Fabrizio Sitzia: creatività, passione e tecnica di un cagliaritano nel mondo. Il neurobiologo e le sue sculture sardo-britanniche, di Gianfranco Murtas

Janus Sardus: «è la duplice radice storico-antropologica dei sardi, fra gli originari nuragici rappresentati dal volto dei giganti di Monte Prama e i primi colonizzatori fenici che ho visto espressi dalla maschera del “riso sardonico” com’è conservata al museo archeologico di Cagliari».

Qualificare le persone con qualche aggettivo deve essere un’arte il più delle volte soltanto all’apparenza semplice o facile, forse è sempre un azzardo. E definire Fabrizio Sitzia, cagliaritano (nella foto qui accanto) che, a 36 anni oggi, è uomo tutto scienza e insieme però creativo spettacolare, scultore non soltanto abile con lo scalpello sulla pietra o la pressione delle mani sull’argilla, ma prima di tutto unico e irripetibile con l’ideazione, è anche arte faticosa. La voglio raccontare questa storia in cui giocano non soltanto i talenti personali ma anche le esperienze di vita, i fondamenti e gli orizzonti culturali scorti con la curiosità della mente e le propensioni intuitive a scoprire nel futuro – magia nella magia – quel che si serba dentro da sempre.

A riassumerla in due parole, questa storia, direi trattarsi del percorso esistenziale di un giovane neurobiologo, con patrimonio Erasmus svedese e residenza di lavoro e ormai anche familiare – moglie e due gemellini appena svezzati – in Inghilterra, a Brighton, un lavoro piuttosto impegnativo in giro per paesi e continenti per conto di una compagnia che produce strumenti scientifici d’altissima tecnologia, dopo un quadriennale dottorato di ricerca presso l’università di Bristol. Ma non solo, anche se già queste qualificazioni potrebbero inorgoglirci come sardi, ché è di un nostro corregionale che ci glorieremmo, perché onora con il suo lavoro la terra dalla quale proviene. C’è di più, come ho accennato: c’è il talento di un artista, un talento sperimentato fin dall’adolescenza ma rattenuto nella discrezione del privato, a Cagliari, nel quartiere storico di Villanova, ed ora invece esploso in una serie di opere sorprendenti che iniziano a riempire il classico portfolio d’un sito internet (www.fabriziositzia.com), le case dei suoi committenti – non soltanto in Gran Bretagna, adesso anche in Sardegna –, il magazzino del suo laboratorio.

Questi ultimi giorni festivi, fra Natale e Capodanno ed Epifania, hanno riportato Sitzia nella sua isola, per gli incontri di calendario e un abbraccio con parenti ed amici rimasti in relazione, ed a me hanno consentito di poterlo intervistare – meglio: accostare per una conversazione esplorativa –, al fine di raccogliere da lui il cosa e il come della sua vita inglese, nell’impasto di scienza, d’arte e letteratura, si stia svolgendo, e in qual modo il ponte ideale, umanistico, fra la Sardegna e l’isola grande della Britannia (dieci volte la nostra regione, ed oggi percorsa da contrastanti pulsioni di solidarietà continentale) si sostanzi anche grazie al suo contributo intellettuale e professionale.

In principio fu Giordano Bruno, nostro patrono

Anche e particolarmente il mio primo incontro con Fabrizio Sitzia lo debbo raccontare quasi a introibo di questo articolo. Nel 2003 i giovani radicali cagliaritani avevano già preso contatto con il sindaco Emilio Floris per chiedergli come poter ripristinare l’antico e originario spazio d’accoglienza, all’aperto, del busto di Giordano Bruno, ormai dal 1946 patrimonio della facoltà di Lettere, da principio nella sede provvisoria di via Corte d’Appello e dal 1960 in quella maestosa e moderna di sa Duchessa. Si portava, quella statua rimontante al 1913 – scoperta in piazzetta Mazzini due mesi dopo quell’altra inaugurazione avvenuta nella gemella piazzetta Dettori, dico del Dante anch’esso opera del Bozzano genovese-toscano –, una storia che era una testimonianza anche amara del passaggio cittadino dalla democrazia liberale alla dittatura fascista. Perché nel 1926 il commissario prefettizio Vittorio Tredici aveva fatto rimuovere il manufatto, inizialmente con la giustificazione di rimpiazzarlo con il monumento bronzeo a San Francesco, nel sette volte centenario della morte dell’Assisiate, poi senza più scuse: San Francesco trovò infatti facile collocazione in piazza Carlo Alberto, giù della cattedrale di Santa Maria, mentre frate Giordano – campione del libero pensiero e odiato in egual misura, nell’attualità, dai tardo clericali del Partito Popolare e dell’Azione Cattolica e dai dark fascisti, e magari anche da quelli in conversione fasciomora – sostituito da un palmizio in faccia alla porta dei Leoni, finì nel buio di un sacco. Così per più d’un anno. Fino a quando, nel gennaio 1928 poté risuscitare – forse per miracolo operato dal ministro Giovanni Gentile, autore di fresco di un importante saggio proprio del domenicano arrostito vivo dall’Inquisizione – ed essere sistemato, fra le proteste del giornale della curia, in un nicchione dell’atrio universitario. Lì restò appunto durante tutta la bella dittatura e anche negli anni di guerra, fino al 1946 quando la facoltà di Lettere poté emanciparsi dal palazzo rettorale e migrare nell’ex collegio gesuitico di Castello.

Credo che il sindaco Floris, un liberal-cattolico nonostante la tessera pagana di Forza Italia (giusto l’opposto e del liberalismo e del cristianesimo di sostanza), avesse dato un certo benestare quanto meno alla collocazione di un pannello informativo-fotografico – memoria di una gustosa storia civica – nella grande aiuola della piazzetta di collegamento fra il quartiere della Marina e quello di Castello, ma avesse anche chiesto un supplemento documentario alla istanza da portare in giunta per formalizzare la deliberazione.

Poiché sull’Almanacco di Cagliari e in Esse come Sardegna avevo trattato anch’io la questione e stavo altresì per uscire con uno studio tutto mirato sul complesso movimento anticlericale della Cagliari bacareddiana, con una certa centralità riconosciuta proprio alle vicende del monumento bruniano – titolo Dei circoli anticlericali e del monumento a Giordano Bruno, con rimando di collana Sodalizi ed istituzioni della Cagliari bacareddiana – , Sitzia, giovanissimo studente di biologia, mi contattò e partecipò poi, con altri suoi compagni radicali, alla presentazione del libro che facemmo poco dopo nel salone teatrale della parrocchia di Sant’Eulalia, introdotti proprio dal reverendo (e professore di filosofia) Mario Cugusi,  indimenticato artefice delle cose più belle realizzate, con la sua comunità, a pro della città lungo trent’anni, e sul piano sociale (si pensi all’oratorio interetnico e alle due scuole di recupero anni e di alfabetizzazione) e su quello storico-archeologico-archivistico (con scavi nei sottosuoli della Cagliari romana, il museo e le iniziative convegnistiche).

Da lì continuò nel tempo lo scambio fra noi, fra me e Fabrizio, nel frattempo laureatosi in neurobiologia all’università di Cagliari e partito quindi per il suo dottorato inglese. Una dozzina d’anni, fino agli approdi recenti. Fino all’affiancamento alle attività scientifiche e professionali, fra ricerca e consulenza sempre più di taglio internazionale, delle sue performance di scultore: rivelazione di una sorprendente pratica artistica, subito riconosciuta come singolarmente talentuosa da chi ne sa davvero, possiede i codici del giudizio competente e, nel raggio di Londra, s’è dedicato a seguirne e appoggiarne gli esiti.

Una storia bella nella sua semplicità, che io ho avvertito anche in una valenza… chiamala virtuosamente nazionalitaria, con orgoglio sardo e di sardo (naturalmente in declinazione italiana): ecco un fratello che con genio e passione, applicazione e tecnica costituisce per noi motivo di fierezza regionale in un mondo altro, lontano, fissato entro diverse coordinate geografiche e storiche, ideali e di linguaggio, ma con cui è bello poter lanciare ponti, magari ricordando il Lawrence del 1921 o già il nostro Marini “londinese” del 1862…

Janus Sardus e Cuaddu, l’equino del Campidano di Londra

 

 

 

 

Cuaddu: «in marmo bianco di recupero (era il braccio di una croce spezzata di un cimitero), rappresenta la testa di un cavallo in stile alquanto classico. Il nome mi è venuto in mente mentre guardavo i cavalli della processione di S. Efisio. Gli inglesi lo trovano molto esotico».

Nel laboratorio di casa, nel Sussex, la pietra, il marmo, la maltese, adesso l’argilla per le repliche in resina e magari anche in bronzo… Una dopo l’altra sono venute fuori da una creatività sorprendente e da una paziente, pazientissima manualità messa alla prova della fatica, le opere: ecco Janus Sardus – bifronte Giano della Sardegna – Nur e Kar, i nostri progenitori dei villaggi nuragici – secondo l’icona dei giganti dii Mont’e Prama – e in contrapposizione, o in dialettica identitaria, i nostri progenitori delle prime colonizzazioni fenicie, dall’odierno Libano o dall’Africa cartaginese – secondo l’icona della ghignante e maschera funebre detta del rito sardonico e custodita presso il museo archeologico di Cagliari.

I soggetti si moltiplicano: una testa di cavallo sardo – Cuaddu il suo nome nel portfolio section di internet, singolarità lessicale nostra nel mezzo di un vocabolario inglese… Il profilo di un’aquila tutta assira, genio protettore dell’antica città di Nimrud (ispirato ad un bassorilievo custodito oggi al British Museum), il frontale di Gilgamesh, il barbuto eroe divinizzato nella Mesopotamia, il capitello della gotica cattedrale di Exeter con l’acrobata che intrattiene con le sue acrobazie la Santa Vergine del Devon, e ancora The mind’s eye, the Kraken, la maschera alata di At peace e la nera testa di Prometheus

«Le figure espressive, i volti umani soprattutto, o anche animali. Questi sono i miei soggetti prevalenti, quelli preferiti e scelti – dice l’autore –. Le figure che rivelano emozioni. Ho molto approfondito quanto distingue l’arte mesopotamica, che mi ha sempre folgorato, affascinato, da quella greco-romana, pure straordinariamente bella. Mi sembra che mentre quella greco-romana, a noi più prossima, si sia orientata a rappresentare il reale, l’esistente, nella logica dell’arte per l’arte, quella mediorientale sia piuttosto volta alla comunicazione, alla trasmissione di un messaggio, prenda forme stilizzate e simboliche intendendo fissare o consegnare un’idea: a fronte della mimesi greco-romana, e dell’abilità tecnica della fattura realizzativa degli artisti dell’antica Ellade o latini, qui c’è la genialità interpretativa e comunicativa. Assiri e babilonesi erano perfettamente in grado di rappresentare il reale ma decisero di utilizzare le loro abilità scultoree per una funzione simbolica. Ma c’è di più che mi pare guidarmi mentre picchio sulla pietra: c’è quel sentirmi, nel mio presente di scultore, entrare in un misterioso collegamento con un autore che migliaia di anni fa ha lui per primo realizzato quelle forme… Dovrei chiamarlo fenomeno metafisico, questo creare un ponte fra me e chi mi ha preceduto, chi ha effigiato, facciamo il caso, l’eroe o il dio sumero. Così è stato per Gilgamesh, ho avuto una specie di rapimento emotivo mentre scolpivo quel volto e quella barba curata e dalle linee ordinate e quasi simmetriche. La sensazione che ho avuto tutte le volte che riprendevo quel lavoro – e sono state decine e decine di ore – è stata quella dell’abbattimento di ogni barriera spazio-temporale, di aver creato un wormhole (come si dice in astrofisica) che mi ha messo in comunicazione con quell’artista geniale di tremila e più anni fa. Un linguaggio comune mi ha associato all’artista di un’altra civiltà, sorta fra il Tigri e l’Eufrate, dove – per quel che ne sappiamo – presero corpo le prime conoscenze…».

Raccontando di un cagliaritano degli anni ’80 e ‘90

Chiedo a Fabrizio di raccontarsi, nei termini più liberi che crede.

«Abitando nella parte storica di Cagliari ho potuto frequentare le scuole del centro: il Riva alle elementari, nella piazza Garibaldi, l’Alfieri alle medie, nella via De Gioannis, e il liceo-ginnasio Dettori, in via Cugia, alle spalle del palazzo di Giustizia. Mi sono maturato nel 2000 e allora mi sono iscritto all’università, in facoltà di Biologia, che allora aveva trasferito quasi tutti i suoi corsi nella nuova sede di Monserrato. Qualcosa era rimasta in via Porcell e dunque ho frequentato in parte ancora in città e in parte a Monserrato, alla Cittadella. Erano i tempi della riforma dell’ordinamento accademico, e quindi sono entrato in pieno nella novità della laurea triennale e poi in quella magistrale o specialistica. Era il 2006, avevo scelto neuropsicofarmacologia, e avevo discusso una tesi basata sugli esperimenti che avevo fatto durante la mia esperienza di laboratorio a Stoccolma per l’Erasmus».

E univi allo studio un certo impegno civile. Ci siamo incontrati fra le ceneri di Giordano Bruno. Come ti eri inserito, allora, fra i radicali cagliaritani?

«Era il tempo del referendum sulla legge 40, quella della fecondazione assistita. Si discuteva molto, fra pro e contro, e le ipoteche ideologiche o religiose erano numerose, il cardinale Ruini aveva consigliato di disertare le urne perché sapeva che bisognava non far scattare il quorum del 50 per cento dei votanti, altrimenti avrebbero vinto alla grande i contrari alla legge, e dunque i favorevoli alla abrogazione. E in effetti il referendum non scattò per la diserzione di quella parte dell’elettorato più sensibile alle indicazioni della gerarchia clericale. Se ricordo bene votò meno di un terzo del corpo elettorale, una dozzina di milioni di persone che si espressero per circa il 90 per la abrogazione. Quella partita fu persa dal fronte referendario, nel 2005, però credo che si seminò bene in termini di sensibilizzazione della opinione pubblica. Io ero all’epoca di formazione laica e liberale, ora mi definisco libertario nell’accezione anglosassone del termine però, ovvero libertarian o free market anarchist o anarchico individualista. Soffrivo la linea piuttosto oppressiva di un papa come Ratzinger, che si sentiva anche sulla politica italiana, allora. In quanto laico e liberale e interessato a difendere i diritti della scienza, a difendere la libertà di ricerca oltreché la libertà di coscienza, sentii allora il fascino delle battaglie radicali. Già allora si parlava di diritto alla buona morte, alla dignità nella morte… Piergiorgio Welby sarebbe morto, dopo trent’anni di SLA, nel 2006, ma era presente già da qualche anno, mi pare dal 2002, l’Associazione Luca Coscioni: io ero molto interessato a quella sua battaglia civile per i diritti della persona, contro l’accanimento terapeutico. Ci riunivamo in una piccola sede, discutevamo molto, eravamo soprattutto giovani ma non soltanto giovani, ogni settimana cercavamo – ma poi venivano su spontaneamente – i temi da lanciare per mobilitare… le idee della società, che superavano quelle dei partiti, più interessati al potere per il potere. E invece la questione della libertà di ricerca, la questione della fecondazione assistita, quella del fine vita, quella della liberalizzazione delle droghe e anche della prostituzione erano argomenti di confine che dovevano sollecitare la riflessione di tutti, e una presa di coscienza e di posizione di tutti. Per questo organizzavamo, quando possibile, manifestazioni pubbliche, sit in, conferenze, confronti, dibattiti. Eravamo extraparlamentari ed eravamo slegati dalle logiche di partito e di potere».

A parlar, come radicali, di diritti civili (e dell’abbrustolito)

In questo quadro collocaste anche il risarcimento civile di Giordano Bruno cagliaritano, è così?

«Certo, per noi quello era proprio il tempo della Rosa nel pugno. Giordano Bruno rappresentava lo spirito libero al quale anche noi volevamo rifarci: lui frate domenicano perseguitato, imprigionato, processato, condannato, bruciato vivo dall’Inquisizione romana, dall’Inquisizione cattolica. Per noi era un simbolo di quel che volevamo si realizzasse in Italia, nell’Italia contemporanea, quella del nostro tempo, all’inizio del Duemila: la separazione fra Stato e Chiesa, una legislazione laica, il recupero della memoria del miglior risorgimento liberale e democratico, quello di Porta Pia nel 20 settembre 1870. Perché la pressione del potere vaticano sull’Italia, sia sul costume che sulla politica e le stesse istituzioni, noi la sentivamo. E certo, a parlarne adesso, sembra una storia lontana, paiono battaglie di retroguardia di un altro secolo. Eppure era solo pochi anni fa, ma se dovessimo riproporre quei temi e quelle battaglie oggi nel 2018 non riusciremmo ad avere alcun seguito. L’anticlericalismo è morto perché il clericalismo si è ritirato dalla grande politica. Ma non bisogna mai abbassare la guardia perché il clericalismo è una fenice che risorge sempre dalle sue ceneri».

Erasmus, il mondo in una casa e in un’aula

Giordano Bruno, l’uomo teorizzatore dei mondi infiniti. Dai mondi infiniti alle infinite potenzialità del cervello umano. Possiamo adesso recuperare le tappe della tua vita di studente-poi-studioso, di ricercatore delle neuroscienze?

«Certamente una tappa fondamentale per me anche come primo passo importante di conoscenza del mondo, o dei mondi lontani da quello mio, è stata l’esperienza Erasmus che ho fatto nel 2005 in Svezia, al Karolinska Institutet di Stoccolma. Sono stati 7 mesi, veramente si è trattato della esperienza-chiave di ingresso nella età adulta: io sono del 1981, avevo dunque 24 anni. È stata una permanenza prolungata, anche se non lunghissima, che mi ha aperto nuovi orizzonti, di vita prima che di carriera universitaria».

Eri il solo italiano in quel corso?

«Sì, e con me c’erano iraniani e tedeschi, cileni e spagnoli, cinesi e singaporiani… ragazzi di tutti i continenti. Naturalmente lì ho fatto una immersione totale nella lingua inglese, di cui avevo una conoscenza soltanto scolastica. Ed è quella conoscenza che mi ha aperto le porte del mondo. L’inglese è la lingua franca della nostra era. Quel che era il latino duemila anni fa è l’inglese oggi per il nostro mondo. Ora che vivo in Gran Bretagna da più di undici anni l’inglese è parte della mia vita quotidiana tanto e più dell’italiano. Spesso traduco dall’inglese all’italiano certe parole o frasi che ormai ho dimenticato nella mia lingua madre. Debbo dire che soltanto in casa, con mia moglie sarda e anche con i piccolini – che però stanno appena imparando a parlare e sono destinati spero al bilinguismo perfetto – uso l’italiano».

Ragionando di identità nel mondo 2000

Poni una questione importante, che mi affascina sempre:             quella dell’identità, fra rischi di esasperazioni dogmatiche, e perfino semplicistiche e preconfezionate, e consapevolezze di un dinamismo evolutivo che impedisce ingessature…

«È certo che un’esperienza continuativa con il diverso ti cambia; una esperienza quotidiana lungo gli anni, profonda con usanze diverse, persone di cultura e lingua diverse. Non sono più quello di una volta e l’incontro-scontro con il diverso (che poi dopo che lo conosci e lo capisci non lo chiami più diverso) ti cambia, non c’è dubbio. Ma spesso mi soffermo e penso: forse sono andato all’estero perché non appartenevo già più a questo contesto. Forse l’estero ha solo favorito e spinto fuori quello che già avevo dentro ma che non ho potuto esprimere in un contesto chiuso come quello italiano e soprattutto isolano. Un esempio è il fatto che in Italia purtroppo la conoscenza sia settoriale, fatta di camere stagne che non comunicano tra loro, mentre io ho sempre avuto una curiosità enciclopedica, e ho sempre creduto ad un approccio olistico della conoscenza e nella vita. Perché io ricercatore non posso occuparmi di arte? Perché io artista non posso vedere l’arte sotto l’occhio del metodo scientifico e via discorrendo? In realtà il mondo può essere letto con il metodo scientifico – una vera e propria lente –, qualsiasi “pezzo” di questo mondo».

Abbasso Croce, viva l’olismo

Sotto questo profilo, a volerci vedere – in quanto persone – come un sistema interpretabile secondo la categoria dell’olismo, sembrerebbe possibile non perdere mai nulla di quel che è valido in noi, ma invece recuperare e rilanciare e promuovere quanto è a rischio di marginalizzazione… Forse il processo selettivo in cui si identifica, alla fine, la nostra vita ha una sua generosità: non è mai definitivo nelle conclusioni.

«Io la vedo così: in Italia ha vinto il crocianesimo, ed ancora oggi, a cento anni e più da quelle teorizzazioni, siamo sempre tentati di dividere la conoscenza fra la parte umanistica e quella scientifica. E questo viene inculcato fin dalla più tenera età perché è il sistema scolastico ad essere impostato così. Tant’è che i commenti ai miei “cambi” di tipologie di studi o interesse – dal classico alle scienze, dalle neuroscienze alla scultura – sono sempre stati accolti da pavloviani “Ma come? Studiavi al classico, perché ora fai scienze? Sei uno scienziato, come è possibile che ora ti metta a scolpire?”. Io ho questo interesse olistico alla conoscenza, amo la scienza in quanto tale, e la scienza non mi allontana dalla letteratura o dall’arte. Anzi, esattamente il contrario. Il metodo scientifico è uno strumento che permette di leggere il mondo sotto qualsiasi aspetto, perfino artistico. Nel mio dottorato ho trattato di un piccolo recettore, quello nicotinico, e nello specifico di alcune subunità… insomma di una nicchia interna ad una nicchia interna ad un’altra nicchia… Talvolta negli stessi seminari di studio o nelle conferenze internazionali l’oggetto principale è talmente concentrato che colpisce questa mancanza di collegamento fra disciplina e disciplina, fra specializzazione e specializzazione, fra nicchia e nicchia… Spesso ai convegni gli scienziati vanno a seguire seminari o a vedere poster solo della propria nicchia. No, quell’olismo di cui dicevo, è una necessità, per me, anche nello studio scientifico, non soltanto nella conoscenza generica o generale».

Però il mondo scientifico va avanti per parcellizzazioni. Chi potrebbe opporsi a questo andamento?

«A pensare ai progressi scientifici compiuti dalla ricerca nell’ultimo decennio, tanto più nel settore biologico, c’è da restare stupefatti ed entusiasti: la conoscenza si è espansa veramente in termini esponenziali. Contemporaneamente però – e sotto certi aspetti riprendo l’argomento che stavamo affrontando prima – a fronte di questa globalizzazione sempre più marcata, a livello accademico si sono registrate come delle fratture, delle parcellizzazioni del sapere che certamente pongono più d’un problema. Proprio a livello di condizioni lavorative, mi pare che quello slancio entusiasmante della ricerca che ha portato a successi forse impensabili non abbia incontrato una piena “orizzontalità” nel coinvolgimento e nella acquisizione “del tutto” via via conquistato… C’è, fra gli accademici di diverso livello, una corsa alle pubblicazioni che poi sono il veicolo per conquistare le posizioni ambite: naturalmente si tratta di intercettare, per comunicare i propri studi, quelle testate categorizzate come di fascia alta che, sole, possono davvero sostenere le carriere nell’università del mondo anglosassone. Ma la crescente parcellizzazione di cui parlavo prima costituisce un freno a questa possibilità… Un Leonardo da Vinci era uno scienziato a tutto tondo, i suoi interessi spaziavano dalla fisica all’arte, dalla meccanica all’anatomia. Lo scienziato di oggi è condannato, questa è la parola giusta, a stare nella sua piccola nicchia senza possibilità di uscita. A me quindi, appassionato di materie diverse. quel mondo lì mi pareva troppo stretto. A questo aggiungi la nomadicità intrinseca del lavoro – doversi spostare ogni due o tre anni in qualche laboratorio del mondo senza avere la certezza che si raggiungerà mai l’ambita posizione di professore. La scelta quindi è stata di lasciare la possibile carriera universitaria e la ricerca pura e di inserirmi nel business con un ruolo che però conserva una forte connotazione di consulenza scientifica. Insomma, a dirla in poche parole, porto le mie conoscenze scientifiche nel commercio, ed esse sono parte essenziale del mio lavoro».

Quando hai cominciato questa nuova versione della tua professionalità?

«Ora vendo strumenti scientifici e le mie contropartite sono nella grandissima maggioranza pubbliche e orientate alla ricerca di base. È così dal 2010, sono ormai sette-otto anni, dapprima in una compagnia proprietà di una famiglia di consolidate esperienze commerciali nel settore, ed allora viaggiavo ogni mese tra il Sud America e il Sud Europa. Avevo una rappresentanza industriale e un contatto diretto e quotidiano con il vertice aziendale, partecipavo alle strategie, ero interno alla concertazione. Poi sono entrato in un’altra compagnia e il campo affidatomi è stato quello europeo, dai paesi scandinavi a quelli mediterranei, fino a quelli slavi e anche del Medio oriente. E ora viaggio ogni settimana, una sorta di pendolare internazionale. C’è chi va ogni mattina a lavoro in macchina, io prendo l’aereo alle 5 del mattino e sto via per tre-quattro giorni. Vedo solo aeroporti, camere d’albergo e laboratori di ricerca tanto che posso dire di essere stato dappertutto in Europa ma di non averne visto quasi niente. Un posto vale l’altro, gli alberghi sono tutti uguali, gli aeroporti pure. L’obiettivo di ogni viaggio oltre al business è quello di tornare in albergo il prima possibile, finire il lavoro, sentire la famiglia su Skype e dormire. Può sembrare un lavoro alienante non lo nego, ma per me pure la vita d’ufficio lo è. Alla fine è come fare il pendolare sul treno, ma invece che seduti in carrozza si è di volta in volta seduti su un taxi, una metro, un aereo, un hotel. Sì, alla fine non ci si è spostati di un millimetro ma è solo il mondo intorno a te che si è spostato. Il lato negativo è che devo essere pronto a viaggiare in qualsiasi momento. Oggi potrei ricevere un’email e domani sono su un aereo. Una vita del genere ti preclude attività che appaiono banali o normali alla gente comune come stare con la famiglia alla sera, andare in palestra, avere hobby, prendere una pizza con gli amici. Credo che il mio lavoro sia secondo solo a chi fa i turni nelle stazioni petrolifere offshore in fatto di solitudine».

Riguardo alla differenza con l’università. Riflettendoci sopra?

«Riflettendoci sopra direi che l’università, per come l’ho conosciuta e vissuta sia in Italia che in Svezia che in Gran Bretagna, è una realtà esposta al rischio crescente di diventare e proporsi come una “bolla”, come una fabbrica di sapere che rischia di non relazionare con la complessità del mondo, delle strutture operative interne al corpo della società. Gli scienziati sono “incestuosi”: si sposano tra di loro, si frequentano solo tra di loro e spesso solo tra persone della stessa specializzazione (perfino io l’ho fatto). Sempre nella logica olistica di cui sopra, bisognerebbe inserire nella formazione universitaria elementi di concretezza, dico di esperienza, che possono e devono finire per fare la differenza. Oso dire questo: nel corso della mia attività professionale, che è attività, come ho detto, insieme manageriale e di consulenza, ho appreso della mia materia – mi riferisco alle neuroscienze – più di quanto avrei colto se fossi stato docente ordinario».

Fra le idee e gli emisferi, i gemellini

Nel mezzo di queste avventure professionali hai fatto famiglia.

«Proprio così. Nel 2013 mi sono sposato. Preciso: con una ragazza sarda, anche lei neurobiologa, anche lei interna al mondo della ricerca. Nel 2016 sono venuti i nostri gemellini, un maschio e una femmina, la cosa più bella della vita».

E prossimi bilingui, hai promesso. Italiani e inglesi, anzi sardi-italiani e inglesi.

«Dovrà essere così, sarà così. E chissà cosa sarà il futuro… Da genitore farò la mia parte, ma io sono convintamente montessoriano, sono per la libera espressione dei talenti personali di ciascuno. Sai che in Gran Bretagna la Montessori è un’icona vera e propria? È un riferimento solidissimo del sistema educativo pubblico e privato. Il suo metodo è conosciuto e applicato. Direi che la sua pedagogia è entrata veramente, già da un secolo, nelle pieghe più profonde nella scuola britannica…».

Nasce (o rinasce) un artista

 

 

 

 

Gilgamesh: «per la testa di Gilgamesh ho preso spunto da un originale in bronzo che rappresenta re Sargon, conservata al museo archeologico di Bagdad. Gilgamesh è il personaggio più importante della mitologia mesopotamica e le sue avventure sono incentrate sulla ricerca del segreto dell’immortalità che lo portano ad incontrare Utnapishtim, il Noè ante litteram mesopotamico. La testa che ho scolpito in ancaster fa parte di una collezione privata inglese».

 

Bene. Spererei però che la Sardegna non sia uscita dai tuoi orizzonti. Anche se dovrà essere una Sardegna in linea con il mondo più civile ed avanzato, laico e produttivo: una Sardegna rimasta se stessa ma intimamente collegata con la storia che evolve, consapevole di dover essere una tessera del grande mosaico europeo che si muove in avanti, senza arcaismi di troppo… E a proposito di arcaismi, aggiungiamo quest’altra: è finalmente venuta in Sardegna, esibendosi a Teulada lo scorso 25 novembre al convegno sui giganti di Mont’e Prama, il tuo bellissimo Janus Sardus. Di che manifestazione si è trattato e che cosa rappresenta il tuo Janus Sardus?

«È tutto nato quasi per caso devo dire: tu che mi commissioni una scultura che possa rappresentare la Sardegna, io che decido di farla in modo a dir poco singolare e mio padre che è tra gli organizzatori di un convegno sui Giganti di Mont’e Prama. Mio padre fa parte della squadra universitaria che ha usato i georadar per trovare i Giganti di Mont’e Prama e un giorno ha deciso di organizzare un convegno nella sua natia Teulada proprio su questo. Nel frattempo avevo appena finito di lucidare la scultura e ho pensato che una riproduzione della testa di un Gigante sarebbe stata una bella aggiunta al convegno. Janus Sardus rappresenta la dualità della storia della Sardegna tra nativi nuragici (la testa del Gigante appunto) e i fenici (la maschera funeraria ghignante esibita al Museo Archeologico di Cagliari). È un Giano (come il dio delle porte romano) bifronte sardo».

Andiamo a questa passione che è rizampillata, mi pare, in anni relativamente recenti ma è stata covata a lungo, fin dagli anni della adolescenza, se so bene.

«È giusto attribuire al mio interesse per l’arte la qualifica di passione. Io ho sempre amato le cose storiche, tanto più ho amato la storia antica, sia quella greco-romana che quella mesopotamica. Così è stato fin dagli anni del liceo. All’inizio, credo abbastanza naturalmente, l’interesse è stato d’ordine intellettuale. E comunque a 14-15 anni, in un’età in cui ci si prova, ci si mette sotto esame di se stessi prima che degli altri, ho cercato anch’io di scolpire qualcosa. Naturalmente non avevo tecnica e non avevo neppure gli strumenti, adoperavo strumenti piuttosto rudimentali, un martello da falegname, qualche attrezzo di riciclo, la scelta delle pietre non era per niente affinata. Avevo però una passione che iniziava a far capolino. Senza un mentore, ovviamente, non potevo far granché. Però ricordo che mi impegnai a scolpire qualche figura umana, dei visi che esprimessero emozioni… Sì, la figura umana espressiva mi ha sempre interessato più delle figure morte. Tutto veniva da me, da come io rielaboravo quel che vedevo e sentivo, da come io filtravo le emozioni degli altri e le mie senza insegnante e anche senza una spinta o un incoraggiamento dall’esterno…».

E poi? La precedenza allo studio, alla maturità liceale e al corso di neuroscienze all’università, ad Erasmus e alla laurea, al dottorato e al triennio di ricerca seguito al dottorato in Inghilterra, alla professione e ai viaggi in mezzo mondo più mezzo mondo, fino a che…?

«Fino a che, dopo il matrimonio ma prima che nascessero i gemellini, ho sentito dentro di me il bisogno creativo che fra le inevitabili rigidezze dei viaggi e delle soste in aeroporto risorgeva come scarico di tensioni e recupero di energie psicofisiche. Sembra strano: lavorare per riposare davvero».

 

Our Lady’s tumbler: «tempo fa mi venne richiesto di fare la copia di un capitello della cattedrale gotica di Exeter. Essa è risultata di quasi 1:1 e mi ha impegnato per più di un anno. Si tratta di due blocchi di Richemont Blanc, il primo di un acrobata a testa in giù e appeso ad un albero di quercia e ad una vite e il secondo di un violinista. Entrambi intrattengono Our Lady, ovvero Maria che si trova dall’altra parte della navata su un altro capitello. Ora la scultura è nello studio di una restauratrice professionista che lo dipingerà con pigmenti medievali vicini agli originali del 1200. Poi forse verrà esposto nella cattedrale per un breve periodo».

 

 

 

 

 

 

Hai creato e anche esposto, tutto in pochi anni?

«Sì, ho esposto in Gran Bretagna in diverse mostre collettive, ho venduto alcune opere che ora sono in collezioni private e ricevo richieste da vari committenti. Ho un sito internet naturalmente, con il mio portfolio. Giostrando fra famiglia e casa, e i bambini soprattutto, il fine settimana, riesco a recuperare alcune ore, il sabato, e mi concentro tutto, con la mia brava mascherina sul muso ad evitare di respirare qualche rappresa cogitazione siliconica, sulla pietra, di recente anche sull’argilla. Mi sono attrezzato a casa un mio laboratorio, tutto di legno, nel giardino, ma fra breve conto di averne uno più capiente, un garage intero, nella casa nuova… In alternativa al laboratorio domestico ho potuto far affidamento anche, in passato, su quello professionale, nel Sussex dove vivo, che ho frequentato conoscendo docenti, acquisendo anche delle tecniche che, essendo autodidatta, dovevo far mie… Lì ho frequentato un corso intensivo, un workshop tutto tecnico-pratico, che mi ha insegnato a scegliere le pietre di qualità diversa, ad utilizzare anche gli attrezzi in un modo ottimale, ecc. I docenti che ho incontrato sono stati veramente di altissimo livello, ed io sono stato completamente hooked, termine inglese intraducibile in italiano: trattenuto con un amo, con un uncino. Insomma conquistato… ma non rende bene l’idea».

I bimbi riconoscono il talento del babbo?

«Sono troppo piccolini ancora, però scorgono e si incuriosiscono a queste “persone di pietra” che il papà realizza con lo scalpello o magari pressando l’argilla. Mi piacerebbe che anche loro si appassionassero, spontaneamente».

 

 

 

 

 

 

 

 

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