e industriali, soprattutto quelli dipendenti dall’estrazione, produzione e utilizzo del carbone, petrolio e gas.

Dall’altra parte il cambiamento creerà significative opportunità economiche inerenti le soluzioni di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. Per gli investitori i cambiamenti climatici costituiscono un’importante sfida e opportunità; è stato stimato che la transizione richiederà investimenti per 1000 miliardi di dollari all’anno generando nuove opportunità di investimento.

Allo stesso tempo però si stima che l’inazione costerà fra i 4.200 e 43.000 miliardi di dollari. L’Italia dovrebbe seguire l’esempio di molti Paesi che stanno supportando lo sviluppo delle tecnologie per le energie rinnovabili, riducendo la dipendenza dalle importazioni energetiche creando occupazione e rafforzando la competitività delle industrie domestiche.

Nel nuovo report di analisi della Corte dei Conti europea, pubblicato il 19 settembre del 2017, viene valutata l’azione dell’Unione europea su energia e cambiamenti climatici. La produzione e l’uso dell’energia determinano il 79% delle emissioni climateranti nell’Unione e che gli obbiettivi per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2030 e 2050 non verranno raggiunti se non vi sarà un maggiore impegno.

Gli effetti dei cambiamenti climatici sono abbastanza evidenti e colpiscono, indistintamente, quasi tutti i settori produttivi ed economici: il settore primario è sicuramente l’attività che ha pagato il maggior prezzo agli eventi climatici estremi, passando da prolungati periodi di mancate  precipitazioni importanti ad eventi alluvionali, da caldo soffocante e gelate improvvise o precipitazioni nevose abbondanti, provocando danni ingenti alle aziende agricole.

L’Italia è un paese molto fragile sotto molti punti di vista, ma nonostante ciò ci comportiamo come se fossimo un paese normale. Non investiamo in prevenzione, non ci preoccupiamo del fatto che tutto il Paese, esclusa la Sardegna, è zona sismica; non ci preoccupiamo della sistemazione idrogeologica, degli appalti al ribasso, della mancata cura e messa in sicurezza delle infrastrutture, e infatti ad ogni pioggerellina vengono giù le montagne e assistiamo impotenti alla conta dei danni e dei morti. La questione vera è che ci preoccupiamo di spendere i soldi pubblici, anche quelli che non ci sono, per comprare voti non per governare.

Anche in questo DEF, quante risorse sono previste per la cura e la prevenzione del territorio? Zero! Eppure il nostro paese sta andando a rotoli; crollano i ponti, le strade vengono spazzate via, le persone muoiono, e allora scatta la gara alla solidarietà che siamo in grado di esprimere, della partecipazione della gente, dei contributi che elargiamo, che poi dove vanno a finire?

Ma questo non basta, soprattutto non basta all’Italia. In Sardegna, ancora una volta, facciamo la conta dei danni di due giornate, anche se eccezionali, di pioggia, Eppure sappiamo dove sono le zone a rischio, come è possibile che dopo 10 anni dall’alluvione di Capoterra, si assista alle stesse scene di allora: ponti che vengono spazzati via, campagne allagate, paesi isolati. Stesso discorso vale per il Sarrabus.

Anche i bambini conoscono la fragilità di quelle zone, della loro conformazione e allora perché non si interviene per metterle in sicurezza? Perché non si fa prevenzione? Perché la regione non utilizza i propri mezzi e gli uomini a disposizione per pulire i canali, i gretti dei fiumi? Perché l’Agenzia Forestas non viene dotata di risorse finanziarie per acquistare mezzi da impiegare nella prevenzione e sistemazione idraulica del territorio regionale? Perché i comuni non fanno le convenzioni con i Consorzi di Bonifica per la tutela dei loro territori? Perché nelle leggi di bilancio non si prevedono risorse da destinare alla sistemazione idraulica? Questo vale anche per l’Ogliastra, per Uras, per Olbia, che dopo tanti anni dall’ultima alluvione stanno ancora discutendo se il Piano Mancini è idoneo o meno a risolvere i problemi di quella Città.

Ecco! Smettiamola di piangere i morti o la devastazione della nostra isola.

Mettiamo in campo piuttosto tutto ciò che abbiamo a disposizione, anche il coraggio di governare troppo spesso a prescindere, come spesso succede, dagli interessi elettorali in risposte a gruppi di pressione organizzati.

Non possiamo più sentirci soddisfatti perché la macchina della protezione civile ha funzionato, meno male, ma ci sentiremmo soddisfatti quando avremmo fatto tutto ciò che serve per evitare che sia necessario un intervento della macchina dei soccorsi.

Altro aspetto da tenere in grande considerazione è quello relativo alla riqualificazione del territorio, contro l’abbandono delle zone interne e montane, contro il consumo del suolo, per una forestazione produttiva, per lo sviluppo della bioedilizia, per la tutela della biodiversità e per un’agricoltura e turismo sostenibile. Solo un’azione politica forte che mette al centro questi temi, unitamente a quelli della garanzia dell’istruzione e dei servizi dello stato, può dare un forte impulso al tema delle zone interne e rurali che rischiano seriamente lo spopolamento.

Per inciso, in Sardegna registriamo un trend demografico negativo in forte accelerazione, che espone ultimamente un pericolosissimo incremento dell’indice di vecchiaia di ben 6 punti percentuali all’anno, che è legato in gran parte al miglioramento della qualità della vita e delle cure, ma che ormai supera il 35% della popolazione totale. A questo si affianca un indice di dipendenza giovanile inferiore al 18% (abbiamo, cioè, un solo giovane ogni due vecchi, ma, paurosamente, abbiamo anche un solo bambino d’età compresa tra zero e quattro anni ogni sei ultrasessantacinquenni), che va a comporre un indice di dipendenza totale superiore al 51%.

Quando si parla di territorio e della qualità di interventi su di esso, il pensiero corre velocemente sugli strumenti legislativi da mettere in campo per impedire ulteriori violenze che in passato sono state perpetuate con la compiacenza di chi ha sempre avuto del bene collettivo una scarsa considerazione: basti pensare che nonostante esista una sempre maggiore consapevolezza circa la necessità di arrivare all’obbiettivo di azzerare il consumo del suolo, nel nostro Paese nel 2016 si sono consumati altri 4954 ettari di territorio: di fatto vengono sottratti alla vocazione naturale del territorio 13,57 ettari al giorno. Questo è un lusso che non possiamo più permetterci e quanto prima c’è né rendiamo conto e meglio sarà per il futuro del Pianeta, sarebbe importante se il governo trovasse il tempo di occuparsi di questi temi.

Governo che 4 marzo del 2018, ci ha consegnato un risultato elettorale che ha davvero sconvolto il Paese chiamando la classe politica a sperimentare forme di governo impensabili fino a qualche mese prima.

Il Presidente della Repubblica ha dato fondo a tutte le sue prerogative, anche con mandati esplorativi incaricando i Presidenti delle Camere per trovare una soluzione alla crisi attraverso due perimetri distinti: il primo quello del centrodestra, non ha sortito nessun risultato, confermando la impraticabilità di tale percorso, il secondo tentativo era quello di trovare un’alleanza dentro il centro sinistra e cinque stelle. Il secondo tentativo, numericamente, aveva pure i numeri per poter governare ma tale ipotesi è miseramente fallito per la indisponibilità del Partito democratico a fare alleanze con i cinque Stelle.

La costituzione del Governo Giallo Verde ha messo subito in evidenza quelli che sono i veri tratti distintivi della loro visione di società: i pochi provvedimenti approvati che riguardano il decreto dignità, che ha reintrodotto i voucher in agricoltura e nel settore del turismo e il decreto mille proroghe che ha tagliato i finanziamenti destinati alla riqualificazione delle periferie urbane di parecchie città italiane connota in modo chiaro la visione che hanno del modo di governare questo Paese. Il decreto sicurezza e gli annunciati provvedimenti sui diritti civili evidenziano in modo palese, che questa compagine governativa è palesemente populista, demagogica, xenofoba e razzista. Che dire della circolare del ministero dell’Interno che ordina la deportazione dei migranti da Riace, oppure la decisione del Sindaco di Lodi di separare i bambini italiani da quelli extracomunitari all’ora del pasto e magari starà pure pensando a un trasporto differente per i bianchi e uno per i negri. Ci rendiamo conto di tutto ciò?

Il tema dell’immigrazione viene utilizzato per far riemergere nel paese e in Europa le pulsioni sovraniste e nazionaliste che hanno segnato tragicamente la storia di questo continente. Sui diritti civili si vogliono cancellare le conquiste sul divorzio, l’aborto, le coppie di fatto; ma quello che desta più preoccupazione è la visione richiamata più volte sul concetto dei confini statali da difendere con i muri o attraverso azioni militari tese a far prevalere la superiorità di uno stato o di una popolazione sull’altra attraverso l’odio tra popoli piuttosto che la ricerca della pace.

La storia ci ricorda come venivano trattati i sardi, i meridionali nelle città industriali del Nord Italia, in Francia, Germania Belgio; come venivano accolti quegli esseri umani che scappavano dalla fame e dalla povertà; quale sfruttamento subivano quelle persone, dove vivevano. Ma ancora: ci siamo dimenticati le immagini di quei bastimenti che arrivavano in America carichi fino all’inverosimile di poveri con la valigia di cartone legata con lo spago ma piena di speranza? Abbiamo scordato come venivano comprati esseri umani Africani per poi essere imbarcati verso le Americhe e li venduti come schiavi?

E’ assurdo lanciare messaggi come: prima gli Italiani nel lavoro, nelle cure, nell’assegnazione degli alloggi, perché poi sarà prima la Padania, poi la singola regione del Nord.

Non possiamo considerare bravate, sparare ad una persona di colore, pestarla a sangue, ucciderla mentre cerca un pezzo di lamiera per ripararsi dal freddo o dal sole cocente, non possiamo non indignarci quando muoiono in due distinti incidenti stradali mentre vanno al lavoro nei campi, degli esseri umani che hanno la pelle nera che viaggiano ammassati nei furgoni dei caporali. Dobbiamo smetterla di essere ipocriti e denunciare con forza chiunque chieda la modifica della legge 199, che considera reato penale lo sfruttamento nel lavoro.

Dobbiamo smetterla di dire aiutiamoli a casa loro girando la faccia dall’altra parte per non vedere le violenze, le torture le morti che avvengono nei campi organizzati in paesi democratici come la Libia o la Turchia; dobbiamo smetterla di pensare che quelle condizioni siano causate da fatti naturali quando noi ci siamo arricchiti depredando le loro risorse; oro, diamanti, petrolio, gas, legname, esseri umani diventati schiavi. L’immigrazione è un fenomeno inarrestabile, perché le persone non si fermano davanti a nulla per difendere la loro vita i propri affetti, ma va governato.

L’Europa non può e non deve più voltare lo sguardo da un’altra parte, dedichi quote economiche del proprio bilancio non per dare soldi all’Ungheria per realizzare muri, ma per rendere economicamente sostenibile la vita nei paesi poveri. Ci stiamo giocando i principi fondanti della nostra costituzione e di quella Europea. Salvini, che è razzista e populista, viene acclamato e applaudito quando scarica sugli immigrati le cause del malessere del Paese, e parlando in maniera populista e demagogica conquista consenso e popolarità con arroganza e disprezzo contro i valori e le Istituzioni che hanno fondato l’Italia, costruendo una società malata, generando un clima di intolleranza preoccupante, dove la violenza a tutti i livelli, dilaga e sembra un normale mezzo di comunicazione fra i giovani, gli anziani, i bambini… e che dire della sempre crescente violenza fisica e verbale sulle donne… ci rendiamo veramente conto che viviamo in una società che ha perso completamente i punti di riferimento? E non solo ha perso i punti di riferimento sociali, ma ha perso anche quelli istituzionali, perché in tutte le situazioni di gravità le istituzioni fungono da elemento di stabilità della sicurezza del paese. Invece ora accade il contrario: il governo diventa la minaccia alla sicurezza e alla stabilità del Paese.

Penso questo sia una delle cose più gravi che potesse accadere.

Perciò vanno ripristinati i principi fondanti di una società civile, il rispetto delle istituzioni, dei valori, della democrazia, della uguaglianza, della solidarietà, il rispetto dei principi fondamentali dello Stato, della Costituzione, perché la persona e i diritti umani vanno tutelati e garantiti al di la del colore della pelle, della provenienza, del genere e della ideologia politica, come l’art. 3 della nostra Costituzione ci ricorda.

Ecco perchè non possiamo strizzare l’occhio o “capire” nostri iscritti, militanti e persino dirigenti che nei social condividono questi fatti: noi siamo la CGIL, abbiamo un nostro statuto che non può prescindere da questi principi: dentro l’organizzazione si stà se si condividono i valori, altrimenti non si è degni di starci.

Dobbiamo sempre più fare i conti con un risultato elettorale e con cosa l’ha provocato: si è detto che il risultato si giustifica con il fatto che sono stati abbandonati i bisognosi, le periferie, la classe operaia, i giovani, le donne, i pensionati, i disabili. Forse tutto questo è vero, forse davvero i responsabili di questa condizione sono stati anche i governanti del centro sinistra con gli interventi drammatici sui diritti del lavoro e sullo stato sociale. Forse è vero che è stato abbandonato il Sud, dove i Cinque Stelle hanno spopolato, cavalcando il malessere delle persone, così come è vero che i governanti non si sono occupati seriamente del territorio, dei fattori ambientali, dei cambiamenti climatici, del consumo eccessivo del suolo. Così sulla rabbia della gente, sulla condizione economica del Paese, i cinque stelle hanno fatto la loro fortuna, sono diventati il primo partito in Italia.

L’altro partito che oggi sta al Governo ma che non ha vinto le elezioni, anzi è arrivato terzo, è diventato il vero motore del “contratto di Governo” e si prende la scena con una propaganda che può apparire innocua ma che al contrario a me appare molto pericolosa; sommando le due propagande viene fuori un mix esplosivo che farà molto male a questo Paese. Anche i temi che apparentemente appaiono vicini ad argomenti a noi cari, nascondono delle trappole che penalizzeranno pesantemente anche quei lavoratori che sono attratti dallo specchietto delle allodole della quota cento per i pensionati, dalla riduzione delle tasse, dal reddito di cittadinanza, dal rimpatrio degli immigrati.

Alcuni fatti dovrebbero farci riflettere seriamente e farci assumere delle decisioni, anche di lotta per impedire una deriva che apparentemente sembra inarrestabile: quando il Presidente della Repubblica ha esercitato il diritto Costituzionale di nominare i Ministri su indicazione del presidente incaricato, esprimendo contrarietà alla nomina a Ministro del tesoro nella persona del Prof. Savona, Di Maio ha accusato il Presidente della Repubblica di aver operato un Colpo di Stato spingendosi ad affermare che avrebbe raccolto le firme per mettere in stato d’accusa il Presidente e chiederne la destituzione.

Ancora, gli atteggiamenti arroganti di Salvini con “io sono eletto dagli Italiani e faccio ciò che voglio in barba alle leggi, oppure quando Di Maio si affaccia dal balcone per annunciare la manovra del popolo, ma ancora peggio quando appaiono insieme mentre passeggiano a Roma con un abbigliamento militare con tanto di stellette nel bavero della camicia, sono di una pericolosità estrema e ho la sensazione che un pò tutti stiano trascurando segnali che fanno rabbrividire.

Mi sarei aspettata dalla CGIL, di fronte alla natura di questo Governo e delle sue politiche, anche quelle economiche, un giudizio di forte condanna, una presa di distanza chiara contro i nostri governanti, invece facciamo dei distingui sul decreto dignità, sui possibili vantaggi sul lavoro a termine piuttosto che sulle pensioni: mi aspetto a breve una iniziativa forte anche di mobilitazione, altrimenti il rischio vero è che potremmo essere chiamati a fronteggiare situazioni che pensavamo cancellate per sempre.

Ma la realtà, di cui il governo non parla, e pare non si preoccupi affatto è che sono trascorsi appena 10 anni dalla più grande crisi economica finanziaria e sociale, seconda solo a quella del 1929, che continua, anche se in altre forme, a manifestare i suoi effetti, soprattutto in Italia, più che altrove, con effetti di cui nessuno è ancora in grado di quantificarne la vera portata e le conseguenze che ne deriveranno. Una crisi che peserà sul nostro futuro, cambierà nel profondo equilibri e assetti geopolitici, accentuando ancora di più le divisioni tra il lavoro e il capitale e soprattutto tra i popoli.

Gli effetti che questa crisi continua ad avere sulla nostra economia, sono purtroppo sotto gli occhi di tutti:

•      Le stime economiche raccontano che l’Italia, cresce meno di quanto è stato previsto attestandosi al più 1,2 per il 2018 e 2019;

•      Il debito pubblico, ha raggiunto la ragguardevole cifra di oltre 2.300 miliardi di euro;

•      Il rapporto debito Pil é superiore al 131,5% (media Europa 85%, Germania 65%), mentre il
rapporto defict Pil è all’1,9;

•      Il tasso di disoccupazione si attesta all’11,2% e quella giovanile segna il 33,4%.
Questi pochi, ma significativi dati, mettono in evidenza una situazione economica preoccupante per il nostro Paese che non consentirà a nessuno di non tenerne conto.
Il Governo dovrebbe anche essere garante degli equilibri e della stabilità economica in Italia e in Europa, ma urla in modo puerile che il mercato vuole impedire di esercitare le sue prerogative.

Il documento di economia e finanza, approvato dal Governo, che prevede l’innalzamento del deficit al 2,4 nel 2019, al 2,1 nel 2020 e all’ 1,9 nel 2021, è stato bocciato in sequenza dall’Ufficio di bilancio del Parlamento perché le previsioni sono troppo ottimistiche e perché ci sono “forti rischi al ribasso” per la congiuntura debole e le “turbolenze finanziarie”; dalla Banca d’Italia e dalla Corte dei Conti, oltre che dalla Commissione Europea e dalla Bce. Tutte bocciature espresse da organismi indipendenti, e ovviamente dai mercati finanziari e dalla Borsa che hanno visto salire lo spread ad oltre 300 punti mentre la borsa brucia decine di miliardi di Euro. Nonostante tutto ciò il Governo prosegue per la sua strada sbandierando i suoi proclami perché evidentemente in questo Paese è stato surrettiziamente reintrodotto il Ministro della propaganda, cosa che non accadeva dal periodo Fascista.

Ora a parte il fatto che in così poco tempo le risorse previste per concretizzare alcuni provvedimenti come il reddito di cittadinanza, la pensione di cittadinanza e l’abolizione della Fornero, dovranno essere usati per pagare i maggiori interessi sulla vendita dei titoli di Stato, i due partiti di Governo non possono andare in TV e dire “ andiamo avanti perché chi si ferma è perduto” di triste memoria; la questione vera è che noi abbiamo al Governo degli irresponsabili che vanno avanti perché loro hanno fatto delle promesse e non possono, o non vogliono tornare indietro. E questo Governo si connota per aver deciso di fare un altro condono fiscale tombale, salvo poi accusare qualche manina che nottetempo e all’insaputa di Di Maio ha reso tale provvedimento davvero scandaloso.

Lunedì 15 ottobre è stata approvata la manovra economica e immediatamente è stata inviato a Bruxelles il piano che è palesemente fuori dai vincoli Ue; In sintesi la manovra si basa su tre pilastri fondamentali: Condono, pensioni reddito di Cittadinanza. Questa manovra costa al Paese 37 miliardi di Euro e la stragrande maggioranza è in deficit. Al momento con c’è traccia di risorse destinate agli investimenti. Quello approvato lunedì è un estratto del disegno di legge di bilancio, mentre ci vorrà ancora del tempo e nessuno sa quanto, per vedere approvato il tomo completo corredato da cifre allocate con precisione con tutti i dettagli che ci consentirà di valutare a pieno l’impatto che questa manovra avrà sui conti pubblici e sui diretti interessati dai provvedimenti. Una cosa è chiara, questo governo indipendentemente dai proclami, la dice lunga sulla volontà di andare a fare una lotta serrata per recuperare l’evasione fiscale che in questo paese ammonta a oltre 130 miliardi di Euro. Quante manovre di bilancio si potrebbero fare se si recuperasse la somma evasa?

Potremmo capire e spiegare gli effetti negativi che avrà la manovra quando avremmo chiari i provvedimenti che saranno adottati in tema di pensioni e reddito di cittadinanza, però possiamo dire con certezza che i provvedimenti non promettono nulla di buono. Per sconfiggere la povertà, non bastano sicuramente i pochi miliardi messi a disposizione; se è vero come è vero che i poveri sono oltre sei milioni, e se a tutti dovessero essere dati 780 Euro ci vogliono oltre 60 miliardi di Euro. Bastano due esempi per dire che questi sono dei cialtroni che stanno imbrogliando la gente.

A noi sinceramente preoccupa molto un aspetto di cui non si parla e cioè che negli ultimi 4 mesi l’Italia abbia perso circa 80 miliardi di Euro che sono andati a finire in altri Paesi e che persino le Banche Italiane stiano incominciando a vendere i nostri titoli di stato piuttosto che comprarli; inoltre altro aspetto negativo è l’aumento dello spread, che finora ha gravato di ulteriori 4 miliardi di Euro sulle casse dello stato.

L’Italia non può prescindere dai vincoli europei. Abbiamo bisogno di una manovra che possa risolve il problema del debito pubblico, della bassa produttività di sistema, della eccessiva burocrazia, della corruzione, della criminalità, della scarsa infrastrutturazione del nostro territorio, della riduzione dei costi della pubblica amministrazione e della politica, non perché ce lo chiede l’Europa, ma perché ce lo chiedono i nostri figli, le nuove generazioni, la nostra gente e, cosa non trascurabile, comunque lo chiedono i mercati e la stabilità del Paese. E dobbiamo creare posti di lavoro, perché se non aumenta l’occupazione non possono aumentare i consumi, e il sistema economico non cambia, cosi come il Piano del Lavoro della CGIL sostiene e sottolinea.

La sfida che ha di fronte a sé la CGIL, è quella di contribuire con la propria azione a mettere in primo piano una politica che crei lavoro, una società con meno disuguaglianze, meno emarginazione e povertà, più diritti e tutele soprattutto per i meno fortunati.

Con il dibattito congressuale vogliamo provocare una discussione democratica e di massa che leghi le condizioni delle persone che rappresentiamo alla prospettiva di questo cambiamento. Ciò vuol dire costruire orizzonti in cui possano trovare soluzione i tanti gravosi problemi di oggi: di chi ha perso il lavoro, dei precari, degli inoccupati del mezzogiorno, dei giovani, delle donne, dei pensionati, delle famiglie disagiate, delle vecchie e nuove povertà.

Arriviamo a questa giornata dopo aver svolto i 5 congressi provinciali di cui 3, Sassari- Olbia, Nuoro-Ogliastra, Medio Campidano-Sulcis Iglesiente, hanno visto l’accorpamento delle federazioni di categoria, che in relazione al rapporto iscritti delegati di 1 ogni 120 hanno determinato un numero di 76 delegati.

Questo è il Congresso della Flai Sardegna che diventa un importante momento di confronto e discussione democratica, una straordinaria occasione per fare un bilancio e costruire una visione e parlare di idee per un nuovo modello di sviluppo della nostra regione fondato sulla valorizzazione delle produzioni alimentari, le cui componenti sono già in buona parte nelle nostre mani e nella nostra disponibilità. E guardare cosi al futuro, costruendo e pensando a come ricostruire ricchezza e occupazione nella nostra terra, semplicemente valorizzando tutte le nostre specificità, la nostra terra, le nostre radici, la nostra identità, tutto ciò che già è nelle nostre mani.

Ma siamo convinti che non ci potrà essere nessuna forma di sviluppo se non verranno costruite condizioni per rendere il sistema produttivo sardo adeguato alle nuove esigenze, superando alcune difficoltà strutturali, prima fra tutte una qualità del lavoro in agricoltura, se non verranno realizzate per i lavoratori agricoli condizioni di certezza dei diritti e delle tutele, di coinvolgimento, di fidelizzazione, per costruire nella forza lavoro motivazione e partecipazione al lavoro, almeno al pari dei lavoratori degli altri settori produttivi e rendere il lavoro in agricoltura attraente e motivante e non un ripiego in mancanza d’altro. Questo accade perché il lavoro e i lavoratori in agricoltura troppo spesso sono considerati per il loro costo, non per il valore che portano con le loro professionalità, in cui conta prima di tutto quale forma contrattuale applicare per spendere di meno attraverso la ricerca di incentivi che derivano da norme di incentivazione.

Spesso i lavoratori agricoli vivono condizioni lavorative esposte allo sfruttamento e alla negazione dei diritti, con bassi salari, orari di lavoro che superano di gran lunga quelli previsti dai CCNL, quando non si ricorre in modo massiccio al lavoro nero. E’ evidente che una condizione di lavoro di questo tipo non può che relegare il lavoratore e il lavoro in agricoltura in una costante marginalità. I braccianti subiscono quella condizione, ma pensano a quel lavoro come ad un lavoro provvisorio, necessario a sbarcare il lunario, con la testa rivolta ad un impiego magari più alienante, ma con maggiori certezze occupazionali ed economiche.

Questa percezione negativa del lavoro in agricoltura e della sua sicurezza occupazionale si riflette negativamente anche sulla professionalità dei lavoratori dal momento che quella condizione di insicurezza e marginalità non permette processi di crescita, di professionalizzazione o investimenti in formazione al pari degli altri lavoratori, come invece sarebbe necessario, tanto più in un settore come questo in cui l’innovazione e la sperimentazione richiedono un approccio formativo costante.

Ecco perchè da tempo ci chiediamo il motivo per cui la regione Sardegna non usi la sua specialità pensando di individuare un modello di collocamento mirato per i lavoratori in agricoltura  che possa fungere da punto di riferimento specifico anche per la formazione e professionalizzazione dei lavoratori agricoli.

Non possiamo pensare di puntare sulle produzioni di qualità se il nostro tessuto produttivo e imprenditoriale non si caratterizza con la qualità. Non possiamo pensare ad uno sviluppo della nostra terra se non risolviamo i tanti paradossi esistenti, primo fra tutti la qualità del lavoro, spesso dimenticata, ma in realtà fattore di produzione strategico per costruire un nuovo modello di sviluppo economico e sociale, dove la formazione, l’istruzione e la conoscenza devono essere la leva fondamentale del cambiamento per costruire, per produrre, per creare occupazione e ricchezza, per ritrovare la nostra identità e rendere la Sardegna davvero una terra apprezzata da tutti, per primi gli stessi sardi.

E cosi…Perchè siamo impalati ad ascoltare ancora modelli esogeni, sperimentati, che ci hanno portato a questa situazione piuttosto che intervenire con decisione per creare un modello di sviluppo endogeno e sostenibile?

Perchè se la regione Sardegna sostiene che l’agricoltura e la zootecnia costituiscono uno dei 4 pilastri strategici dello sviluppo non parte dalla considerazione che i lavoratori che operano in quel settore devono essere messi nelle condizioni di lavorare serenamente e di valorizzare la loro professionalità?

E perché la regione permette, anzi diventa artefice e alimenta gli interessi corporativi e clientelari nel soggiogare i nostri lavoratori forestali per soddisfare i bisogni di un gruppo di prepotenti che usano circa 5.500 lavoratori strumentalizzandoli, per ottenere vantaggi personali per 100?

Perché piuttosto che pensare di stabilizzare i 1.200 lavoratori forestali precari che sopravvivono sopratutto nelle aree interne della Sardegna e assicurano il mantenimento delle economie locali contro lo spopolamento, si pensa solo a migliorare le condizioni di chi già ha avuto?

E perché forse la specialità la vediamo anche nella assurdità che la Giunta sostiene un indirizzo e il Consiglio regionale ne sostiene un altro? E perché ancora si usa il potere clientelare per soddisfare interessi particolari di pochi piuttosto che interessi collettivi e generali per tanti?

Perché il lavoro, un fattore fondamentale di produzione, è troppo spesso l’elemento su cui si scaricano i costi del sistema e i lavoratori sono sempre coloro che ne pagano le conseguenze?

Avviandomi alle conclusioni e ringraziando tutti voi per la vostra presenza, continuo a chiedermi perché ancora non viene attribuito il giusto significato alla specialità e perché finalmente non la usiamo al più presto in modo efficace ed efficiente per migliorare le condizioni del popolo sardo?

I perché’ sono davvero tanti, dato che davvero non ritroviamo più i significati per comprendere la situazione in cui si trova la Sardegna.

Ecco perché dobbiamo tutti quanti, ognuno nel suo ruolo adoperarci affinché ci sia un forte segnale di discontinuità: la classe politica si adoperi subito e si impegni per il futuro con etica e responsabilità per restituire alla Sardegna la sua dignità, perché la Sardegna possa al più presto trovare la via dello sviluppo economico, occupazionale e sociale e ritrovare e valorizzare la sua identità, affinché il popolo sardo possa essere protagonista del proprio futuro e la Sardegna possa essere protagonista del suo sviluppo in Europa e nel mondo!

Buon congresso!!

 

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