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70 ANNI DI AUTONOMIA REGIONALE DELLA SARDEGNA, di Antonello Angioni

Posted By cubeddu On 14 febbraio 2018 @ 03:37 In Blog,Identità,Istituzioni sarde,Storia della Sardegna | Comments Disabled

Nel 2018 ricorrono i settant’anni dello Statuto Sardo, approvato dall’Assemblea Costituente il 31 gennaio 1948 e promulgato con legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3. Da allora è iniziato il percorso della Regione Sardegna che ha riconosciuto ai sardi, per la prima volta nella loro storia, il diritto di autogovernarsi.

SOMMARIO. 1. Le origini dell’idea autonomista. 2. Dalla “fusione perfetta” alle inchieste parlamentari di fine Ottocento. 3. Dall’autonomismo degli inizi del Novecento al sardo fascismo. 4. Dall’armistizio allo Statuto Sardo. 5. Dall’elezione del primo Consiglio Regionale al “Piano di Rinascita”. 6. I contenuti dello Statuto speciale. 7. La riforma dello Statuto.

Antonello Angioni, avvocato, è vicepresidente della Fondazione Siotto e direttore dell’Istituto Gramsci della Sardegna.

  1. Le origini dell’idea autonomista

 

Se il 1948 segna l’inizio, sul piano istituzionale, dell’autonomismo sardo, occorre tuttavia considerare che quell’idea ha origini assai più antiche. Può infatti ritenersi che l’aspirazione dei sardi all’autogoverno – e, prima ancora, al riconoscimento di una propria soggettività politica e civile – affondi le sue radici nel periodo giudicale, allorché il territorio della Sardegna era suddiviso in quattro regni disciplinati da proprie istituzioni. Intorno al 1392-1395 Eleonora d’Arborea promulga la Carta de Logu, codice di leggi del Giudicato d’Arborea la cui applicazione, nel 1421, in occasione del parlamento di Alfonso il Magnanimo, verrà estesa a tutta la Sardegna. Quel corpus di norme rimarrà in vigore fino al 1827 allorché verrà sostituito dal Codice delle leggi civili e criminali del Regno di Sardegna (il c.d. Codice feliciano).

Chiusa l’esperienza giudicale, l’idea autonomista si svilupperà, sia pure in forma parziale e limitata, nell’ambito della monarchia catalano-aragonese e soprattutto in età spagnola, attraverso la vita degli stamenti, gli antichi parlamenti sardi, che videro il sorgere ed il lento affermarsi di un processo dialettico che portò alla progressiva acquisizione della consapevolezza, in capo all’elemento locale, di costituire un “popolo distinto” rispetto ai dominatori di turno.

Fu Pietro IV il Cerimonioso a dar vita, nel 1355, al primo degli istituti autonomisti allorché – forse temendo le tentazioni indipendentiste dei catalani, degli aragonesi, dei valenzani e dei maiorchini di Sardegna – convocò e presiedette a Cagliari il Parlamento, un organismo articolato in tre rami detti Stamenti (riservati ai rappresentanti della nobiltà, del clero e delle città regie). Nel 1421 Alfonso il Magnanimo riconvocò il Parlamento sardo che da allora iniziò a riunirsi con una certa regolarità. Frattanto, nel 1418, era stato istituito il Governo Viceregio, con competenza territoriale sull’intera Isola, e nel 1564, iniziò a funzionare la Reale Udienza (l’Audiencia), il più alto consesso di giustizia del Regno che, di fatto, esercitò funzioni più ampie rispetto a quelle giudiziarie.

E’ nell’ambito degli stamenti che – attraverso una lotta plurisecolare fatta di vittorie effimere, di dure sconfitte ma anche di faticose e graduali affermazioni – doveva formarsi quella coscienza che, col linguaggio di oggi, potremmo definire “nazionalitaria” o “autonomista” sarda. In quelle antiche istituzioni rappresentative si sviluppò, soprattutto nel Seicento, la lunga e tormentata lotta per gli “impieghi”, attraverso la quale veniva rivendicata l’attribuzione degli incarichi pubblici (civili e militari e delle prelature) ai sardi.

Quella diffusa consapevolezza di costituire un “popolo distinto” riemerge poi, ad un livello di maggiore maturità, alla fine del Settecento, durante il cosiddetto “triennio rivoluzionario” (1793-1796). Si va dalla resistenza al tentativo d’invasione francese, alla formulazione delle «Cinque domande» (una piattaforma politica autonomista), dall’insurrezione cagliaritana del 28 aprile 1794, alla «secessione» sassarese, per poi giungere ai moti antifeudali del 1794-1796 che vedono protagonista Giovanni Maria Angioy.  Qui il carattere autonomista (e, nella circostanza, antipiemontese) è ben chiaro, anche se l’epilogo della “Sarda Rivoluzione” lasciò l’amaro in bocca ai tanti patrioti che si erano spesi per quella causa.

L’insurrezione cagliaritana del 1794 – ancora oggi viva nella memoria collettiva – sta alla base di “Sa Die de sa Sardinia”, la Giornata del popolo sardo, istituita con L.R. 14 settembre 1993, n. 44, e che tutti gli anni, il 28 aprile, si celebra, per iniziativa della Regione Autonoma della Sardegna ed in collaborazione con numerose associazioni e fondazioni costituite in apposito  Comitato. Tale circostanza ha contribuito a inaugurare una serie di studi storiografici che hanno gettato nuova luce su quei fermenti di rinnovamento economico e civile e sulla circolazione di idee politiche che rese possibile l’insurrezione.

 

  1. Dalla “fusione perfetta” alle inchieste parlamentari di fine Ottocento

Chiusa la gloriosa pagina della “Sarda Rivoluzione”, dopo qualche decennio, nell’ambito delle idee risorgimentali che avevano scosso tutta l’Italia, anche la nostra Isola è attraversata da un’ondata di entusiasmo popolare che trova forma in un variegato movimento di opinione favorevole alle riforme economiche, sociali e politiche. Tale movimento, nel novembre del 1847, formulò la richiesta della «fusione perfetta della Sardegna con gli Stati di Terraferma». Il 30 novembre 1847 il re Carlo Alberto annunciò la fusione perfetta decretando la fine dell’antico Regnum Sardiniae, e quindi delle sue leggi, dei suoi ordinamenti e delle sue istituzioni (tra cui gli Stamenti, il Viceré e la Reale Cancelleria). L’anno seguente i sardi entrarono a far parte, a pieno titolo, del primo parlamento subalpino.

La “fusione” peraltro non portò alcun effettivo beneficio alla Sardegna che continuò ad essere relegata ad una condizione di tipo coloniale. I vecchi problemi non trovarono adeguata soluzione e, nell’arco di pochi anni, maturò la coscienza della necessità di un pensiero e di un’azione autonomista per dare alla Sardegna un ruolo meno subalterno rispetto al “Continente”.

Tuttavia quando, all’indomani dell’unificazione nazionale, si dovette regolamentare la vita dello Stato Italiano, la scelta fu quella dell’accentramento del potere politico e amministrativo. Si trattava di una scelta dettata soprattutto dalla preoccupazione che le profonde differenze allora esistenti tra le singole entità territoriali (espressione degli antichi stati preunitari) potessero compromettere l’Unità nazionale da poco raggiunta. In realtà, l’analisi storica dimostra che tale scelta, ben lungi dal favorire la realizzazione di una salda e profonda unità, ritardò solo la crescita democratica e la coesione sociale del Paese.

Ovviamente non mancarono le voci contrarie e, tra queste, va ricordata quella di Giovanni Battista Tuveri, filosofo di idee federaliste e repubblicane e acceso sostenitore della necessità di dare pienezza di poteri ai Comuni. Come pure vanno ricordate le interessanti figure di Giorgio Asproni, un autonomista sardo nella corrente del federalismo italiano, e di Giovanni Siotto Pintor che, con la sua autocritica, a trent’anni dalla “fusione perfetta”, denuncia la perdita dell’autonomia e delle istituzioni di autogoverno del popolo sardo che ritiene compatibili con la formazione di una più ampia unità statuale.

Nei primi decenni dopo l’Unità d’Italia la classe dirigente isolana, costituita in prevalenza dai grandi proprietari terrieri, non seppe svolgere una funzione autonoma all’interno del nuovo Stato la cui presenza si manifestò attraverso l’esattore, i carabinieri, la leva obbligatoria ed un apparato burocratico “estraneo”, se non ostile, al tessuto economico ed ai bisogni che le popolazioni esprimevano.

<In siffatto contesto, sul finire dell’Ottocento, i fenomeni del banditismo conoscevano una forte recrudescenza, soprattutto nelle zone interne dell’Isola: una situazione grave che trova puntuale riscontro, prima, nell’inchiesta parlamentare presieduta da Agostino Depretis (tra il 1868 e il 1871) e, poi, nelle due inchieste condotte dai deputati sardi Francesco Salaris (1885) e Francesco Pais Serra (1894-1895). Le relazioni conclusive evidenziano la necessità di approntare un complesso organico di provvedimenti eccezionali per la Sardegna. Notevole fu, in quegli anni, l’impegno del deputato liberale Francesco Cocco Ortu teso a riservare alla nostra Isola un’attenzione ed uno spazio nella definizione delle linee politiche nazionali. E’ lui il principale artefice delle leggi speciali per la Sardegna che, nel 1907, vengono raccolte in un testo unico.

 

  1. Dall’autonomismo degli inizi del Novecento al sardofascismo

 

Agli inizi del Novecento l’Isola è attraversata da un vasto movimento di riscoperta e di valorizzazione della storia e della civiltà locale che trova espressione in intellettuali del livello di Grazia Deledda, Sebastiano Satta e Francesco Ciusa. Sullo sfondo di questo movimento di idee un giovane socialista nuorese, Attilio Deffenu, si mise alla testa di un ampio schieramento anti-protezionista che saldava la Sardegna al Mezzogiorno nella lotta per vincere l’arretratezza ed il sottosviluppo. In particolare veniva chiesto che si desse adeguata soluzione alla “questione sarda” e si rivendicava un nuovo rapporto – sul piano politico ed economico – tra la Sardegna ed il governo centrale.

La Grande guerra accentuò i limiti e le contraddizioni presenti nello stato liberale. Alla sua conclusione (fine del 1918) si sviluppò in tutta Italia il movimento dei reduci e dei combattenti che in Sardegna ebbe la forza e la capacità di sviluppare un’azione autonoma e consapevole finalizzata al riscatto economico e sociale dell’Isola. Erano soprattutto gli intrepidi sardi che avevano combattuto nella “Brigata Sassari” ad animare il dibattito che ben presto darà  vita ad un partito politico, il Partito Sardo d’Azione, che indicò la strada per costruire una nuova organizzazione della vita economica, sociale e politica in chiave autonomista. Peraltro, in occasione delle elezioni del 1919, anche nei programmi del Partito Popolare e del Partito Socialista Italiano sono contenuti alcuni riferimenti alla «autonomia» della Sardegna.

Tale rinnovamento si sarebbe dovuto realizzare su un duplice terreno: quello delle riforme economiche e sociali e quello della riforma dello Stato attraverso la costituzione delle regioni che, spezzando l’accentramento, avrebbe dovuto porre le basi dell’autogoverno, indispensabile strumento per una crescita civile e democratica. Su questa base nell’Isola si sviluppò un ampio movimento di popolo che legò vaste masse di proletariato rurale e intellettuali delle città.

Così l’idea dell’autogoverno contraddistinse il pensiero e l’opera di valenti sardi tra cui vanno ricordati Umberto Cao, Giovanni Maria Lei Spano, Angelo Corsi, Emilio Lussu e Camillo Bellieni. Con essi e con altri la “questione sarda” usciva dalle elaborazioni teoriche per diventare istanza di popolo. Il movimento sardista si incentrava non solo, e non tanto, sul problema delle riforme economiche e sociali quanto su quello del nuovo rapporto tra la Sardegna e lo Stato Italiano che doveva rinnovarsi attraverso lo strumento della Regione da realizzare col riconoscimento di un’ampia autonomia o, secondo taluni, con la creazione di uno Stato federale.

Agli inizi degli anni Venti, il nascente fascismo, ben consapevole del valore del movimento sardista, cercò in tutti i modi di attuare la fusione tra le due forze politiche. Nonostante una percentuale significativa dei quadri e dei militanti del Partito Sardo d’Azione diede testimonianza della propria opposizione al fascismo, la fusione riguardò buona parte dei quadri sardisti, alcuni dei quali aderirono al regime sperando di “sardizzare” il fascismo facendogli accettare alcune delle rivendicazioni fondamentali del  Partito Sardo d’Azione. Tale speranza era destinata a naufragare in quanto, durante il fascismo, si verificò una forma di accentramento ancora più rigoroso rispetto al passato e persino le autonomie comunali vennero fortemente limitate con l’introduzione della figura del podestà e l’eliminazione dei momenti di confronto democratico. In compenso, nel novembre del 1924, su sollecitazione dei deputati fascisti ex sardisti, il governo emanò la “legge del miliardo” che stanziava quella imponente cifra per la realizzazione in Sardegna di un piano straordinario di opere pubbliche. Da allora si verifica una significativa modernizzazione della nostra Isola.

 

  1. Dall’armistizio allo Statuto Sardo

Il 23 marzo del 1943, l’andamento sfavorevole della guerra e la paura di uno sbarco alleato avevano indotto il governo fascista ad istituire in Sardegna (e in Sicilia) un Commissario straordinario per gli affari civili. Questo organo era ancora in fase di avvio quando, il 25 luglio del 1943, il Gran Consiglio votò la sfiducia a Mussolini. Il Commissario fu dunque soppresso e i pieni poteri, civili e militari, furono assunti dal Comandante Militare della Sardegna. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, la Sardegna veniva sottoposta al governo militare alleato. Ciò portò all’istituzione, il 27 gennaio 1944, dell’Alto Commissariato per la Sardegna che assunse un ruolo sempre più importante al punto di poter esercitare – sia pure in caso di necessità – «tutte le attribuzioni del governo centrale».

Di fatto questo organismo della burocrazia militare venne investito da un processo di democratizzazione che ne fece il primo nucleo del potere locale in una prospettiva autonomista. In breve si rese necessario affiancare l’Alto Commissario prima con una Giunta e poi con una Consulta  Regionale, espressione dei ricostituiti partiti politici antifascisti. Alto Commissario era il generale Pietro Pinna di Pozzomaggiore che rimase in carica dal 29 gennaio 1944 sino all’elezione del primo Consiglio Regionale, avvenuta l’8 maggio 1949, che ne segnò la soppressione.

La Consulta Regionale svolse un ruolo assai importante nella delicata fase del passaggio dal sistema centralistico all’autonomia regionale. Era nata con due funzioni politiche essenziali: garantire il più ampio consenso alla ricostituzione dello Stato italiano ed elaborare uno Statuto speciale per l’autonomia della Sardegna nell’ambito della rinnovata unità dello Stato democratico. La sua formazione, avvenuta sulla base del decreto governativo luogotenenziale del 28 dicembre 1944, costituì un grande evento storico in quanto prevedeva un piano di interventi straordinari per la Sardegna e consentiva alla stessa di esprimere una propria classe dirigente, capace di una reale autonomia nei confronti dei ceti dominanti a livello nazionale: questa classe era la borghesia urbana e rurale.

Quel periodo storico fu caratterizzato da una grande vivacità culturale, da forti tensioni politiche e sociali e da un inconsueto ottimismo. Sono anche gli anni dell’occupazione delle terre e della rivendicazione della riforma agraria da parte dei braccianti. Si chiede l’ammodernamento dell’economia isolana e si apre un dibattito sulla gestione della nascente autonomia che deve essere partecipata dal basso e capace di dare adeguate risposte alle istanze di superamento della tradizionale arretratezza.

In questa temperie viene elaborato lo Statuto Sardo che – al pari della Costituzione della Repubblica – è il frutto della positiva collaborazione tra partiti e formazioni politiche di diversa ispirazione. Discusso in via definitiva dall’Assemblea Costituente (nelle sedute del 28, 29 e 31 gennaio 1948), era stato in precedenza sottoposto al vaglio della “Commissione dei 75” – la stessa incaricata di redigere il progetto di Costituzione – e studiato da un’apposita sottocommissione che aveva predisposto il testo sulla scorta dell’elaborato proposto dalla Consulta Regionale Sarda. Decisivi furono in particolare gli apporti di Renzo Laconi, Emilio Lussu, Antonio Segni, Velio Spano, Salvatore Mannironi, Pietro Mastino, Enrico Sailis e Piero Soggiu.

 

  1. Dall’elezione del primo Consiglio Regionale al “Piano di Rinascita”

L’elezione del primo Consiglio Regionale (8 maggio 1949) fu di grande impulso per il rafforzarsi delle speranze autonomiste che peraltro vennero in gran parte frustrate da una subalternità mostrata dalle classi dirigenti isolane nei confronti della politica nazionale: subalternità frutto anche della struttura dei partiti che, con l’eccezione del Partito Sardo d’Azione, avevano i propri vertici decisionali a Roma. Sulla vita del Consiglio Regionale pesò, per tutti gli anni ’50, l’atteggiamento del governo centrale fortemente ostile all’attuazione del “Titolo V” della Costituzione, che avrebbe dovuto costituire il quadro di riferimento, a livello nazionale, nel quale l’autonomia regionale sarda era destinata a trovare un coerente inserimento.

In siffatto contesto l’autonomia speciale veniva guardata con diffidenza benché il potere regionale fosse stato assunto, in Sardegna, da quello stesso partito (la Democrazia Cristiana) che governava a livello centrale. La Democrazia Cristiana dava vita a Giunte regionali di centro (quelle presiedute da Luigi Crespellani e Alfredo Corrias) e di centro destra (presiedute da Giuseppe Brotzu). Negli anni ’60 – così come avveniva a livello nazionale – si verifica un’apertura ai socialisti con la formazione delle prime giunte di centro-sinistra (presiedute da Efisio Corrias, Paolo Dettori, Giovanni Del Rio, Nino Giagu e Lucio Abis).

I problemi più importanti che la Regione dovette affrontare al suo sorgere furono quelli della sua stessa esistenza. Nella sostanza, ferma l’esperienza della Consulta Regionale, si partiva dal nulla. Occorreva anche avviare la macchina burocratica. A tal fine venne incaricato il vice prefetto Senio Princivalle che ricoprì l’incarico di segretario generale della prima Giunta Regionale sotto la presidenza dell’avv. Luigi Crespellani. Tutto era difficile anche perché il governo centrale tendeva a svuotare l’autonomia finanziaria della Regione, rallentando la normativa di attuazione dello Statuto ed il passaggio alla Regione degli uffici, delle competenze e del personale spettanti per Statuto. In assenza della Corte Costituzionale, il governo centrale, attraverso l’istituto del «rinvio» delle leggi, condizionava in misura incisiva l’attività legislativa della Regione. A livello sociale, a partire dal 1950, le forze di sinistra animarono un forte movimento che prese avvio col primo “Congresso del popolo sardo” tenutosi a Cagliari, che pose al centro del dibattito il tema della “Rinascita”.

Negli anni ’50, infatti, il problema principale per la vita economica, politica e sociale della Sardegna era dato dall’attuazione dell’art. 13 dello Statuto che dichiara: «Lo Stato, col concorso della Regione, prevede un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola». La disposizione – è bene ricordarlo – venne formulata a seguito di una lunga controversia tra il Governo nazionale e la Consulta regionale sull’attuazione del piano di opere pubbliche predisposto dall’Alto Commissario Pinna e che il governo non aveva voluto finanziare. In sede di elaborazione dello Statuto, la rappresentanza sarda riprese l’iniziativa per l’attuazione del “Piano Pinna” ottenendo l’impegno al finanziamento di un piano di “opere pubbliche”. Questa formulazione, peraltro, apparve fortemente limitativa per cui si pervenne all’attuale testo, trasfuso nell’art. 13 dello Statuto, che costituisce l’espressione di un diverso rapporto tra la Sardegna e lo Stato in termini di solidarietà. Intorno a tale disposizione si svilupparono, nel corso degli anni, tutte le rivendicazioni di interventi straordinari ritenuti necessari per promuovere la rinascita economica e sociale dell’Isola.

Nel dicembre del 1951 la Regione riuscì ad ottenere la costituzione di un’apposita Commissione incaricata di predisporre un Piano per la rinascita economica e sociale della Sardegna. Tuttavia i lavori della Commissione iniziarono solo nella primavera del 1954 e si conclusero nel 1958-59 con la formulazione di un’ipotesi di sviluppo fondato prevalentemente sull’agricoltura e sulla sua trasformazione, sui servizi e sull’utilizzo industriale delle risorse locali. Gli elaborati della Commissione e le sue conclusioni apparvero nel complesso inadeguati alle esigenze di sviluppo della Sardegna.

La critica dell’ipotesi contenuta in questo documento coinvolse le forze politiche sarde e diede luogo ad un movimento unitario che rivendicava uno sviluppo fondato sull’industrializzazione e sulla valorizzazione delle risorse locali ed in particolare su un sistema di aziende industriali pubbliche. Questo movimento sfociò nell’approvazione della legge 11 giugno 1962, n. 588, che – accogliendo gran parte delle istanze della Sardegna – dava il via al “Piano di Rinascita”.

Purtroppo l’attuazione del “Piano” si rivelò inadeguata alle attese che su di essa si erano concentrate. In particolare non furono rispettati i principi di “aggiuntività” degli interventi (ben presto diventati sostitutivi della spesa ordinaria) e di “coordinamento” di tutti gli interventi. Inoltre la programmazione sarda non si collegò al quadro della programmazione nazionale. Tutto ciò, unito ad un sensibile processo inflazionistico, determinò un sostanziale affievolirsi della reale entità e quindi dell’efficacia concreta dell’intervento straordinario.

Da ciò la forte contestazione, da parte della classe politica sarda, delle inadempienze dello Stato nei confronti dell’Isola che nel 1967 sfociò nell’approvazione di un “Ordine del giorno al Parlamento” da parte del Consiglio Regionale. Tale ordine del giorno non venne accolto in sede nazionale ma costituì comunque la base di un movimento autonomista unitario che rivendicava un diverso rapporto tra Stato e Regione. La riflessione su tali temi evidenziò anche l’inadeguatezza della struttura amministrativa della Regione Sardegna per l’attuazione della legge 588.

Nel 1967-68 una serie di manifestazioni popolari in diversi centri delle zone interne metteva a nudo il saldo negativo della politica di attuazione della legge 588. In particolare, proprio nel periodo di avvio del “Piano di Rinascita”, si era registrata una massiccia ondata di emigrazione verso il Nord Italia e le aree industriali dell’Europa. Ciò aveva determinato un impoverimento del tessuto economico e sociale ben maggiore rispetto ai 400 miliardi stanziati per il Piano di Rinascita. Lo stato di crisi si manifestava anche con la recrudescenza dei fenomeni di criminalità e soprattutto col banditismo.

Nacque così la “Commissione Parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna”, presieduta dal senatore Giuseppe Medici, che concluse i suoi lavori nel 1972 con la predisposizione di una legge di rifinanziamento, integrazione e modifica della legge 588, il cui testo venne poi approvato con legge 24 giugno 1974, n. 268 (il “Nuovo Piano di Rinascita”). Tale legge trovò una gestione sostanzialmente unitaria da parte delle forze politiche presenti in Consiglio Regionale e delle forze sociali che diede maggior forza contrattuale nei confronti del governo centrale e dei potentati economici.

 

  1. I contenuti dello Statuto speciale

Nella sua formulazione iniziale (destinata a durare, con limitate modificazioni, sino agli anni Novanta del Novecento), lo Statuto era composto di 56 articoli, divisi in 7 «titoli», oltre le norme transitorie. Il Titolo I definisce la Regione Sardegna e individua in Cagliari la sua capitale. Il titolo II ne fissa le competenze principali: quella esclusiva (o primaria) in cui la legge regionale è l’unica fonte competente, prima ancora della legge dello Stato; quella ripartita (o secondaria) in cui la legge regionale concorre con quella dello Stato; quella integrativa (o attuativa) in cui la legge regionale integra la legge nazionale o la attua. Si tratta di un ambito davvero ampio di materie. Inoltre la Regione esercita le funzioni amministrative in tutte le materie in cui ha la potestà legislativa.

Il titolo III (Finanze, Demanio e Patrimonio) contiene norme che possono essere modificate con legge ordinaria, mentre per tutte le altre parti dello Statuto occorre l’avvio di un procedimento complesso (lo stesso previsto per le leggi costituzionali). I suoi articoli indicano le fonti delle entrate regionali, dettano talune disposizioni in materia fiscale, attribuiscono alla Regione il Demanio e la possibilità di istituire «porti franchi»; vi è poi l’art. 13 che prevede la predisposizione di un «piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola». Il titolo IV definisce l’organizzazione e il funzionamento della Regione. Gli organi esecutivi sono il presidente della Regione e la Giunta, formata da un numero variabile di assessori (che possono anche non essere consiglieri regionali). L’organo legislativo è il Consiglio Regionale. I consiglieri rappresentano l’intera Sardegna.

Il titolo V fissa i rapporti della Regione con Province e Comuni. Notevole importanza assume l’art. 44 il quale afferma che «la Regione esercita normalmente le sue funzioni delegandole agli enti locali o valendosi dei loro uffici»: l’idea è quella del decentramento del potere regionale sul territorio. Il titolo VI regola i rapporti fra lo Stato e la Regione. Si prevede che il presidente della Regione possa intervenire nelle sedute del Consiglio dei Ministri in cui si trattino questioni che riguardano la Sardegna. E’ anche previsto che la Regione debba essere interpellata sui progetti di trattati commerciali con l’estero che interessino la Sardegna, sulle tariffe e sulla regolamentazione dei trasporti. Infine si segnala che il Governo può delegare alla Regione funzioni di tutela dell’ordine pubblico.

Il titolo VII, composto da un solo articolo (il 54), disciplina la revisione dello Statuto prevedendo che possa essere modificato su richiesta del Consiglio Regionale o di almeno 20.000 elettori sardi o su iniziativa del Parlamento o del Governo. Per la sua revisione occorrono le stesse procedure previste per  la modifica della Costituzione.

Si fa presente che, con D.P.R. 5 luglio 1952, è stato concesso alla Regione Autonoma della Sardegna lo stemma e il gonfalone: «stemma d’argento alla croce di rosso accantonata da quattro teste di moro bendate». In pratica lo stemma dei “quattro mori”, pur non essendo autoctono (è originario della Penisola Iberica), in considerazione delle vicende che ne hanno caratterizzato l’utilizzo in Sardegna nel corso dei secoli e dunque per il valore identitario che ha assunto, è stato adottato come stemma della Regione. Quest’ultima, invece, non ha un proprio inno.

 

  1. La riforma dello Statuto

L’approvazione dello Statuto aveva dato ai sardi una risposta alla plurisecolare aspirazione all’autogoverno e un modello di organizzazione democratica. In quel particolare momento storico, speranza e consenso, creatività e mobilitazione, si fusero nella coscienza collettiva dei sardi. Tuttavia, già sul finire degli anni ’70 del Novecento (allorché le regioni a statuto ordinario erano divenute una realtà operativa), iniziò una riflessione più profonda sui contenuti dell’autonomia. Tra l’altro ci si accorse che, molto spesso, le regioni a statuto speciale erano più “deboli” rispetto alle regioni ordinarie. Ciò portò  ad un acceso dibattito sulla revisione dello Statuto.

Tale riflessione – che è tuttora in corso – dovrà collocare il nuovo Statuto nell’orizzonte internazionale ed europeo, caratterizzato dalla crescente interdipendenza tra le diverse aree del mondo e dal fenomeno della globalizzazione. In altri termini l’autonomia dovrà essere ridefinita per rispecchiare una realtà profondamente mutata nei suoi tratti materiali e immateriali. Maggior spazio dovrà essere riservato anche alla tutela del paesaggio e dei beni ambientali e culturali che sempre più contribuiscono alla formazione della nostra identità culturale in un contesto caratterizzato da crescente interdipendenza e sussidiarietà. Solo così l’identità regionale potrà divenire una ricchezza del sistema nazionale.

In questa prospettiva i sardi dovranno dare contenuti innovativi a parole controverse e complesse, quali “identità” e “specialità”. L’idea originale e forte intorno a cui fondare il nuovo patto con lo Stato risiede nella peculiarità di questa terra, del suo popolo e della sua cultura che la distinguono dalle altre parti della Repubblica. In altri termini, a 70 anni dall’approvazione dello Statuto speciale, occorre riscoprire e valorizzare la concezione dell’autonomia come apertura alla interazione tra i popoli nel rispetto delle diverse identità, propria dei migliori rappresentanti del pensiero autonomistico, al fine di non ridurla ad una forma di chiusura garantista e rivendicazionista ma aperta al mondo moderno per diventare il modo peculiare con cui la Sardegna partecipa, con la sua identità storica e politica, ai processi di integrazione economica e culturale che hanno – e sempre più dovranno avere – dimensione europea e mondiale.

 

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Riteniamo che questo excursus non sia privo di rilevanza in quanto dimostra che la Sardegna di oggi non nasce dal nulla ma è la risultante di una lunga e controversa vicenda storica che, nel corso del tempo, ha forgiato l’idea stessa di autonomia regionale ed ha segnato in modo indelebile anche la coscienza e la cultura dei sardi ed il loro modo di operare. L’attuale istituto autonomistico è il frutto della lenta modifica degli assetti politici e istituzionali in esito al rapporto dialettico instaurato dalla Regione con lo stato nazionale.

La discussione sulla natura e i compiti dell’autonomia regionale pone, tra gli altri, il problema di ricercare, nel passato della storia politica e civile dell’Isola, le origini dell’idea autonomista e le forme dell’elaborazione di questo principio-guida dell’azione rivendicativa come si sono manifestate in tanti momenti nella storia isolana.

Nel corso dei 70 anni di autonomia regionale, la Sardegna si è trasformata profondamente sotto i più importanti punti di vista. In particolare è cresciuta la coscienza della propria soggettività etno-storica e politica, che sta alla base della stessa autonomia e delle ragioni della specialità. Ciò ovviamente non è da ascrivere a merito esclusivo dell’istituzione della Regione essendo in gran parte dovuto all’evoluzione culturale ed al processo di crescita sociale ed economica che – pur tra notevoli limiti e contraddizioni – si è verificato a tutti i livelli.

Oggi, ripensare l’autonomia significa comprendere la nostra “identità”, cioè il rapporto fra “tradizione” (il passato, la storia e la civiltà regionale) e “modernità” (il futuro e la società globale). Ripensare l’autonomia significa anche avere capacità di autogoverno che non vuol dire “separazione” ma volontà di esprimere una propria classe dirigente ed un proprio modello di sviluppo che valorizzi la memoria storica della Sardegna nella società contemporanea.

 

*Antonello Angioni, avvocato, è vicepresidente della Fondazione Siotto e direttore dell’Istituto Gramsci della Sardegna.

 

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