Antonio Romagnino (2), l’impronta di un ventenne in una rivista del GUF cagliaritano di Gianfranco Murtas

 

 

Sud-Est, il periodico mensile (o press’a poco) della Gioventù Universitaria Fascista di Cagliari, uscì dal novembre 1934 al 1942-43. Ne hanno scritto benissimo Francesco Atzeni e il caro e compianto professor Lorenzo Del Piano nel loro Intellettuali e politici tra sardismo e fascismo, per i tipi della CUEC cagliaritana, nel 1993. Atzeni, in particolare, offre questa sintesi: «Come Pattuglia, anche Sud-Est dedica ampio spazio a quelli che erano i temi di maggiore interesse per i giovani universitari, dai littoriali della cultura (la cui importanza sulla formazione della generazione di intellettuali cresciuta negli anni trenta è stata messa in rilievo da tutta la storiografia che si è interessata di questi aspetti), ai littoriali dello sport (sulla cui organizzazione, come su quella dei littoriali della cultura, vengono assunte posizioni critiche, perché sfavorevoli, così come organizzati, alle piccole università, ed avanzate osservazioni anche sull’impostazione e sui contenuti), ai temi di carattere letterario ed artistico, alla cronaca della vita artistica, letteraria, teatrale e sportiva cittadina; pubblica poesie, novelle e saggi critici; ospita studi, note e commenti riguardanti alcuni aspetti del dibattito su problemi culturali e politico-ideologici del periodo, come quelli sulla razza, sull’organizzazione corporativa e sindacale e su quella culturale; manca però alla rivista quello spirito critico e battagliero che aveva caratterizzato, in nome di un assoluto rigore morale e ideologico, il foglio diretto da Italo Stagno» (cioè Pattuglia).

«Sud-Est dedica inoltre largo spazio in articoli, note e commenti ai principali problemi di politica estera, ed in particolare ai problemi coloniali e mediterranei» aggiunge Atzeni, che ancora precisa: «Lino Businco si interessò della fase ascendente del Giappone e del suo crescente ruolo politico nello scacchiere orientale, Giuseppe Licheri delle isole filippine, mentre Luigi Pirastu faceva una rapida analisi della politica estera hitleriana e della realtà politica della Francia; non manca inoltre, soprattutto nel 1935, in sintonia con l’orientamento di politica estera del Regime […], una precisa denuncia dei pericoli derivanti da un rafforzamento della Germania e della “pericolosa rottura dell’equilibrio europeo” che sarebbe venuto dall’unione ad essa dell’Austria […]. Sud-Est si occupò inoltre della guerra civile in Spagna, dove era in corso, per i giovani redattori, non una semplice lotta fra due parti avverse, ma una lotta “fra i brutali rappresentanti della follia bolscevica” e i difensori della tradizione nazionale; la vittoria delle forze nazionaliste […] avrebbe perciò fatto risorgere “alla sua naturale funzione uno dei più validi elementi della civiltà mediterranea”, rendendo possibile alla Spagna di riprendere, accanto all’Italia fascista, che costituiva “un elemento di forza e di stabilità” nel centro del Mediterraneo, la sua importante funzione mediterranea».

Di Sud-Est io stesso discussi con Antonio Romagnino, nella lunga, lunghissima intervista uscita in La città chantant, monarchica, clericale e socialista (Cagliari, 2000). Ecco la testimonianza e il giudizio del professore: «[Sud-Est] è una rivista che sul declinare degli anni ’30 – diciamo 1935-36, quando io sono matricola – fu pubblicata dal gruppo universitario fascista. Il titolo è un po’ strano e viene dall’aver l’ideatore tenuto presente, e citato anche, mi pare, un discorso di Mussolini, il quale aveva indicato nel mezzogiorno e nell’est le grandi linee di sviluppo dell’Italia imperialista, quindi la rivista era fascista – non avrebbe potuto non esserlo –, non lo nascondeva e si ricollega alla politica più discussa e negativa di Mussolini che era l’imperialismo. Allora c’era la guerra d’Africa, la guerra d’Etiopia. Poi ci sarebbe stata la guerra di Spagna, e Mussolini mirava anche all’oriente e al medio oriente.

«La rivista era stata ideata, e se non ideata comunque diretta, per lunghi anni, da Lino Businco… Ad esprimere un giudizio inoppugnabile ed austero su Sud-Est c’è Sotgiu, Girolamo Sotgiu che ha scritto che tutti quelli che hanno fatto cultura, che sono stati in diversa misura forti intellettuali post bellici, sono stati prima collaboratori di Sud-Est, ad iniziare da Renzo Laconi, oppure dal suo compagno che era Gino Forresu, professore di diritto costituzionale… ma tanti altri, come Massacci che era un altro compagno di Renzo Laconi, socialisti e comunisti negli anni della guerra e dopo, o che erano rimasti fascisti, come Businco stesso, o diventati liberali, facendo insomma esperienze che li avevano staccati più o meno rapidamente dal fascismo».

E circa i risultati di quella esperienza, che fu anche la sua: «Per molti è stata l’occasione offerta a cimentarsi nella scrittura, a provare quella specie di gioia, di gioco gioioso che è lo scrivere ed il firmare, di gratificazione in se stessa che è il comporre. La collaborazione era gratuita, naturalmente, la rivista avrà raggiunto forse appena mille persone… ma essenzialmente di positivo c’è stata questa possibilità di fare esercizio, che è stato utile soprattutto per quelli che hanno continuato ed hanno fatto esperienze più continue e più rigorose. Io non la cancellerei, questa esperienza giovanile, tutt’altro: prima di tutto perché c’è stata, ma poi perché c’è stata anche per la vita degli altri che pur non vi si sono poi più riconosciuti idealmente, o ideologicamente, insomma che hanno superato quel momento».

Concetti che ritornano, questi, in diversi scritti dello stesso Romagnino, fra cui ricorderei qui Farfalle & altro (Cagliari, 1997) in cui egli avverte – e lo si è visto prima – che quella testata non si riferiva «alla posizione geografica di Cagliari» («che semmai è propriamente a sud-ovest dell’Italia»), «ma perché mezzogiorno ed oriente erano le direttrici indicate dal Duce dell’espansione imperiale dell’Italia. In questa atmosfera imperialistica proprio nel discorso che aveva aperto le celebrazioni si era vantata quasi come una gloria cittadina il fatto che due anni prima, il 9 giugno 1935, Mussolini parlando dal ponte dell’Aurora che era attraccata al molo della Sanità, aveva annunciato la guerra d’Africa» (cf. p. 199).

Nato con la direzione responsabile di Francesco Alziator, affiancato Paolo Ballero Pes, Lino Businco, Marcello Serra e Francesco Zedda – al tempo già tutti laureati –, il periodico sarebbe passato quindi alla guida personale di Businco e quindi di Paolo Loy (affiancato da Businco). Romagnino, dopo che collaboratore, ne sarebbe diventato redattore capo, salvo errore, nel 1940, con la direzione di Mario Zirano (seguita da quella di Raimondo Leone).

Direzione ed amministrazione al civico 7 della via Collegio, ad un passo dalla parrocchiale di Sant’Eulalia, la rivista avrebbe potuto contare su collaborazioni larghe: una quarantina le firme in avvicendamento più frequenti, uscita dopo uscita, un’ottantina nel complesso. Una decina i redattori raccolti per qualche tempo in una sede romana. In copertina la foto (scattata dall’alto) di un grigio esercito di soldati in marcia con elmetto in capo e moschetto in spalla, o comunque di masse di gran coro senza nome, e un qualche slogan variabile nel tempo: «Bisogna essere forti», «L’Italia è un’isola che si immerge nel Mediterraneo», «Abbiamo le armi del cielo, della terra e del mare: numerose e temprate le due guerre vittoriose». Prezzo della copia, una lira.

Purtroppo nessuna delle collezioni conservate nelle biblioteche pubbliche di Cagliari è integra. Il più dei numeri usciti si trovano, rilegati, alla Mem, alcuni sciolti presso la Camera di commercio, altri – quelli finali degli anni ’40 – alla Universitaria (che però li ha inscatolati e, di recente, assurdamente resi inaccessibili).

Con la sottotestata “Rivista di cultura edita dal Guf di Cagliari”, doveva trattarsi, come detto, di un mensile, seppure non sempre la periodicità aveva potuto essere rispettata. Sette, quasi otto gli anni di uscita, quasi estemporanee le ultime apparizioni per una diffusione ormai difficoltosa e forse impossibile per l’infuriare crescente del conflitto e la dispersione di redattori e collaboratori nei vari fronti di guerra.

Il ricaccio degli scritti firmati (o siglati) da Antonio Romagnino – al tempo (per il più) studente a Lettere, concorrente ai littoriali del 1936, responsabile della sezione cinematografica del Guf (e per il tanto in missione nazionale) – non sono molti, una decina appena. Altri potrebbero essere anonimi, redazionali. Ma certamente tutti interessanti: alcuni di carattere letterario (sulla Deledda e su Pirandello, in occasione della loro morte, per entrambi sopraggiunta nel 1936), altri su materia cinematografica trattata anche ai littoriali o di cronaca musicale, altri ancora – i conclusivi, rimontanti al 1940, quando egli, già laureato, aveva iniziato ad insegnare ad Iglesias – di stretta attinenza politica e di riferimento alla contingenza bellica.

Eccone il repertorio (se non completo, per le cennate difficoltà di raccolta ordinata dei diversi numeri dispersi, quasi completo). Con un doveroso inquadramento, sia pure soltanto orientativo, della realtà universitaria nel periodo. Valga come indicativo, perché reso dalla stessa rivista, l’anno accademico 1937-38, quando è magnifico rettore Giuseppe Brotzu: gli iscritti sono complessivamente 672, dei quali 156 a Lettere e 17 al corso filosofico della stessa facoltà; 195 quelli fra Giurisprudenza e Scienze Politiche, 178 a Medicina e Chirurgia, 70 a Scienze matematiche fisiche e naturali (chimica compresa), 38 al biennio di Ingegneria, 18 a Farmacia.

A seguire è la riproposta dei testi. Romagnino redattore 19-22enne è un giovane, classe 1917, che ha avuto la ventura di iscriversi alla scuola dell’obbligo, bambino nel 1923, quando Mussolini è già al governo. Evidentemente l’intera sua formazione scolastica, e civica, è integralmente segnata dai messaggi del regime, dalla sua metodica e soprattutto dalla sua ideologia. Gli articoli che firma o sigla rivelano, esplicito, quell’imprinting anche se non scadono mai nella pura propaganda. Mostrano anzi un pensiero, una capacità elaborativa (così in letteratura come in politica), una propensione a sfilarsi dal convenzionale e dal semplicismo che, pur fra inevitabili e insuperate contraddizioni, avranno modo di emergere, positivi, in un’età successiva e più matura. Sarà la prigionia americana, fra il 1943 ed il 1945, a fare di quel “gufino” pensoso ed eclettico, controcorrente in più manifestazioni, un liberale ed un democratico, un liberal come diceva lui. E c’è da pensare a quanta fatica liberatrice egli debba essersi caricato addosso, a furia di letture di Tocqueville, per consegnare a sé l’identità complessa ma limpida che in molti abbiamo conosciuto lungo numerosi decenni, e l’autorevolezza del docente (disciplinato ma, appunto, mai conformista) così come dell’intellettuale cittadino operativo, apostolo direi, negli spazi offertigli e tante volte però conquistati d’iniziativa, tradizionale e “nuovista” sempre, nell’associazionismo e no.

Repertorio Romagnino

n. 7/marzo-aprile 1936 XIV

I Littoriali della Cultura e dell’Arte

n. 9/settembre-ottobre 1936

Grazia Deledda

n. 10/settembre-ottobre 1936 XV

Stampa e cinematografo [Problemi cinematografici]

n. 11-12/novembre-dicembre 1936 XV

Pirandello nella vita e nell’arte [Artisti che scompaiono]

n. 13/gennaio-febbraio 1937 XV

Il cinema e i giovani [Per la nostra cinematografia]

n. 16/dicembre 1937 XVI

Visita a Cinecittà

Scherzi e fughe musicali

n. 23/marzo 1940 XVIII

Editoriale

Quattordici ragazze da Berlino

n. 24/ settembre 1940 XVIII

Editoriale

Islam contro Inghilterra

 

n. 7 /1936

I Littoriali della Cultura e dell’Arte

Prelittoriali. Secondo le disposizioni di S E. il Segretario del Partito venne quest’anno composta una commissione per la scelta in gare eliminatorie dei rappresentanti (non più di tre per ogni convegno) del Guf di Cagliari ai Littoriali dell’Anno XIV. La commissione dei Prelittoriali risultò così composta: On. Avv. Giovanni Cao di San Marco, R. Commissario della Università di Cagliari, presidente; Dott. Prof. Bachisio Motzo, ordinario presso la Facoltà di Lettere, Dott. Prof. Giuseppe Brotzu, preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia, Dott. Prof Carlo Balestri, Regio Provveditore agli Studi, Dott. Raffaele Delogu, critico d’arte, membri; Dott. Ubaldo Nieddu, Presidente dell’Istituto Coloniale Fascista, segretario. Risultarono inscritti N. 10 concorrenti ai convegni di Politica, N. 14 concorrenti ai convegni di Letteratura, N. 12 concorrenti ai convegni d’Arte, N. 6 concorrenti al convegno di studi scientifici, e infine N. 6 al concorso di giornalismo. Inoltre si presentarono con Monografie i Fascisti Universitari Tului Raimondo (Concorso per una monografia di carattere corporativo), Pitzalis Italo (Concorso per una composizione narrativa), G. Pattarozzi (Concorso per una composizione poetica). Ai concorsi artistici furono presentate opere di Giovani Fascisti e di Universitari. Degne di nota tra esse la scultura «Si scopron le tombe» del G. F. Cinzio Ciusa e il bozzetto per affresco «La via dell’impero» dell’Un. Vincenzo Loi.

Le classifiche dei Prelittoriali, svoltisi nei giorni 22-27 gennaio, furono le seguenti:

Convegni di letteratura

a) Prosa e Poesia

1.) Massidda Aldo (L’Etiopia e il problema africano nel Massaia e nell’Oriani); 2.) Romagnino Antonio (Marco Polo e il Milione).

b) Teatro

1.) Pitzalis Italo (Teatro Politico e Carro di Tespi); 2.) Cannas Amerigo (Il teatro dì Pirandello).

Convegno di studi scientifici

1.) Adamo Marco (Il nuovo e l’antico in Galileo Galilei secondo gli studi contemporanei); 2.) Reale Loto (Rivendicazioni italiane sulla scoperta della circolazione sanguigna).

Convegni d’arte

a) Arti figurative

1.) Campus Giovanni (Momenti storici della Pittura italiana); 2.) Zanda Mario (La Pittura italiana all’estero).

b) Musica

1.) Frau Giuseppe (Interpretazioni sull’origine del canto di guerra).

c) Cinema

1.) Demartini Angelo (Differenze tra il Cinema italiano e quello tedesco).

Convegni di politica

a) Dottrina del Fascismo

1.) Frau Agostino (La posizione giuridica del Fascismo e delle Corporazioni nello Stato fascista); 2.) Garau Cesare (Il regime della produzione in regime corporativo fascista).

b) Politica estera e coloniale

1.) Businco Dott. Lino (La razza Mediterranea: origini, sviluppi, sua missione futura); 2.) Marcialis Efisio (L’Italia e la questione mediterranea); 3.) Serpi Francesco (Il Mediterraneo nel quadro della realtà europea).

Concorso di giornalismo

1° Businco Dott. Lino; 2° Marcialis Efisio; 3° Adamo Marco; 4° Pattarozzi Gaetano; 5° Leone Lorenzo.

Tutti svolsero tre temi, uno per lo Sport (Lo Sport e le Organizzazioni giovanili), uno di politica (Come si presenta nell’ora presente il problema dell’impero inglese e delle sue sorti), uno di cronaca (Il trasferimento del monumento ai Caduti da Piazza Martiri al Parco delle Rimembranze).

L’aridità delle cifre e la varietà dei temi, svolti in ciascun convegno, mostra quanto successo abbiano avuto i Prelittoriali. Anzi il numero riguardevole dei partecipanti proporzionato al numero degli inscritti al Guf ci permise di far partecipare un maggior numero di nostri rappresentanti ai Littoriali.

Littoriali. Dopo circa un mese dai Prelittoriali si radunavano a Venezia accolti dal cameratesco e cordiale saluto del Guf Veneziano circa mille giovani convenuti da ogni parte d’Italia a contendersi gli ambiti primati. Dal 22 al 29 del febbraio scorso fu una serie di vivaci contese svoltesi in un’atmosfera di caldo e sano entusiasmo. Tutti i convegni hanno dato luogo ad interessantissime discussioni dove accanto allo spirito agonistico e polemico dei giovani appariva anche la loro ottima preparazione e la vasta cultura.

Caratteristici i convegni di musica e di cinematografia, che hanno mostrato il cozzo di opposte tendenze e hanno fatto scaturire idee nuove e geniali. L’interpretazione assai originale sull’origine dei canti di guerra d’un nostro Camerata ebbe un grandissimo successo e la più viva approvazione dalla Commissione. Calmo e misurato il convegno di studi scientifici dove con acuta indagine i partecipanti misero in luce l’alto valore delle scienze italiane e il contributo dato dai nostri scienziati al progresso delle scienze.

Ma il convegno più polemico e che ha destato maggior interesse per l’attualità dell’argomento è stato quello di politica estera e coloniale, nel quale si è esaminato acutamente il problema mediterraneo e si sono date di esso le più disparate soluzioni. In questo convegno si è messa in luce la vasta preparazione politica dei giovani di Mussolini che con gli studi e i corsi di preparazione           politica si preparano a diventare i dirigenti del domani.

Il GUF di Cagliari otteneva quest’anno un secondo posto nel concorso di giornalismo per merito del Dott. Lino Businco e un quinto posto in Critica teatrale con l’universitario Italo Pitzalis, conquistando un totale di 15 punti. L’affermazione acquista un grandissimo valore se si confronta con la nostra classifica degli scorsi anni e si considera che per un minore numero di partecipanti eravamo in evidente stato d’inferiorità di fronte agli altri Guf.

L’organizzazione tecnica di questi III Littoriali è stata ottima ad opera specialmente del Guf di Venezia, che con gran cura svolgeva l’impegno assunto. Ad esso da queste colonne vada il nostro saluto e il compiacimento più vivo per l’opera così brillantemente svolta.

Quel che non va è il neo che ancora sussiste dopo tre anni di esperimenti che hanno mostrato gli scarsi frutti ch’essa può dare, intendo dire di quella regola che vuole sia assegnato ad ogni convegno un tema fisso da cui il giovane non può uscire seppure si presenti, nelle sue linee, di carattere generale.

Il più delle volte si tratta di temi che bisogna prima interpretare e a cui tutti danno le più disparate soluzioni. Così è avvenuto nel Convegno di critica artistica, il cui tema (Italianità ed Europeismo) ha dato luogo a lunghissime discussioni circa l’interpretazione, a tutto danno poi dello svolgimento. Altrove si è voluta dare al tema una interpretazione tutta propria per rendere compatibile lo svolgimento, si è cioè presentato il tema sotto un aspetto che non era il suo oppure avveniva il contrario, cioè veniva esattamente interpretato il tema ma erroneamente vi si faceva entrare un argomento che non aveva nulla a che vederci. Così è avvenuto nel Convegno dì Critica letteraria, dove la parola “oltremare” è stata in più modi e nei più disparati interpretata. Così il vincitore Airoldi di Pavia la interpretava con quella sete insaziabile di terre lontane, con quel sentimento proprio dell’uomo che esca e che lotta per scoprire, superbamente interpretato dalla mitica figura di Ulisse, e «Ulissismo» chiamava appunto Airoldi tale sentimento. E aveva ragione. Ma svolgeva il tema particolare: «l’Ulissismo in Gabriele D’Annunzio», e aveva torto. Il camerata ha voluto far entrare nel tema quello che non c’entrava, ha voluto vedere in D’Annunzio quello che non c’è.

Nello scrittore d’oltremare vi deve essere una perfetta corrispondenza tra l’uomo e il poeta, tra l’azione e la creazione artistica. Si è detto che uno che non ha mai amato può scrivere un grande romanzo d’amore e uno che non ha mai viaggiato può scrivere un grande racconto di viaggi, ma è anche vero che in essi l’autore vi porterà tutta la mestizia e l’ambascia di due ideali non raggiunti: l’amore e il viaggio. Così in D’Annunzio. Si può parlare di Ulissismo in un uomo, quando la passione che lo ha tormentato per tutta la vita sia stata la costante aspirazione a terre lontane, da raggiungere talvolta anche col sacrificio della propria vita. L’Ulissismo implica infatti l’eroico sacrificio: alla sua ardente passione sacrificava Ulisse la patria e la famiglia. In D’Annunzio ci sarà l’audacia dell’uomo che ha volato su Vienna, ci sarà l’ardire con cui da Ronchi ha marciato su Fiume, ma non v’è tutta la passione ardente del viaggio errante che ha l’eroica creatura sorta dalla fantasia di Dante. E se Ulissismo non v’è nella vita di D’Annunzio, non ve n’è pure nella sua opera letteraria. D’Annunzio non è scrittore dell’oltremare. A questo punto mi viene il dubbio che il camerata di Pavia si sia fatto un pochino illudere da un certo titolo che appare in una parte dell’opera poetica di D’Annunzio, intendo alludere alle «Canzoni d’oltremare». Ma quell’oltremare che Airoldi ha interpretato come Ulissismo, il quale ripeto è un sentimento soggettivo e personale, in Gabriele D’Annunzio è il desiderio che l’Italia sul mare ritrovi la via che fu già di Roma e del nostro glorioso passato marinaro.

Questo esempio mi pare che basti da solo a mostrare l’incompatibilità dei temi fissi. Essi portano al punto che tutti vogliono vedere in ogni dove ciò che il tema propone. Il convegno di Critica letteraria aveva come tema: «L’Oltremare nella Letteratura Italiana», ebbene allora anche Martini e Scarfoglio sono divenuti poeti e scrittori dell’oltremare. Tutti conoscono la produzione dei due, ma è veramente «oltremare» quello di cui parlano?

Dopo tre anni di prove e di esperimenti credo sia giunto il momento e la prova inconfutabile che è necessario dare libera scelta dei temi ai giovani. E’ umanamente impossibile rinchiudere le loro possibilità e la loro sensibilità entro le strettoie di schemi fissi.

Libero da ogni costrizione il giovane parlerà           fascisticamente e sinceramente, e la sua arte       sarà l’espressione genuina della sua passione che non può essere che fascista.

 

n. 9/1936

Grazie Deledda

Grazia Deledda è morta! Mai come ora ne sentiamo tutta la grandezza, avvertiamo il senso di quello che Ella era per noi. Con la mestizia nel cuore, ma con l’orgoglio di essere suoi conterranei, ci avviciniamo alla sua figura e alla sua vasta produzione letteraria. Troppo Ella ci è ancora vicina per dare decisivi giudizi della sua arte.

Una cosa di Lei si può dire, che l’arte dei suoi romanzi era un’arte pura, senza macchinose ingegnosità insincere, senza dannose interferenze, primitiva come la sua terra, perciò unica.

Grazia Deledda non seguì alcune delle maniere o scuole del tempo suo e neppure ne creò una nuova. Creatura fatta tutta di sensibilità e sincerità straordinaria, non poteva costringere il suo animo agli spasimi di una morente maniera romantica o alle vuote nullità del crudo verismo.

La sua era sopratutto una figura morale e morale sopratutto doveva essere la sua arte. Se altri diedero un respiro nuovo o apersero nuove vie al romanzo italiano, Grazia Deledda ha avuto il grande merito di restituirgli la funzione morale che dopo il Manzoni aveva perduto.

E’ stato detto che Grazia Deledda restrinse la sua osservazione ad un piccolo mondo: la sua terra. Ma di questo piccolo mondo Ella fece un gran mondo per altezza morale.

Grazia Deledda diede anche nella sua vita tormentosa un altro esempio magnifico della sua superba personalità: fiduciosa nei suoi mezzi, ma conscia delle difficoltà dell’impervio cammino da percorrere, durò a lungo nello studio silenzioso senza mai disperare, con la costanza formidabile che Le veniva dalla sua terra. Lungo fu il cammino non privo di ostacoli; la nuova arte di Lei trovò forse all’inizio più detrattori che giudici spassionati. Infine, giunta alla maturità, il trionfo, per Lei e per l’Italia: il premio Nobel, la gloria che varcava i confini, il riconoscimento pieno e incondizionato. Ma Grazia rimase la stessa. La semplicità della vita, fatta di abnegazione, tutta rivolta ad un miglioramento intenso ed operoso, non poteva permetterLe un cambiamento. Così nella vita come nell’arte. Lo stesso mutamento, da molti osservato, nei suoi romanzi, è solo apparente. Si tratta solamente d’un semplice cambiamento d’ambiente, ma i personaggi dei suoi ultimi romanzi, piangono, gioiscono, esultano allo stesso modo dei primi.

Da “Fior di Sardegna” a ”Annalena Bilsini” sempre uguale nell’intimo del suo animo, solo progressivamente affinato dallo studio continuo e dalla sensibilità vieppiù esperta.

 

n. 11-12/1937

Luigi Pirandello nella vita e nell’arte

Una breve comunicazione della radio ha diffuso giorni or sono la notizia della scomparsa di Luigi Pirandello; comunicazione concisa della breve malattia dell’estinto, delle sue ultime volontà. Con Lui scompare l’accademico d’Italia, il nostro più illustre scrittore vivente, premio Nobel 1932.

La sua vita è stata rievocata dai suoi primi studi alla laurea in lettere nella università di Bonn, dalla breve parentesi commerciale al soggiorno romano, ai primi scritti, i primi successi nel campo letterario nella novella, nel romanzo, nel teatro. La figura pensosa dello scrittore siciliano è ritornata sui giornali e riviste che già avevano altre volte di Lui parlato decretandone il successo e la fama imperitura.

Luigi Pirandello è nel numero dei trapassati, molti per noi quest’anno nel campo del teatro.

Ma ora che l’ombra del grande scrittore siciliano coglie il senso di quel mistero che quasi l’ossessionò per tutta la vita, ci avviciniamo a esaminare la sua attività che fu molteplice e varia, e nella novella e nel dramma, e nel romanzo e il cinema.

La sua vita e la sua arte mostrano questa sua costante aspirazione di cogliere qualcosa di indistinto che è fuori di noi, svelare il mistero che è al di là della nostra realtà. In questo sforzo di superamento del proprio io è il contenuto filosofico dell’opera pirandelliana.

La sua ricerca assidua e continua mai in Lui assumeva l’aspetto del “folle volo” ulissico, ma sempre si risolveva in una ottimistica visione del mondo, ora scettica ora credula. Era questa la soluzione unica che a Lui il problema presentava: non scacciare nessuna delle posizioni talvolta opposte.

Ma in quanto opposte, insostenibili l’una con l’altra, e non risolvibili in una, portano Lui allo scetticismo. Scetticismo positivo che non frena la conoscenza anzi la apre e la distende, mi si perdoni l’espressione, uno scetticismo credulo. E da questo scetticismo che non infrena l’attività dello spirito ma quasi la incoraggia, ecco nascere questa sua bonaria visione del mondo, questo suo ottimismo infondato, questa sua morale provvisoria; tutte cose che per le loro qualità farebbero pensare a un Pirandello pessimista. Ma la sua fiducia nella vita, l’animo suo che s’apriva a tutte le manifestazioni di essa, la sua attività febbrile non possono farci pensare a questo aspetto negativo del suo spirito.

Ho detto che la ricerca non assunse mai l’aspetto del folle volo ma sempre fu pacata e serena. Una preoccupazione sua, che i lettori di tutto il mondo non avvertirono mentre Egli ancora produceva, fu quella che Pirandello ebbe di rimanere nei limiti della più rigorosa ortodossia. Ciò infatti Egli affermava in un settimanale letterario romano, pochi giorni prima della morte. E’ questo un particolare che non può sfuggire nella valutazione d’un uomo che nella sua produzione artistica trattò così importanti problemi dello spirito. E di tutto questo contenuto filosofico sono permeate le sue opere, dalle “Novelle per un anno” ai suoi romanzi e ai suoi drammi.

E quanto fosse suo intimo contenuto spirituale questa filosofia dimostra il fatto che le stesse idee lo accompagnano nella sua prima fase di scrittore di novelle e romanzi e in quella più matura di scrittore teatrale. Anzi proprio nel teatro il suo pensiero filosofico diede luogo ad una vera e propria corrente nuova che da Lui prese nome: il Pirandellismo.

Non che il suo teatro sia un teatro di pensiero, ché anzi esso è assai lontano da certo teatro del secolo scorso, ma Egli portava sulla scena una tesi da abbattere od innalzare, un problema che interessava lo spirito suo e dell’umanità. E in questo senso Pirandello interessò il grande pubblico.

E quale fosse in quest’affanno di ricerca d’un teatro nazionale la sua opinione mostrano le sue parole: «Parlare di morte del teatro in un tempo come il nostro così pieno di contrasti e dunque così ricco di materia drammatica, tra tanto fermento di passioni e succedersi di casi che sommuovono l’intera vita dei popoli, irta d’eventi e instabilità di situazioni e il bisogno sempre più da tutti avvertito d’affermare alla fine qualche certezza nuova in mezzo a un così angoscioso ondeggiare di dubbi, è veramente un non senso».

La morte lo ha colto all’apice dell’arte sua in continuo progresso, nel pieno fermento della sua attività. La quale non era soltanto creativa nel senso artistico, ma anche fattiva nel senso comune. E Pirandello girava l’Italia ora invitato ad una celebrazione, ora chiamato per la messinscena d’una sua nuova commedia. In tal modo Egli esprimeva questo suo ardente contenuto intimo, questa sua quasi febbrile voglia di vivere.

Anche l’entusiasmo e l’interesse con cui s’avvicinava alle altre manifestazioni artistiche mostrano questo lato simpatico della sua personalità. E il cinematografo lo ebbe così tra i suoi più fedeli seguaci e difensori più valorosi. Egli acconsentì alla riduzione cinematografica di molte sue opere e scrisse anche unicamente per il cinema.

Ora che questa personalità così varia e multiforme s’è spenta, ci rimane dinanzi la sua opera altrettanto varia e diversa. Edificio immenso che Egli andò costruendo in più d’un quarantennio d’attività letteraria, ancora incompiuto, mancante com’Egli diceva dell’opera conclusiva. Tale doveva essere forse “I giganti della montagna”. Essa è rimasta incompiuta.

Ogni valutazione severa e rigorosa di Lui rimane difficile, ma quel che è certa, sicura e non si smentisce è la sua figura d’artista così vitale e possente.

 

n. 13/1937

Il cinema e i giovani – Per la nostra cinematografia

Quando due anni or sono si celebrò il quarantennio del cinema non si volle solo rendere omaggio al suo illustre scopritore, ma si volle veder ciò che il cinema in questa sua prima giovinezza aveva fatto. E lo sguardo tratto per un momento all’indietro fu appagato da una vista veramente lieta. Il cinematografo si era impadronito delle masse, era divenuto un potente mezzo di divulgazione scientifica e culturale, e si era imposto agli occhi del mondo come un’attività schiettamente artistica. A valorizzare questi multiformi aspetti del cinema si ispirarono le celebrazioni romane di quell’anno.

Certo le condizioni del nostro cinema non erano troppo liete. Nel dopoguerra per tutto il decennio 1918-1928, esso giacque in uno stato di completo asservimento al cinema straniero. Un autorevole critico, Ettore Margadonna, su questo periodico dice: «La lunga pausa aveva disperso i pochissimi buoni elementi e non aveva permesso che fresche energie corressero a rinnovare i vecchi quadri. Dedicarsi al cinema, negli anni che vanno dal 1920 al 1928, sarebbe stato un gesto folle perché significava prepararsi ad un’attività inesistente. Per i giovanissimi, poi, cinema e Hollywood erano addirittura sinonimi».

A questo stato di cose non poteva rimanere indifferente il Regime, che ha riunito sotto le dipendenze dello Stato, quest’attività artistica importantissima. La creazione della Direzione generale della cinematografia prima, del centro sperimentale e della città cinematografica poi, sono le tappe più significative dell’ascesa del nostro cinema.

E’ sintomatico come ogni qual volta si voglia uscire da una crisi che attenagli, il contributo maggiore per la vittoria sia dato dai giovani. E il nuovo cinema italiano, ordinate le parti tecniche e commerciali, aveva ed ha bisogno sopratutto d’idee. Tali idee non possono venire che dai giovani.

Come il cinematografo abbia bisogno per affermarsi di idee genuine, sincere e fanciulle, è dimostrato dal fatto che esso ha dato le cose più belle proprio presso quel popolo che è il più giovane della terra: il popolo americano. E il cinema italiano, almeno sotto questo punto di vista (mi associo alle parole di Vittorio Mussolini), deve avvicinarsi alla produzione americana.

Se dunque è stato notato quanto grande ed importante possa essere l’apporto che i giovani potranno dare alla rinascita del nostro cinema, viene a balzare chiaro e netto il valore che i Littoriali della Cultura e dell’Arte hanno su questo campo. I Littoriali selezionano tra la nostra gioventù studiosa gli elementi più idonei alla critica, alla regia, al soggetto cinematografico. Tra le cose più belle delle mostre artistiche dei Littoriali dell’anno XIV a Venezia furono certo i film presentati dagli universitari. Attraverso le imperfezioni tecniche, compatibili in chi lavora senza alcuna scuola ma con i soli propri mezzi, non era difficile scorgere la facile vena, il senso artistico e schiettamente cinematografico di questi mirabili ridottisti.

Anche quest’anno il cinema è stato compreso nel programma dei Littoriali con ben tre differenti gare: un convegno di critica cinematografica, un concorso per un film a passo ridotto, un concorso per un soggetto. I temi proposti per i convegni ed i concorsi sono ispirati al valore insieme artistico e politico della manifestazione. Siamo sicuri del successo di questa, dei frutti che essa darà; i giovani sono così fortemente preparati che d’ogni problema essi fanno una battaglia, una fucina nella quale lo spirito si accende e si forgia. Al cinema essi apporteranno il fuoco di tutto il loro entusiasmo, tutta la passione del loro animo giovanile nel nome di un’arte fascista. Suona infatti come un comandamento del Duce la premessa ai Littoriali stessi: «I Littoriali della Cultura e dell’Arte mettono in luce l’ardore e la fede che la gioventù porta ai problemi culturali ed artistici del tempo attuale e la sua decisa volontà di creare una cultura e un’arte che non siano più estranee ed agnostiche di fronte alla Rivoluzione, che traggano anzi dal clima suscitato dalla Rivoluzione le ragioni profonde del loro sviluppo, l’essenza vera dei loro orientamenti. Per il Fascismo il pensiero senza fede è come il seme senza alimento; non potrà germogliare, non potrà dare frutti».

 

n. 16/1937

Visita a Cinecittà

Quel tram che veloce ti porta dai pressi della stazione di Termini oltre il quartiere del Quadraro, a nove chilometri dall’Urbe, sino a Cinecittà nella via che percorre ha tutta l’aria di iniziarti ai misteri del cinema col farti ammirare a destra e a sinistra un paesaggio che si snoda cinematograficamente vario ai tuoi occhi.

Ora sono le severe rovine di un acquedotto romano d’un rosso caldo, come la terra dei campi, che spiccano austere lungo la via Appia, ora son donne affacciate ai balconi e alle ultime rustiche trattorie della città, che si è venuta via via diradando verso l’aperta campagna, ora sono chiassose schiere di bimbi che armati di strumenti d’occasione fanno il concerto lungo la via, a creare nella mente tutto un film di colore, d’ambiente rustico e di sana vita campagnola, all’ombra della storia.

Intanto ho dato uno sguardo ai miei compagni. E se prima di iniziare il breve viaggio mi cullavo nella speranza di conoscere qualche astro o stella famosa, devo ora convincermi della vanità delle mie supposizioni.

Mi siedono accanto i nomi più oscuri del cinema: le comparse, i tecnici e gli elettricisti, tutti quelli che non vedranno sicuramente il loro nome sulla didascalia del film. Le stelle e gli astri filano su una moderna via lattea, un nero nastro d’asfalto, che corre accanto alla strada ferrata, su macchine nuove di zecca.

La corsa è finita. Si discende e si raggiunge frettolosi le porte che s’aprono grandi sullo stradale, e sembrano quasi invitarti. Ma è il pensiero d’un momento. La prima sensazione che mi ha colpito all’ingresso e che mi ha accompagnato per tutta la visita è questa: che il cinema ad onta di quel che si dice è una cosa seria. Non ero infatti il semplice curioso, che scruta tra le fessure di due tavole sconnesse quando non gli è permesso di andare più oltre, ma andavo con le regolare permesso con scopi giornalistici, ben precisi, eppure non sono passato lo stesso. Ho dovuto aspettare che qualcuno, gentilmente offertosi, venisse a prelevarmi. Perché, in Cinecittà, non si circola soli.

Si nota subito la rigida simmetria dei fabbricati, l’ordine sapiente delle costruzioni per evitare qualsiasi noiosa interferenza e impedimento alla libera espletazione del quotidiano lavoro. Così tutto procede con precisione matematica: ogni teatro ha i suoi servizi separati che funzionano al momento giusto ed in maniera impeccabile, e i suoi vasti magazzini forniti di particolari comunissimi a molte scene, tutto materiale che non va disfatto, come avviene per altro, ma conservato e tenuto pronto tanto e talmente frequente è il suo uso.

Queste immense scatole tutte chiuse ermeticamente chiuse che sono i teatri di posa e che sembrano tante strane abitazioni usate in età remote da uomini strani che non avevano bisogno dell’aria, si presentano tutte uguali, col loro colore fortemente arrossato che spicca sul verde pianoro.

I muri sono robusti come i bastioni d’un fortino e le più ingegnose trovate tecniche sono usate contro i rumori estranei. Ne nasce un piccolo mondo tutto chiuso, sopra il quale passano senza minimamente essere avvertiti le veloci squadriglie di pesanti e fragorosi Caproni d’un campo vicino.

L’occhio curioso intanto sì spinge dentro e posso, non senza l’evidente malcontento di qualcuno disturbato nella sua laboriosa fatica, scrutare avidamente.

Qui si mette su una scena, qui si demolisce celermente, là si gira e qua si fanno i preparativi ultimi prima del colpo di manovella. Ma non un teatro che sia fermo o inoperoso. Eppure oggi è giorno di festa.

Ma apprendo da chi mi guida che a Cinecittà non esistono giorni di riposo, non vi sono soste. E tutto ciò, mi vien detto, è fatto anche per un fine schiettamente umanitario. Gran parte delle maestranze lavorano a giornate, e così pure le comparse; che cosa sarebbe per loro, se oltre le necessarie soste tra una produzione ed un’altra, ci fossero anche altri giorni in cui non si lavorasse!

Procedo nella mia visita con la sempre più sicura certezza dell’alto grado tecnico da noi raggiunto.

L’immensa tolda di una nave, l’arioso ambiente d’una meravigliosa sala napoleonica, un carcere buio che sembra ricavato dalla roccia viva, i camerini d’un teatro perfettamente ricostruiti, ecco pronti a ricevere i protagonisti che daranno vita ad un film. E penso, a questo punto, alle oscure fatiche, ai sacrifici, alla certosina pazienza, che il cinema esige e che il pubblico non avverte o dimentica troppo presto, tutto preso dal solo e semplice godimento dello spettacolo. Quel bastimento, costruito così minuziosamente, e che occupa tutto il più grande teatro, apparirà forse su pochi metri di pellicola, e saranno certamente pochi a pensare che quel minuto di immagini fuggenti costa biglietti da mille, fatica di menti e lavoro di braccia sudanti.

Nella piscina poi, si specchia una galera, ma è una galera a metà, quanto l’obbiettivo dovrà ritrarne; e accanto dondolano sospinte leggermente dalla tenue brezza due autentiche gondole, fatte trasportare da Venezia.

Chiedo i nomi dei film che si girano. Chi mi guida mi risponde con una serie di numeri. Credo per un momento che scherzi ma poi mi spiega. «L’amministrazione di Cinecittà – egli mi dice – assegna un numero a ciascuna produzione, e con quel numero questa passa nelle pratiche e poi negli archivi. Non è possibile infatti chiamarle col loro nome quando questo non è mai fisso e varia secondo il capriccio del produttore o del regista, dello sceneggiatore o del soggettista. Se dovessimo seguire questi così variabili umori le nostre pratiche andrebbero all’aria più volte a scapito dell’ordine e della precisione».

Intraprendo a visitare ora una serie di reparti interessantissimi: la grande centrale elettrica in via di ampliamento, le sale di proiezione, veri gioielli del genere, i guardaroba, forniti di abiti e di divise, di berretti e cappelli, di tutte le età e di tutte le epoche e dove continuamente si rammenda, si stira e si cuce e poi l’armeria dove si allineano stocchi e sciabole, archibugi e fucili, pugnali e alabarde. Infine ecco un reparto il più curioso, e il più bizzarro: quello dei trucchi, un piccolo mondo in miniatura. Da una parte il campanile di piazza San Marco che supero facilmente con la testa, là una vera e propria città, con le sue strade, le sue torri e le sue vie, infine una serie di piccoli teatrini affollatissimi in tutti gli ordini di posti da signori in marsina, piccoli burattini quasi veri e un gran numero di piccole navi, barche e piroscafi d’ogni tipo e di aeroplani d’ogni genere che farebbero la gioia d’un bimbo.

Una piccola visita al bar-ristorante e mi accingo al ritorno.

Esco che già si è fatto tardi. Le ore sono trascorse senza avvedermene tale è l’interesse che desta quel vibrante cantiere che a mala pena è bastato quel tempo a danni un quadro approssimato di quello che vi si opera e vi si crea.

I tram sono più rari. Il prossimo passa tra un’ora. Sono costretto a percorrere due chilometri a piedi sino al Quadraro per prendere quello che fa capolinea in quella località.

La stessa sorte ha colpito un altro strano visitatore di Cinecittà.

La via deserta e una pioggerellina fresca e leggera ci fa accelerare il passo. Si fa il cammino assieme, e si scambia qualche parola. Cinema, si capisce. E’ uno scultore ancora giovane, abilissimo in quelle costruzioni posticcie che servono a completare una scena, che ha prestato molti anni or sono la sua opera alla vecchia Cines, quella gloriosa dei primi pionieri della cinematografia mondiale.

La passione l’ha ripreso ed è andato laggiù a chiedere, in nome delle sue passate benemerenze, qualcosa da fare per vivere quella vita alacre che un tempo gli piacque. «Oh, non creda, mi diceva, che siano preoccupazioni finanziarie a spingermi a questo ritorno. Affatto!». E io ne fui certo come se in quel momento avesse parlato l’amico più caro, di cui avessi da anni sperimentato la sicura fede.

Era anche lui una vittima del cinema, di quelle che la nuova arte fa dalla prima età, e non lascia per tutta la vita. Sino alla morte.

 

n. 16/1937

Scherzi e fughe musicali

Nel nostro numero del maggio-luglio XV, a proposito del manifesto sistema di nepotismo adottato dal M. Casella nella scelta dei giovani compositori in occasione del V. FastivaI di Venezia da lui organizzato, ci domandavamo se il senso della giustizia era stato definitivamente smarrito.

Oggi, dopo i fatti che stiamo per narrare, accaduti in seguito a una relazione letta dal M. Porrino al III. Congresso Nazionale dei Musicisti a Cagliari, questa domanda ritorna più insistente ed allarmante.

La relazione del Porrino affrontava in modo deciso e totalitario i due problemi vitali della musica popolare e della musica dotta.

Per il primo notava come troppo spesso le raccolte di canti popolari non fossero fedeli né compilate con serietà, e come molti musicisti e musicologi avessero creduto di poter considerare l’arte ispirata al patrimonio etnofonico come una forma facile, ed inferiore, senza riflettere che essa, quando è autentica, non è sola evocazione di ambiente, ma anche rappresentazione musicale dello spirito del popolo, e quindi valorizzazione e difesa del più sano e puro patrimonio della razza.

Per il secondo, che è anche il problema più di attualità, perché ad esso sono legate le sorti della nostra presente e futura arte musicale, il relatore, constatato il profondo abisso oggi esistente tra il popolo e le manifestazioni di musica concertistica e teatrale contemporanea, denunciava il prepotere di una certa tendenza musicale, a tutto detrimento di altre ugualmente o più significative. Sopraffazione dovuta, a criteri estetici seguiti in taluni settori organizzativi, per i quali criteri viene imposta, in Italia e all’Estero, certa musica notoriamente impopolare e ripudiata dal pubblico, il quale, per naturale reazione, diserta le sale da concerto e i teatri, mentre altre musiche ed altre opere, che il pubblico ha già dimostrato di apprezzare e di amare, vengono boicottate, anche per evitare pericolosi confronti.

Il peggio di tutto ciò è il fatto che questa tendenza artistica è prodotto d’importazione: arte internazionalizzante, cerebrale, priva di contenuto emotivo, lontana da ogni sentimento nostro, e perciò la meno atta a rappresentare l’arte fascista in patria e all’Estero.

Contro questi soprusi nel campo pratico e contro questo indirizzo nel campo estetico, si sono già levate numerose voci; e il Porrino le citava per avvalorare maggiormente il suo dire.

Esposto così, con rara profondità, chiarezza e competenza, il problema, e avendolo largamente documentato, il relatore invocava l’intervento riequilibratore del Sindacato al fine di una più alta giustizia distributiva.

Tutto ciò o non è stato compreso o non lo si è voluto comprendere, in pieno contrasto con gli insistenti e calorosissimi applausi con i quali i partecipanti al Congresso hanno accolto la lettura della relazione.

Si è voluto parlare d’impossibilità da parte del Sindacato di entrare in merito alla questione; d’inopportunità di trattare certi argomenti in sede di Congresso; di falsa interpretazione, da parte del Porrino, della frase del Duce «Andare verso il popolo» nel senso che Mussolini, avendo detto ciò in sede politica, non avrebbe inteso estenderne il significato all’Arte.

Per quanto riguarda il Sindacato, diremo che noi giovani non possiamo concepire un organo così delicato del Fascismo, che resti insensibile alle lotte, e se ne ritiri, riservandosi poi il diritto di punire il relatore che ha detto cose non troppo gradite!

Il secondo punto lo ribatteremo direttamente con parole del Duce: «Il teatro deve essere dedicato al popolo, come l’opera teatrale deve avere il largo respiro che il popolo le chiede. Essa deve agitare le grandi passioni collettive, essere ispirata a un senso di viva e profonda umanità, portare sulla scena ciò che veramente conta nella vita dello spirito e nelle vicende degli uomini».

A rendere la situazione ancora più ingarbugliata, il M. Casella, con l’evidente scopo di intorbidir le acque e a corto di argomenti, tentò volgere la cosa a fatto personale, investendo il Porrino, e tenendo un contegno assolutamente inopportuno e da tutti deprecato.

L’indomani poi, lo stesso M. Casella prese una… precipitosa fuga, rifiutandosi di mantenere l’impegno preso di dirigere i suoi cori nel concerto di gala delle celebrazioni sarde (solo perché allo stesso concerto doveva, in qualità di autore e direttore, partecipare il Porrino), mancando così di riguardo verso il Comitato organizzatore, verso le Autorità locali, verso la Città che lo ospitava e soprattutto verso il Duca di Bergamo, che, in qualità di rappresentante del Re Imperatore, intervenne alla manifestazione.

Questi fatti indignarono le Autorità di Cagliari e la popolazione, tanto più che il Sindacato credette bene togliere per… “equità” da quello stesso concerto (organizzato dalla Confederazione Professionisti e Artisti) le musiche corali sarde composte dal Porrino espressamente per la circostanza delle celebrazioni, sostituendole con musica… straniera!

Ciò supera qualsiasi limite di sopportazione, e ci sorprende e ci addolora.

Il Porrino è un nostro camerata ed un conterraneo, e noi ci rammarichiamo perciò che contro di lui, giovane artista, amato ed onorato in Italia e all’Estero, siano stati perpetrati meschini atti di rappresaglia proprio a Cagliari, sua città natale che si onora del suo nome.

Finiamo quindi anche questo articolo con la stessa domanda con la quale concludevamo quello riguardante il V. Festival Musicale di Venezia: ma il senso della giustizia è stato proprio smarrito definitivamente?

[I riferimenti ultimi sono ad un articolo d’agenda – “Bussola del teatro” il titolo – uscito anonimo, ma evidentemente da attribuire a Romagnino, sul n. 15 del maggio-giugno 1937. La nota, articolata in quindici punti, oltre a un notiziario generale e nazionale dà conto, al capo 13, del festival veneziano: «A proposito di un “Criterio di rotazione” adottato al V Festival Musicale di Venezia, il Messaggero del giorno 11 agosto in uno spunto polemico, mette in evidenza il manifesto sistema di nepotismo operato dal Maestro Casella nella scelta dei giovani compositori. Per bocca del Maestro Rossellini giovani valenti compositori italiani protestano contro l’assurdo procedimento di esclusivismo che ha cercato di trovare un alibi attraverso una nota di ispirazione ufficiale, la quale dice: “La esclusione di alcuni autori che avevano partecipato al precedente festival è dovuta all’osservanza di quel criterio di rotazione che è stato proclamato nelle manifestazioni di Vienna e di Berlino”. Ma di quale rotazione si parla, quando nell’attuale festival tornano a ripetersi i nomi di giovani compositori italiani che nelle edizioni precedenti più e più volte avevano avuto l’onore dell’inclusione? Ma il senso della giustizia è stato proprio smarrito definitivamente?»].

 

23/1940

Editoriale

Mussolini e l’Europa. Potrebbe essere il tema d’un dramma di masse, se l’Uomo avesse di contro avversari dai decisi rilievi morali, se ci fosse giusta distribuzione di forze tra Lui e gli altri, se un confronto, anche minimo, si ponesse. Ma tra il Suo mondo e il loro mondo, tra il nostro mondo e il loro mondo la distanza ideale che si frappone è più vasta e più incolmabile del vallo materiale che separa i nidi di mitragliatrici, le fortezze di cemento, le torri blindate. È allora il tema del monologo d’un Uomo incalcolabilmente incompreso da una platea sonnolenta. La parola ha accenti d’ira, ma l’ira è santa e l’odio è amore, e all’Europa che si frantuma, oggi, più forte che quando lanciò il grido della razza bianca in pericolo, Mussolini pone l’imperativo categorico di mutarsi o perire. E gli Europei nelle rovine del tempio crollato potranno trovare l’erba che risana solo che vorranno e sapranno ascoltare. La voce s’è levata chiara e precisa e, come il sangue che dà la vita, viene da quello che fu nei secoli il largo polmone con cui le terre d’Europa respirarono le pure aure di una vita possente. Esso è sano e forte e gli evi di una lunga storia non l’hanno intaccato ma gli hanno offerto tutto l’alimento continuo per i suoi tenaci tessuti. Sta agli Europei non mutare per una fine immancabilmente tragica le leggi rigide della circolazione dei succhi vitali. Vogliamo dire le inderogabili leggi della vita dei popoli. Si morirebbe per soffocamento.

n. 23/1940

Quattordici ragazze da Berlino

Iglesias, marzo

Mezzogiorno. E un venticello fresco appena accennato diffonde per l’aria olezzi di fritti, con profumi di niente. La città ha l’aspetto di sempre, come a quell’ora, tutti i giorni.

Qualcosa di nuovo ci sospinge ad affrettare il passo. Non abbiamo mangiato. Non andiamo a mangiare.

I ragazzi hanno sciamato allegri fuori dalla aule, allegri, come sempre, quando ad essi viene offerta l’occasione di diminuire anche d’un attimo il lungo esasperante orario di scuola. Le ragazze hanno messo il più bel sorriso.

A nessuno era sfuggito che l’ora fosse insolita per un concerto. E coloro ai quali non dicevano proprio nulla le risate di quei ragazzi che riempivano tutto il teatro, a dieci o a venti laddove potevano essere al massimo in cinque, erano veramente, veramente seccati.

E noi, trovato il nostro umilissimo posto nella turbinante platea giovanile, a cui non erano certo d’ostacolo o mettevano soggezione nella ginnastica polmonare i trenta o quaranta seri invitati, non potemmo che rifarci a loro per trascorrere il tempo d’attesa, poiché, come sempre, non ci interessò la bianca e spolia nudità dell’ambiente, né il freddo frondoso albero dello sbiadito scenario, di fronte.

Breve tempo d’attesa, per il concerto dell’Orchestra Femminile da Camera di Berlino.

Si aveva fame e qualcuno sbadigliò. Ma una allegra brigata di saltellanti note gli entrarono diritte in gola e lo strozzarono due abili archetti lo colpirono giusto, giusto sulla fronte e la nuca.

Stralunò gli occhi e stramazzò al suolo. Preciso lo accompagnò il piede robusto del vicino.

Meritava anche questo.

Di loro forse non ricorderò più che i dolci nomi; non tutti, qualcuno: Gertrude, Ilse, Gretl, Rosemarie, Grunhildi. Null’altro che le chiome ora bionde ora negre, quest’ultime forse più che quelle come una novità della razza, e i corpi sottili e le braccia, bianche e nervose.

Rigide le braccia degli spettatori, scosse nella commozione le braccia delle esecutrici. Solenne, un cantico tedesco. E le note ecco scendere, entrare dentro, dentro a parlare, con parole non dette ma indovinate, suonate come se cantate, di un canto largo, profondo. «Deuschland uber alles…».

E poi a riportarle dalla loro terra, dai loro fratelli, dai loro padri, che erano andate a trovare, strapparle e trascinarle via giù, giù da noi, ecco l’applauso lungo, schioppettante, rumoroso. Inutile, superfluo quando rompe un incanto.

Io non so nulla di musica E prendo volentieri e con disinvoltura quello di Bach per quello che è di Beethoven. Ma il giorno ho provato la gioia più grande che la musica mi abbia mai offerta ed era gioia leggera, quella più bella fatta della stessa materia d’oro fino di cui era intessuta la musica.

E l’albero è scomparso, è divenuto un bosco, una selva incantata e m’è piaciuto.

Gertrude Ilse Tilsen muoveva ritmicamente la nera cappelliera a dirigere e si portava via con sé per offrirceli i caldi accenti di Mozart, e i sensi lieti di Grieg dell’Ultima Primavera.

Noi abbiamo visto tutto luce, anche forse laddove era il dolore mormorato sommessamente. Miracolo dell’arte e di un incontro felice.

Piangevano e ridevano le candide quattordici fanciulle, di nostalgie di primavere non mai vedute e le nere loro vesti erano bianche come veli di sposa, per noi.

E poi gioia ultima, vecchio amore, Strauss, e a distesa come campane l’aria antica della danza, sempre bella.

Suonavano e danzavano con leggeri invisibili cavalieri, venuti i lontano.

Tutti comprendevano, tutti intendevano. Le signore non dondolavano la testa a seguire i violini e le viole, i violoncelli e il cembalo, e i seri signori non battevano piano il pavimento col piede.

Solo una. Era sorda.

Fuori, un bigio sole. Lontano, molto lontano.

 

n. 24/1940

Editoriale

Del “mare nostrum”, il grande Richelieu diceva: «Il Mediterraneo è un retaggio nel quale tutti i sovrani vantano grandi diritti, e nello stesso tempo è quel retaggio sul quale i diritti di ciascuno sono meno chiari. L’antico titolo alla sua dominazione è la forza, non il diritto: per poter affacciare pretese su quel mare, bisogna essere potenti». Messa da parte la possibilità che un mare possa essere retaggio d’un sovrano, fatto concepibile solamente nel secolo di Luigi XIV e scartata la veridicità dell’affermazione che i diritti di ciascuno su di esso siano meno chiari, il giudizio del ministro francese non manca d’attualità. E la realtà del Mediterraneo 1940 è un’Italia che vi si affaccia minacciosa con le diecine di prue d’acciaio della sua flotta. E la forza non è il suo solo titolo a dominarlo. Se il mare è la libera via dalla quale un popolo riceve i materiali mezzi per la sua esistenza e il diritto alla vita è quello più forte che giustifica ogni conquista, l’Italia ha questo diritto. Da Gibilterra a Suez, nel settore occidentale e in quello orientale in tre mesi di guerra la marina dell’Italia fascista ha risposto col tonante saluto dei suoi cannoni a coloro che questo diritto ci negano.

 

n. 24/1940

Islam contro Inghilterra

Questa guerra, come quella del 1914-18, ha finora decisamente occupato il pubblico mondiale per la lotta d’interessi europei che l’ha generata, tenendolo distratto da i non minori e importanti contrasti che hanno fomentato i primi e che hanno il campo materiale della loro vita in settori abbastanza lontani dai tradizionali confini europei, seppure sempre gravitanti nel sistema geopolitico europeo. La semplice reale esistenza di questi contrasti d’interessi extraeuropei, più o meno imparentati con i conflitti europei, sono sufficienti per sé soli a dare una diversa fisionomia alla lotta che si combatte nei cieli e sui mari d’Europa e non ci dovrebbe più tenere esitanti sulla concessione del titolo di “mondiale” a quella che è solo apparentemente la guerra di definizione di nuovi confini terrestri o marittimi in Europa. Visti così i colpi di spugna che eliminano Polonia, Norvegia, Danimarca e Belgio e Olanda, accorciano la Francia, ritagliano la Finlandia, incorporano in più vaste unità statali le minoranze baltiche, e gli ultimatum e i lodi arbitrali che compongono controversie equivalenti ad altrettanti focolai sempre accesi di nuovi conflitti, acquistano un valore nuovo e s’inquadrano nel complesso di casi diversi con cui il mondo fa il suo volto nuovo, immolando le sue più pure giovinezze. E oseremo dire che i morti dei due campi nel punto del trapasso raggiungono quell’accordo che la vita loro non concesse. In questa identità di motivi che spingono alla lotta, il mondo sembra trovare quella concordia di spiriti che le apparenze del dissidio nascondono, ma che è invece più viva che mai anche là dove l’opposizione ai nuovi principii è più fiera, segno dello spirito sempre presente anche nel cozzo di forze materiali, elemento formidabile e indispensabile nel domani successivo alla guerra per quella ricostruzione che porterà alla pace tra i popoli.

Questo preambolo può sembrare un po’ lungo per quello che ci siamo proposti di trattare. Ma non lo è che apparentemente. Perché se, come di sopra abbiamo detto, nel futuro domani la nuova Europa dovrà tenere presenti elementi nuovi sorti dal calore della lotta, il mondo, che tanto deve alla civiltà d’Europa, per avere anch’esso e meritatamente la qualifica di nuovo non potrà non seguire l’esempio della sua secolare maestra. Dovrà insomma, perché non volga più decisamente che ora la prua verso i fatali lidi del caos, tenere saldamente vive tutte quelle giovani forze che solo possono assicurare la sua esistenza. Di questa è l’Islam. Il destino d’un popolo può subire delle soste ma finisce col fatalmente sfociare in quelle che sono le mete dai disegni imperscrutabili della Provvidenza segnate.

Se un giorno sembrò straordinario che un popolo di beduini andasse alla conquista d’un mondo dalla plurisecolare civiltà, oggi non meno sorprende che quel dinamismo onde sfolgorò la conquista araba si sia rallentato sino ad assumere il ritmo sonnolento delle carovane del deserto.

Lo straccione delle arroventate pietraie di Arabia intuisce la grandezza passata e l’arabo di media cultura sa che nel 94 Egira (713  d.Cr.) quando era sul trono degli Ommayadi il sesto Califfo di quella dinastia al-Walid I l’impero arabo-mussulmano raggiungeva la sua massima estensione abbracciando I’Africa settentrionale e la Spagna  e spingendosi dall’Indo e dall’attuale Turkestan russo (l’araba Transoxiana) e dal Caspio fino alle Cateratte della Nubia ed all’Atlantico. Chi tra gli arabi conserva l’orgoglio della razza non ignora che i più civili popoli della terra, seppure in fase di decadenza, furono soggetti alle armi mussulmane e che Saraceni furono sino al 1246 in Sicilia, alla fine del X secolo in Calabria e fino all’871 in Puglia.

Ma la vita d’un popolo non può essere fatta di sole memorie e si errerebbe a concepire il popolo arabo adagiarsi a custodire seppure gelosamente e a covare una gloria, che sebbene di vaste proporzioni è d’un tempo lontano, e che non emulata porterebbe alla conclusione che le genti arabe abbiano decisamente volto la loro vita verso il più completo oscurantismo e che la parabola tenda più che mai a discendere.

Eppure un così forte elemento, insediato così saldamente in due continenti in vie, che sono state i tradizionali condotti in cui fluirono e rifluirono le più antiche civiltà del mondo, e che hanno visto le loro gesta vittoriose, non può far decidere alcuno a ritenere scomparsa ogni energia atta a rialzare il tono di vita a quel livello che esso merita e al quale può aspirare. Elemento compatto e non frazionato, non soltanto nei vincoli spirituali che lo tengono saldamento unito, ma anche nella sua distribuzione geografica. L’intera fascia dell’Africa settentrionale a nord del 10° parallelo, se si fanno l’esclusioni ben piccole in confronto della vastità del territorio rimanente dei cristiani d’Etiopia e dei copti d’Egitto e degli animisti dell’Alto Volta francese, è completamente mussulmano. E tale compattezza non si rompe nel continente perché continua prolungandosi nell’Asia e contenendo sotto il segno verde del Profeta l’Asia minore, la Siria, la Palestina, la Transgiordania, l’Arabia, la Mesopotamia, la Persia, l’Afghanistan, il Turkestan russo e il cinese, il Belucistan e le indie neerlandesi. A questi gruppi compatti e uniti senza soluzione di continuità si aggiungano le minoranze mussulmane situate a sud di quel 10° parallelo che abbiamo indicato come il limite in Africa dell’assoluto predominio islamico e precisamente in quasi tutte le colonie francesi e inglesi, nel Sudan anglo-egiziano, nella Somalia, nel Kenia e nel Tanganica (regioni costiere) e i non meno forti gruppi mussulmani asiatici della Ciscaucasia e Transcaucasia, e del N. Q. e del medio bacino del Gange e del Deccan nell’India Inglese, del Si-Kang, Kan-su e­`Yùn-nan cinesi, e infine della Malesia britannica, e si avrà chiara quale insopprimibile realtà rappresenti nel mondo questa massa di 242 milioni di uomini, tale essendo il numero complessivo di  tutti i mussulmani secondo l’indagine di L. Monsignon in «Annuaire du monde mussulman» 3.a ediz Parigi 1930.

Oggi con la forza di questo numero che rappresenta un ottavo dell’intera popolazione della terra i mussulmani affermano il loro diritto alla vita contro settecento cinquanta milioni di cristiani e diciotto milioni di ebrei, le più forti entità religiose di fronte alla massa islamica con la differenza che i primi si diluiscono dinanzi alla compattezza dell’Islam, che è religiosa e politica insieme, con le incomponibili differenze razziali e statali, e i secondi pur avendo in comune, con quelli che sono diventati i competitori nella terra d’origine alcuni di quelli elementi unificatori suaccennati, scompaiono nettamente per il formidabile e incolmabile dislivello numerico.

In un momento in cui sono scesi a combattersi europei contro europei e i vincoli di fede o di razza sono stati lasciati da parte per dar posto alle ideologie che separano e dividono, fare queste grandi classificazioni umane su un piano e da un punto di vista religioso può sembrare ovvio o esame minimamente interessante le circostanze attuali. Ma la sete insaziabile che più o meno palesemente e generazioni del mondo hanno mostrato prima e ora mostrano anche durante il conflitto, quando sono protagonisti la forza e la tecnica, di voci spirituali volte a sanare i dissidi e appianare le discordie, fanno pensare che importanza decisiva avranno raggiunto al momento della ricostruzione i valori ideali che solo religioni consacrate e provate da un’esperienza secolare possono offrire. A noi pare che se altra lotta ci dovrà essere nel mondo dopo questa nuova prova cruenta dell’umanità questa non sarà di armi d’acciaio ma fatta delle parole eterne degli uomini-dio, a cui il sacrificio di milioni di giovinezze concederà elementi costruttivi, nati da un esperienza nuova.

La rivoluzione avrà un aspetto esclusivamente e puramente spirituale, ma sarà necessariamente preceduta da movimenti armati per creare l’unità omogenea di quelle masse gigantesche che saranno protagonisti della nuova lotta.

Nella complessa teorica islamica c’è un punto forse dimenticato dagli europei ma non così dagli accesi nazionalisti arabi: l’assoluta inaccettabilità d’una sovranità di infedeli. Il che significa che potenzialmente I’islamico si opporrà con tutte le sue forze ad una politica che tentasse di dominarlo. Le resistenze maggiori trovate dalla colonizzazione europea nell’elemento arabo testimoniano la fondatezza di questo asserto. Uno sguardo alla distribuzione delle unità islamiche nei diversi settori politici del mondo ci darà una chiara visione di quale forza si scatenerebbe sul mondo e chi ne verrebbe a conseguire i maggiori danni se tale principio dal campo teorico passasse ad un’attuazione pratica.

Come abbiamo visto la fascia africo-asiatica occupata da popolazioni di religione islamica corrisponde ad una vasta estensione di territorio verso il quale da secoli tende la colonizzazione europea; si spiega così che il 75 per cento dei mussulmani dipenda da stati cristiani o europei sotto diverse forme politiche e il 25 per cento viva indipendente.

Giova notar quali degli stati europei siano stati principalmente chiamati a governare questa grande massa. L’Inghilterra occupa il primo posto avendone alle sue dipendenze circa 95 milioni così distribuiti: 77 milioni e 740 mila nell’Impero indiano, ossia il 22 per cento della popolazione che è di 351 milioni e 451 mila, e 17 milioni negli altri possedimenti asiatici e africani. L’Olanda occupa il secondo posto contandone nelle Indie olandesi ben 55 milioni che costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione. La Francia poi in Africa e nei paesi sotto mandato arriva alla cifra sempre forte di 22 milioni.

Il numero dei mussulmani, compresi quelli di Albania, che stanno sotto il governo dell’Italia è al confronto insignificante: due milioni e mezzo.

Se questa immensa marea umana si muovesse i più grandi imperi del mondo sarebbero travolti; ma non c’è nessuno che non veda che i maggiori danni toccherebbero alla Gran Bretagna.

Ma il problema dell’Islam e della sua unità, necessaria prefazione a ogni politica di espansione, rimane sempre quello del suo capo. Pur dopo non trascurabili movimenti nazionalisti l’assenza d’un grande condottiero che faccia arrivare la sua grande voce alle parti disperse di questa unità già spiritualmente computa è il punto nevralgico di tutta la questione islamica.

Ma se questo capo si trovasse, ci sarebbe anche il grande nemico da combattere e contro il quale le verdi bandiere del Profeta potrebbero sventolare vittoriose.

Questo nemico è l’Inghilterra.

 

 

 

 

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