Sardegna e Catalogna, vicende storiche ed attualità a confronto (2). Intervista a Franciscu Sedda, segretario del Partito dei Sardi, di Enrico Lobina

L’EDITORIALE DELLE DOMENICA,  Le interviste della  FONDAZIONE (2).

 

 

Domanda. La Catalogna contava sull’Unione Europea per veder affermato il principio di autodeterminazione. Come leggi la chiusura che c’è stata? Possiamo fidarci dell’Unione Europea? Il Partito dei Sardi è europeista?

 

Mi aspettavo che l’Unione Europea si rendesse conto di quanto è stata ottusa e perdente la politica che ha seguito con la Scozia, quando ha avvantaggiato la Gran Bretagna e poi si è trovata davanti alla Brexit. Speravo avesse imparato da questa cecità geopolitica e che vedesse nel cammino di un popolo di salda tradizione democratica ed europeista come quello catalano un’occasione anche per rilanciare la sua credibilità e il suo progetto. E invece, se possibile, l’Unione Europea è riuscita a fare anche peggio. E il silenzio davanti alle incarcerazioni di persone che hanno pacificamente portato avanti le proprie idee e hanno avuto un mandato democratico dal proprio popolo per guidarli verso l’autodeterminazione suona come un oltraggio ai valori di cui l’Europa dovrebbe essere custode. È evidente che le cose devono cambiare. Per il bene delle persone, dei popoli, della democrazia. E della stesse idea di Europa.

 

Invece Bruxelles ha delegato gli stati nazionali e la Spagna all’esercizio della funzione politica. Cosa significa per te? E’ un elemento strutturale della strutturazione europea.?

 

E’ evidente che l’Europa ha difficoltà a fare politica, nel senso alto del termine. In questo riflette una più generale crisi del fare politica che attraversa gli Stati che la compongono. Stati egoisti, che hanno difficoltà a fare una politica che sappia affrontare le grandi crisi contemporanee con la necessaria spinta solidale imposta da sfide transnazionali. Stati spaventati, che reagiscono alla paura con altra paura, che si rifugiano nel conservatorismo o nelle politiche di austerità quando davanti a problemi inediti servirebbe sperimentare coraggiosamente soluzioni inedite e generose. Stati ottusi, che chiudono gli occhi davanti al loro nazionalismo sempre più xenofobo e nel mentre però criminalizzano l’indipendentismo democratico e progressista, facendone il capro espiatorio dei loro fallimenti.

E invece è proprio l’internazionale indipendentista che dalla Scozia alla Corsica, dalla Catalogna alla Sardegna attraversa l’Europa, che attraverso la creazione di nuove Repubbliche – consapevoli e aperte al contempo – potrebbe ridar senso ad un patto civile fra i popoli europei, per fare dell’Europa un reale soggetto politico, dalla parte dei diritti e delle aspirazione delle persone.

 

Quali possono essere le ricadute della vicenda catalana per la Sardegna e per l’Europa?

 

Penso che abbia rafforzato quel necessario senso di realtà che deve accompagnarsi al sogno dell’indipendenza. La Catalogna ha dimostrato in modo eclatante due cose fondamentali: che l’indipendenza si può fare, ma che il cammino verso l’indipendenza non è una passeggiata. Per questo, anche in Sardegna, dobbiamo investire ancor di più sulla creazione di un consenso interno rispetto all’indipendenza e ancor prima rispetto all’idea di appartenere ad una nazione storica che in quanto tale ha diritto di scegliere il proprio futuro.

Quello che è successo in Catalogna ci ricorda che serve preparazione del terreno. Serve far crescere la consapevolezza che la nonviolenza è l’arma più forte a disposizione dei popoli e delle loro ragioni. Serve far crescere il senso di responsabilità verso chi ci vive a fianco e verso la nostra terra. Serve dimostrare ogni giorno, anche con piccoli risultati di solidarietà, coesione, prosperità, che si può fare una società all’altezza dell’indipendenza. Serve costruire le nostre strutture di Stato prima ancora che il nostro Stato ci sia – e qui ci sarebbe davvero da riflettere sul ruolo che la polizia catalana e i pompieri catalani hanno svolto a supporto delle istanze popolari. Serve fare leggi ambiziose per la propria gente, per i propri cittadini, per i più deboli – come ha fatto la Catalogna con le leggi contro la povertà energetica o la crisi abitativa – per smascherare l’ipocrisia degli Stati attuali, la loro distanza dai travagli della gente, tanto più di quella gente altra che vive dentro i loro confini. Bisogna far percepire che l’indipendenza è giusta, necessaria e fattibile al tempo stesso.

 

Il governo spagnolo vuole diminuire gli spazi concessi alla lingua catalana. A tuo parere c’è stata da parte italiana, nei secoli, una azione preventiva di repressione nei confronti del sardo?

 

Mio padre a 5 anni parlava solo in sardo. L’italiano gli è stato insegnato a forza di bacchettate, umiliazioni, minacce ai genitori di multe (illegali) con l’avallo di forze. È successo a tanti. Ed è successo poco più di sessant’anni fa. Lui per fortuna ha avuto la forza di non dare la colpa al sardo. Altri hanno dato la colpa del dolore patito alla lingua sarda. Il punto però è che se lui, i miei nonni, la stragrande della mamme e dei padri sardi hanno smesso di trasmettere il sardo non è solo perché sentivano il peso della minaccia ma perché c’era stato chi in Sardegna aveva preparato il terreno dicendo che la Sardegna era una nazione abortiva, fallita, priva di storia, di cultura, di lingua. E ancor prima perché era stato spezzato il filo che durante l’indipendenza medievale, fino alla Carta de Logu scritta in sardo “pro su beni dessa republica sardisca”, aveva legato il potere sardo alla lingua sarda come lingua nazionale. Mariano IV d’Arborea parlava e scriveva correntemente il sardo, il latino, il catalano, l’italiano. Dobbiamo tornare lì, tornare al futuro. Ad un potere sardo che costruisca un plurilinguismo maturo e consapevole: che ha consapevolezza che viviamo in presenza di tutte le lingue del mondo, che investe sulla conoscenza delle lingue, che ridà al sardo (e al sardo-corso, al tabarchino, al catalano di Alghero) il ruolo di lingua nazionale usata quotidianamente in tutte le sfere sociali. Serve che oggi a chi parla il sardo si faccia una carezza.

 

La contemporanea iniziativa di massa, che sembra estendersi in Sardegna, per l’indizione di un referendum, per  l’introduzione del concetto di insularità in Costituzione. Qual è la posizione tua e del Partito dei Sardi?

 

L’Italia da anni avrebbe potuto risolvere la questione mandando un pezzo di carta all’Unione Europea. Non lo ha mai fatto. Con malizia e cattiveria. Per me dunque non ha senso chiedere al carnefice di salvarci. Ripeto, non sono riusciti a mandare una banale lettera per dire che abbiano diritto all’applicazione di regole diverse e ora dovrebbero addirittura modificare la loro costituzione. Uno spreco di fiducia e di tempo.

Se proprio si voleva seguire una via costituzionale questa era l’inserimento dell’insularità dentro un nuovo statuto sardo. Dunque non chiedere all’Italia ma affermare da sardi.

Il punto è che quella benedetta lettera sembra ormai sul punto di partire. E questo perché grazie al lavoro della Giunta sulla quantificazione dei costi e delle distorsioni strutturali dell’insularità e all’idea del Partito dei Sardi di fare finalmente una nostra politica estera, attraverso l’azione congiunta con Corsica e Baleari abbiamo saltato l’Italia, abbiamo fatto pressione direttamente sull’Unione Europea e i riconoscimenti ottenuti in Europa hanno messo in imbarazzo e sotto pressione lo Stato. Se tutto va bene presto la questione insularità sarà finalmente derubricata dall’agenda delle incompiute e faremo sul serio giustizia di una delle tante slealtà dello Stato italiano nei confronti dei sardi.

Resta il sospetto, argomentato anche da acuti costituzionalisti sardi certamente non indipendentisti, che tutto questo parlare di referendum sull’insularità sia servito non solo a distrarre dai risultati che finalmente si stanno ottenendo ma anche per contrastare la crescita di credibilità che l’indipendentismo stava ottenendo attraverso la politica estera fatta con la Corsica e le Baleari.  L’idea che i sardi, proprio smettendo di chiedere, fa paura. E invece è l’uovo di Colombo. Affermarsi come sardi, in Sardegna e direttamente in Europa, è il compito attorno a cui ci si deve unire.

 

Il conflitto stato-regione sull’aspetto finanziario (comprendente anche il tema dell’agenzia delle entrate): fino a che punto credi vada implementato il conflitto istituzionale? Su questo tema, peraltro, il Partito dei Sardi si è molto caratterizzato.

 

La vicenda dell’Agenzia sarda delle Entrate è esemplare di cosa è la libertà, da un punto di vista politico-istituzionale, oggi in Sardegna. Sei libero, o meglio, puoi credere di essere libero fino a quando non provi veramente ad esserlo. È solo in quel momento che ti rendi conto della soffitta di vetro che limita la possibilità di alzare veramente la testa, di smetterla di camminare piegato.

Il primo risultato della vicenda dell’Agenzia Sarda delle Entrate e del ricorso del Governo italiano è aver dimostrato che in Sardegna come in Catalogna e in altre nazioni storiche che prima di noi hanno vissuto le stesse vicende è solo la pratica della sovranità che dà la misura della slealtà ed inaffidabilità dei governi centrali. Ed è solo la pratica della sovranità, magari portata avanti da singole forze che investono sull’indipendentismo al governo, come ha fatto il Partito dei Sardi, che offre l’occasione per unirsi davanti alle ingiustizie dello Stato e svela chi veramente ha voglia di unirsi e chi invece gioca sulla pelle dei sardi una partita che ha come obiettivo quello di portare acqua al mulino dei propri referenti romani, siano essi di centrosinistra, centrodestra o dei cinque stelle.

La speranza è che si capisca finalmente che l’unica salvezza viene dalla capacità di individuare un livello condiviso, anche da chi non è ancora indipendentista, che mette al centro e ha come unico riferimento i diritti e gli interessi della nazione sarda. Da affermare governando, da affermare senza più fidarsi di inesistenti “governi amici” a Roma.

 

 

La pratica indipendentista in Sardegna, tra un’elezione regionale e l’altra, è sufficiente? Come ne spieghi l’esiguità? Ritieni sufficiente e giusta la pratica del PdS?

 

Il PdS ha messo gran parte del suo capitale di forza e di energia sull’azione di governo, in primis quella per l’Agenzia delle Entrate, nel rapporto con la Corsica e le Baleari, nel tanto ed importante lavoro che si è fatto in tre anni e mezzo alla guida dell’Assessorato ai Lavori Pubblici, nelle tante battaglie in aula sulla sanità, l’agricoltura, gli enti locali, la scuola e tanto altro.

Eppure io continuo a credere che il primo spazio sociale dell’indipendentismo è per strada, in mezzo alla gente. È da lì che si carica la molla, che si creano le idee e la legittimazione per portarle avanti dentro il Parlamento sardo e al governo della Sardegna. “È il popolo che salva il popolo”, come viene ripetuto in queste ore in Catalogna.

Quello che mi stupisce è che mentre noi del Partito dei Sardi eravamo impegnati nell’azione di governo altri avrebbero potuto occupare questo spazio. E invece hanno passato il tempo a protestare o malignare contro di noi. Un pessimo modo di fare politica indipendentista e un ottimo modo di regalare consenso ai Cinque Stelle. In compenso, dando onestamente battaglia dentro il Parlamento sardo, a volte vincendo, a volte no, ma sempre argomentando con trasparenza e carica costruttiva le nostre posizioni, noi del Partito dei Sardi abbiamo visto crescere il nostro radicamento territoriale, la nostra forza sociale, che oggi si basa anche su più di trenta sindaci, cento amministratori, millecento iscritti, su tanti sostenitori e simpatizzanti che già oggi lavorano quotidianamente per far avanzare il nostro indipendentismo. Oggi siamo dunque pronti a ripartire dalla strada. E magari a saldare, finalmente, il popolo sardo e il governo dei sardi. Questa è la sfida che ci aspetta.

 

 

Cosa impedisce in Sardegna l’unità tra le organizzazioni indipendentiste: linee politiche, leadership, formule organizzative?

 

Parliamo di cose belle. Il PdS al congresso lancerà una chiamata alla convergenza nazionale dei sardi, in cui si rifiuta il dialogo solo ed esclusivamente con le forze xenofobe e razziste. Sul resto, lo ripeto, siamo apertissimi al dialogo: lo siamo con chi non è indipendentista, figuriamoci se non lo siamo con chi è indipendentista. L’importante ora è convergere sull’idea della nazione sarda, come si è fatto anche in Corsica. Mi piacerebbe che anche gli altri fossero per il dialogo con noi e con tutti i sardi, non sulla base di chi è puro o impuro, santo o venduto, eroe o servo, ma sulla base di quello che c’è concretamente da fare per far vivere meglio i sardi e avvicinarli all’indipendenza. Che, lo ricordo, è indipendenza dallo Stato italiano e non indipendenza fra sardi.

 

La Fondazione Sardinia si è occupata spesso di ambiente, territorio, modello di sviluppo. Quale l’idea della Sardegna del futuro, se potessi deciderlo tu?

 

La mia idea è quella che con Paolo Maninchedda abbiamo inserito nel manifesto fondativo del Partito dei Sardi: produrre nuova ricchezza ecosostenibile e diffusa. Questo abbiamo scritto fin dal principio ne “L’indipendenza della Sardegna. Per governare e trasformare il presente” e a quella si ispira la nostra azione. Che vuole essere realmente trasformativa – e non puramente ideale – e dunque si confronta con il fatto che servono azioni di breve, medio e lungo periodo. Che per arrivare a veder realizzati i progetti più importanti serve tempo, consenso, capacità di negoziazione fra punti di vista differenti, maturazione di coscienze e politiche. Si tratta dunque di trasformare la Sardegna essendo al contempo capaci di produrre ricchezza senza consumare l’ambiente. Creare ricchezza ad alto tasso di capitale umano e cognitivo e col più basso tasso possibile di impatto sul territorio, direi anzi, sul pianeta. È facile? No. Ci abbiamo provato. Sì. Ci siamo sempre riusciti o siamo sempre riusciti a farlo capire? Certamente no e certamente a volte qualcuno ha voluto maliziosamente fraintendere scelte di breve-medio periodo, fatte per evitare che la Sardegna si trasformasse in una discarica a cielo aperto – come purtroppo spesso è per nostra incuria e inciviltà – con le visioni di lungo periodo che nel mentre vanno implementate, per arrivare a rifiuti zero, ad un’economia circolare e del riciclo totale. O quasi zero e quasi totale, per essere intellettualmente onesti, dato che lo zero e il totale in queste materie sono fuori dalla portata umana. Ora con nuove fasi elettorali alle porte avremo magari l’occasione di levarci qualche sassolino dalla scarpa ma soprattutto l’opportunità di raccontare quello che abbiamo fatto o contribuito a fare: dagli investimenti per depurare l’acqua e smettere di sprecarla; dalla battaglia con Enel per riprenderci e implementare la produzione di energia idroelettrica, che è la prima fonte rinnovabile a disposizione; a tutte le linee di finanziamento per l’efficientamento energetico e il passaggio alle auto elettriche; alla costante pressione perché avanzassero risanamenti ambientali che attendevano da anni. Lo abbiamo fatto avendo ricevuto in dote, all’inizio, poco meno del 2,8% dei voti e due rappresentanti al Parlamento sardo. Lo ricordo perché tutti chiedono conto al Partito dei Sardi come se avesse avuto la forza e il mandato per governare da solo la Sardegna. Non è così. Non ancora. Ma è un buon segno che questa sia l’aspettativa. Intanto oggi quei voti e i nostri rappresentanti sono più che duplicati. Se raddoppiassero ancora potremo fare ancora di più: più ricchezza, più ecosostenibile, più diffusa.

 

 

Alla luce di quanto hai detto, che futuro vedi per la Giunta Pigliaru? Che giudizio dai?

 

Noi diamo un giudizio certamente positivo dell’idea di un indipendentismo che governa  e che sa governare, che è il migliore nell’offrire soluzioni di governo. Dunque credo sia stato positivo prendersi il rischio di fare un’alleanza anche in condizioni non favorevoli. E sia stato positivo farlo mettendo nero su bianco i punti di mandato su cui avevamo stretto un patto e che stiamo realizzando.

Dopo di ché, sull’azione di governo, come ho anticipato, vediamo luci e ombre. Ma questo quando si va al governo in una posizione di minoranza è poco meno che ovvio. Solo gli ingenui non sanno che non si va sulle montagne russe se si soffre di vertigini.

Al congresso dunque ci presenteremo sottolineando criticità e positività. E continuando a offrire soluzioni anche per l’ultimo scorcio di legislatura e ancor più per ciò che verrà dopo.

Credo che dobbiamo tenere ferme due cose: la nostra chiarezza indipendentista, la nostra onestà e trasparenza nel valutare risultati positivi o meno positivi. Non si fa una Repubblica nuova fingendo che vada tutto bene, ma nemmeno vedendo sempre tutto nero.

Noi siamo entrati al governo con tanti che pensavano che avremmo smarrito la linea indipendentista. E invece l’abbiamo difesa, sviluppata, applicata. Oggi il Partito dei Sardi parla con una voce indipendentista sempre più forte e matura. Al contempo abbiamo dato battaglia, dentro e fuori dall’aula, dentro e fuori dall’alleanza di governo, con spirito costruttivo. Esponendo con onestà le nostre ragioni e posizioni. Esponendo con trasparenza successi e travagli. Credo che questo oggi ci venga riconosciuto. Credo che questo ci faccia forti. Credo che questo sia un patrimonio di credibilità importantissimo, per noi come Partito, ma anche per tutta l’idea e il movimento indipendentista.

Ora si tratta di andare avanti, aprire una nuova fase, provare a provocare una grande convergenza nazionale dei sardi. Se siamo riusciti a fare tanto già così, appena nati e spesso incompresi dai nostri stessi alleati, cosa potremmo fare se andassimo al governo non con soli indipendentisti ma con un programma, una leadership, un mandato popolare che ha al centro l’affermazione dei diritti e degli interessi nazionali dei sardi? Cosa potremmo fare con una candidatura ispirata alle nostre idee, magari persino guidata da noi?

Vale la pena provarci. E vale la pena pensare di giocare oggi per aprire il percorso dei prossimi dieci anni.

Il Partito dei Sardi ha rotto il ghiaccio dell’indipendentismo al governo; domani può esserci un’alleanza in cui l’indipendentismo pareggia i rapporti di forza con le forze non indipendentiste o addirittura diventa il “core business”, la parte forte, della coalizione; dopodomani potrebbe esserci il primo vero governo indipendentista della Sardegna.  L’indipendenza potrebbe essere a tre giorni di distanza.

(La precedente intervista di Pier Sandro Pillonca, al segretario del PSd’AZ, Christian Solinas, è stata pubblicata in questo sito lo scorso 19 novembre).

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