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A Villacidro cento anni fa. S’istoria de Bernardu de Linas nel paese d’ombre, di Gianfranco Murtas

Posted By cubeddu On 3 ottobre 2017 @ 07:45 In Blog,Città e comuni della Sardegna,Identità,Letteratura sarda,Senza categoria | Comments Disabled

Il 17 ottobre 1917, soltanto una settimana prima della disfatta di Caporetto, e col pensiero rivolto ai fratelli tutti al fronte di guerra, si fermava a Villacidro il respiro del suo poeta più caro, quel Luigi, Gigino, Cadoni che s’era presentato al mondo delle lettere con numerosi pseudonimi – fra essi l’eccellente Bernardu de Linas – ed aveva consumato tutto il suo talento nell’arco breve di 34 anni.

Il nipote Efisio – figlio di Beniamino, uno di quei fratelli al fronte ancora nel 1917 – ne è stato il più raffinato erede morale e poetico-artistico e colui che ne ha coltivato la memoria facendosi promotore, nel tempo, di ristampe, nuove ricerche critiche e d’ambientazione, convegni di studio. E’ grazie a lui, al suo entusiasmo ed all’originale apporto da lui recato ad un’esplorazione che partiva quasi da zero, che in molti ci siamo appropriati – condividendola – di quanto l’umanità e la produzione letteraria di Gigino Cadoni hanno donato alla Sardegna del primissimo Novecento.

Fu chiamato l’Esopo sardo, il Fedro sardo, Gigino Cadoni, e Martino Contu – il quale negli anni si è affiancato ad Efisio nello scavo di tanto cospicuo pianeta umano e letterario – ha cercato di stendere una scheda bibliografica completa, mettendo in elenco Fantasmagorie (1904) e Favolas ed atteras poesias umoristicas in dialetto sardu-campidanesu (1909), Cosas de arriri: chantecler sardu o siat sa riconciliazioni de su caboni e de su margiani (1910) e Unu brutt’animali (1910-1911) e anche Concu Franciscu Elenu (composizione in versi rimasta manoscritta, poi pubblicata da Efisio Cadoni nel suo anticipatore A parole-Storia del paese d’ombre, 1988, e anche in Un hibou dal volo d’aquila-Antologia delle poesie, favolas e canzonis, a cura ancora di Efisio Cadoni e di Martino Contu, 1994).

Giornalista corrispondente (da Villacidro) de La Voce del Popolo, giornale cattolico di Cagliari, fra il 1915 ed il 1917 – cf. Villacidro: paradiso terrestre abitato dai diavoli, a cura di Martino Contu – Gigino Cadoni costituisce ancora, veramente, un pianeta da esplorare in uno alla società cidrese che lo accolse nel tempo in cui il paese – 6mila residenti – era rappresentato da personalità di gran livello nelle istituzioni rappresentative, accademiche ed economiche… basti ricordare il senatore Antioco Loru e il professore Giuseppe Todde – entrambi avvocati di grido e rettori dell’Università di Cagliari (oltreché cento altre cose).

Fu il tempo, quello, di frequenti contrasti fra il municipio e la parrocchia – allora, dal 1908, affidata ad un’altra personalità d’eccellenza quale era don Giuseppe Ortu (biografato pochi anni fa da Salvatore Curridori, a cui pure si deve un altro studio illustrativo di villacidrese doc quale fu l’ottimo avvocato Giuseppe Fulgheri, eroe del progressismo borghese, caduto quasi alla vigilia dell’arrivo al mondo di Gigino Cadoni, e la cui memoria rimase ed rimane nel patrimonio morale condiviso dai paesani).

Fu il tempo, quello, anche di Ignazio Cogotti – a lungo sindaco del paese (dal 1908 al 1920) e poeta in lingua e in limba lui stesso, autore di gustosissimi sonetti in campidanese, scritti per lo più negli anni in cui studiava a Cagliari, dove si laureò nientemeno che con il professor Bacaredda. Il tempo di Gino Manno, altro poeta così come poeti furono Gavino Leo e Luigi Solinas, cagliaritano d’amori cidresi quest’ultimo. Se Nuoro ben a ragione, in quello stesso passaggio di secolo, poté essere definita l’Atene sarda, Villacidro lo stesso titolo avrebbe meritato nel raggio almeno del nostro Campidano, che era stato battezzato nel 1882 dalla visita cidrese del ventenne Gabriele d’Annunzio (con la guida di Pascarella e Scarfoglio) ed aveva sviluppato la sua epopea, non senza frenate e cadute però, grazie alle sindacature civiche che soltanto per comodità si suole riassumere nel nome, invero divisivo nel reale quanto glorioso sulla pagina del romanzo dessiano, di Giuseppe Pinna, l’Angelo Uras Curreli, amministratore virtuoso e lungimirante. Quando anche dal capitano-maggiore-colonnello-generale Francesco Dessì venivano alla comunità motivi di bella e valorosa nobiltà, e quando la scuola marciava allevando le nuove generazioni ai metodi dei maestri Manno (a partire da Salvatore, l’autore di Villacidro-Iridescenze)…

Dal 1988 e per nove volte, mi pare, fino allo scorso anno, Villacidro ha accolto incontri di studiosi di varia formazione, invitati a dar conto di un aspetto o di un altro della vicenda umana e letteraria di Gigino/Bernardu, auspice il Comune che poi ha affidato all’ODA la stampa in volume degli atti (mi riferisco ai primi sette convegni, ultimo quello del dicembre 2008, svoltosi al caffè letterario).

Ora siamo al centenario della scomparsa dolorosa del nostro poeta e la data non passerà sotto silenzio, almeno lo spero. Io intanto deposito il mio ideale fiore sul sepolcro dello sfortunato e talentuoso Gigino riportando qui appresso il testo della relazione che tenni all’appuntamento cidrese (nel salone della parrocchiale di Santa Barbara, ospiti tutti del compianto e caro don Giovannino Pinna) il 17 maggio 2009.

 

Sul “paese d’ombre” negli anni di vita di Gigino Cadoni (1884-1917)

Si presentò come un anno dagli strani auspici quello in cui nacqui. Soltanto due mesi prima ch’io aprissi i miei occhi al mondo li chiuse una vecchina, a Norbio. Il giornale scrisse che aveva 114 anni, e i registri parrocchiali di Santa Barbara – che Franco Fadda custodisce nell’archivio/ museo – 113, ma la cosa non cambia. Io non ci ho mai creduto molto, però, a questo particolare, benché l’insistenza con cui lo si sostenne, l’interessamento nientedimeno che di sua maestà la regina Margherita insieme con la mancanza delle smentite sembrerebbero confermare l’esattezza della notizia, con quant’altro venne allora detto e scritto: che, pur ormai cieca e quasi sorda, ragionava ancora bene, Maria Orrù, capace di rispondere alle visite periodiche di qualche elemosiniere del circolo di ricreazione di Norbio; e che aveva cinque figli, quattro femmine e un maschio, il primogenito 96enne, essendosi lei sposata a 17 anni; cinque figli, la più giovane con tre quarti di secolo sulla schiena. Buon DNA, beati loro. La mia sorte è stata, sotto il profilo della durata di vita, meno benevola: io di anni ne avevo soltanto 33, l’età di Gesù sul Calvario, quando mi sono involato qui, nel non tempo…

Nell’indigenza madre e figli, fino a che non giunse questa segnalazione alla redazione dell’Avvenire di De Francesco, buon amico nostro e compilatore, tempo dopo, di quel libretto che molti conoscono col titolo di Un comune di montagna. Perché allora sia il sindaco Luisu Cogotti – che iniziò proprio allora la sua modesta magistratura –, sia come ho detto la regina Savoia se ne occuparono. Iaiu dette loro un po’ da vestirsi, sua eccellenza il prefetto erogò, su istruzioni del ministro della real casa, 80 lire andate a soccorrere i figli, ché fra la segnalazione e l’elemosina era sopraggiunta sorella morte: strana sorella, che aveva aspettato 114 anni, e non se la sentiva però di aspettare ancora una settimana. 80 lire benedette, a pensare che proprio pochi giorni dopo, la baracca familiare, decrepita pure essa, crollò giù.

Storia di febbraio e marzo. C’era stato poi l’avvicendamento in pretura – l’avvocato Motzo aveva preso il treno ad Acquapiana per trasferirsi a Montechiaro d’Asti –, ed era quindi iniziata, in primavera, quella invasione della cetonia a devastare frutteti e vigneti in tutta Parte d’Ispi: prime vittime i peri ed i prugni. La società di ricreazione aveva festeggiato il giudice che si congedava, ma aveva subito riequilibrato piangendo per i danni alle proprietà. Erano 72 i soci del circolo che riuniva i notabili come qualche tempo dopo si sarebbe fatto con il circolo di lettura del dottor Alfonso Dessì, e dopo ancora con il rotary o il lions club: essi, i pochi professionisti e funzionari in servizio a Norbio, e i molti possidenti che erano l’ossatura robusta dell’economia locale, quelli che vedevano in prospettiva e davano lavoro ai poveri. Anche se è vero che senza il lavoro dei poveri essi stessi sarebbero stati poveri, e non avrebbero potuto mettere in agiatezza le generazioni nuove che intanto venivano a rallegrare la casa loro o dei loro figli.

D’altra parte tutti i rioni e gli strati del paese godevano anche d’altro: di aprirsi ai villeggianti di Cagliari, che qui trascorrevano maggio e giugno, ospiti di amici ma più spesso in abitazioni prese in affitto – a Frontera o nella fascia bassa della pineta –, e pagando cash rallegravano i locatori, consumando pane e vino rallegravano i commercianti, ed elemosinando in parrocchia rallegravano il nostro vicario.

L’appello usciva tutti gli anni: «Dite ai cagliaritani che il tempo è bello di giornate splendide e che vi sono parecchie case disponibili preparate, latte abbondante, aria ed acqua eccellenti, viveri d’ogni genere, e quest’anno a buonissimo patto – ogni anno “a buonissimo patto” – e che il paese li attende ansioso, sperando che ci portino denari perché ne abbisogniamo».

Naturalmente, mentre mia madre si preparava alle fatiche del parto, le teste calde in paese non riposavano neppure esse: ultima loro vittima era stato un ragazzo di 15 anni, Sisinnio Cuccu, che era stato aggredito mentre custodiva il gregge dal quale s’eran presi 3 pecore. Sisinnio se n’era stato zitto per giorni, per paura di guai maggiori, fino a che il padre gli aveva strappato la confidenza denunciando il misfatto ai carabinieri. Per ordine del tenente del comando di Iglesias era stato arrestato un altro Cuccu paesano, Francesco, il fucile sempre addosso, e dopo di lui anche Antonio Nonnis. Colpevoli, innocenti? Due settimane di carcere, poi la libertà. False accuse contro di loro?

Ho detto prima di questo ragazzotto. Pensa le coincidenze. Un suo omonimo – Sisinnio Cuccu di 46 anni –, proprio due o tre mesi prima, era stato rinvenuto cadavere vicino ad una capanna di legno che aveva preso fuoco. Quando non era malanimo, allora come sempre, era la sorte. Certo è però che la nera s’alimentava della povertà e dell’ignoranza, e la povertà e l’ignoranza s’ingessavano nelle sentenze e nelle celle, accidenti! Così a Parte d’Ispi, ma non soltanto qui. Forse però nessun’altra area del Campidano come la nostra poteva gloriarsi di tante grassazioni, ora a campagne o case ora a bestie al pascolo… E quando non erano schioppettate era la dinamite oppure il fuoco devastatore a lanciare avvertimenti o a sanzionare uno sgarro.

Avrò avuto neppure 20 giorni, ed ecco da Santa Barbara, di fronte a casa – me lo ricordo come fosse oggi –, quelle campane suonare a stormo in piena notte. Per convocare la protezione civile dei volenterosi. A casa Todde si ballava ancora, per festeggiare forse qualche cagliaritano in vacanza, e anche da lì partì una colonna di gente di buon animo con i secchi d’acqua, per spegnere le fiamme fuggite dalla piazza ed entrate nel municipio. Nelle squadre improvvisate molti erano quelli delle case vicine al Convento o alle Tre Marie e Lacuneddas o magari degli intrichi di Castangias, che, buttati giù dal letto, s’eran presentati in calzoni da lavoro e pigiama.

Quanti ricordi ho, cugino Efisio, dei miei 12mila giorni – sembrano molti e sono un soffio – trascorsi a un passo dalla Fluminera. Che parole ha usato, per descriverlo il nostro fiume paesano, maestro Manno – Salvatore Manno –, fratello di Giuseppina buonanima prima moglie di mio padre, e marito di Rosa la sorella di mio padre. Zio doppio. Ho frequentato le prime scuole al Convento, affidato alla sua arte didattica, ed avevo soltanto 9 anni quando egli dette alle stampe quel libretto recensito allora su Vita Sarda, quella rivista cagliaritana dove scriveva anche Grazia Deledda, ragazza allora di 20 o 21 anni. La recensione l’aveva preparata l’altro zio, Ignazio fratello di mamma Maria Cogotti, e che tu hai fatto ripubblicare in reprint: giustamente, perché rimane una guida buona per capire il paese passeggiandolo tutto quanto proprio lungo gli argini della Fluminera.

Non minor merito hanno avuto poi, però, Angioletta Fadda e Marco Sardu, che sono riusciti anch’essi a restituire la complessità spazio-temporale del paese nostro risalendola la Fluminera. Così anche Beppe, figlio di cugina Maria Cristina e del maggiore-colonnello degli anni di Cuadu e successivi, l’ha raccontata da par suo la Fluminera, nelle sue virtù e nei suoi tradimenti.

Beppe Dessì. Mi sovviene, cugino Efisio, che mentre tu m’hai convocato nel 125° della mia venuta al mondo, un altro giubileo centenario dovreste presto cantare in un tedeum di cielo e terra, per Beppe che crebbe a Norbio ma gli occhi li aprì a Cagliari nel quartiere della Marina, e fu battezzato nella chiesa del Santo Sepolcro, giù di Sa Costa, dov’era un tempo una porzione di Terrasanta, terra di Palestina portata a Cagliari. Era il 1909, l’anno delle mie Favolas. Pensa un po’ alle coincidenze.

Corre il calendario e non posso che accennartene soltanto, qui. Ma è l’occasione buona, magari, per evocare qualche sfortunato ancora da risarcire dalla vostra società dei cosiddetti vivi, per dire anche che nessuno muore mai e che la morte ce l’ha dentro, semmai, chi non ricorda, perché s’è arreso, sterile di mente e di cuore, alle vacue contabilità dell’ufficio cimiteriale. Eccola allora tzia Luciana Murgia vedova Curridori, 70 anni, fatta fuori nei primi giorni dell’anno nuovo di grazia 1885…

C’era ancora quell’anno, e così sarebbe stato registrato sulla stampa ancora dopo, diffusamente specie nel 1888, il ricordo della visita compiuta a Norbio, nello stesso anno della dipartita dell’avvocato Fulgheri, dal celebre terzetto Scarfoglio, Pascarella e d’Annunzio.

Stavo compiendo il mio primo anno e me ne parlarono di Scarfoglio, Pascarella e d’Annunzio ospiti nella grande casa oltre la Fluminera; così sarebbe stato ad ogni compleanno, per farmi sentire paesano del centro dell’universo. Pensa un po’, Scarfoglio gran giornalista aveva iniziato a pubblicare, lui calabro-abruzzese, in Sardegna! Nel 1878, diciottenne soltanto, in una testatina come Vita di Pensiero. Noi sardi dovevamo essere oltre ogni perimetro del mondo civile, tant’è che i tre venivano a indagare un mondo esotico, e invece accompagnavamo, promuovendoli, gli esordi di poeti e scrittori del continente… Fece tanto, Edoardo, ma fu infelice quasi quanto me. Ce ne venimmo nel non tempo ad undici giorni soltanto l’uno dall’altro: lui il 6 ottobre, io il 17. Era il 1917, vigilia di Caporetto, e vigilia della rivoluzione bolscevica nei teatri del mondo.

Pascarella poi, rinato Belli romano, giovane 24enne allora, anche lui redattore del Capitan Fracassa; e non ultimo se non per età – 20 anni – il Vate, che ci lasciò tracce di genio.

Che giornata quella di cui anche tu hai scritto in quella preziosa Storia del Paese d’Ombre raccontata con le parole stesse degli scrittori e i versi dei poeti. Una giornata che potrei anch’io appena appena rievocare, fornendo qualche particolare nuovo come mi fu raccontato, modesto in sé ma capace forse di aggiungere altro movimento agli animi.

Pioveva a dirotto quel giorno, il diluvio universale sembrava, e il professor Todde, nonostante questo, non li lasciò un attimo, ospitale come nessun altro poteva essere, i tre più l’amico mio Paolo Hardy alias Ranieri Ugo avvocato e poeta, mazziniano per il cuore e cocchiano per la pratica. Ed aveva riempito, il professore, la testa dei suoi amici di com’erano fatti i paesaggi di Ruinalta e quelli di Pontario, di com’erano colorate e dure le pietre di Olaspri e frizzanti le cascate di Ordena. D’Annunzio si era riempito le tasche di aggettivi per descrivere la strana flora là attorno, rimontante direttamente al dì della creazione.

Il professore dette il programma: «A Sa Spendula». «Acqua vuole acqua» soggiunse Pascarella ripulendo la pipa: una cascata, quella del cielo, chiama l’altra certo meno poetica delle grondaie, e quella terza ben nobile invece delle rocce. Scarfoglio cinse un fucile a doppia canna, perché s’era fissato di dover spaccare il cranio a qualche povera anatra innocente, mentre d’Annunzio, avendo perduto il suo bastoncino di loto, se n’era procurato un altro di lentischio. Il professore voleva proteggere tutti sotto il suo ombrello che sembrava un baldacchino del Corpus Domini, ma i giovani di vent’anni, o anche di trenta, se si inzuppano a maggio sono contenti mica scontenti. «Magnifico» gridò Scarfoglio che preso da libidine venatoria precedeva gli altri. Bum, dal suo fucile una schioppettata era andata a vuoto, e lui aveva perso un colpo e anche la reputazione.

Che profumo! Erano celidonie e lentischi ed alloro, erano mille fiori solitari che abbellivano la campagna attorno. «Amici, è l’ora, il pranzo attende» notificò il professore. E tornati a casa tutti godettero per intanto dei soccorsi di donna Luigia materna, che svuotando l’armadio del marito li provvide chi di una vestaglia da camera chi di capienti calzoni che forse per la scelta della taglia diventarono oggetto di surreale dibattito fra i candidati. «La musa abruzzese fu il conforto di quell’ora asciugatrice», confidò l’amico cagliaritano dettandone all’Avvenire, e con d’Annunzio cercò d’imbastire un sonetto comparso tutto ripulito, un giorno, sul Capitan Fracassa. E il pranzo, e che pranzo! E che salse e che vini! E che sonno…

Ce n’erano sempre, di ospiti, a casa Todde, ma veramente i cagliaritani riempivano Norbio nella stagione giusta ogni anno, trattenendosi a cinguettare la sera, al fresco del tramonto prima di cena sui gradoni di Frontera o al rondò. I norbiesi «amano i cagliaritani i quali concorrono alla trasformazione e abbellimento della contrada», scrisse una volta chissà chi, per pompare la reclame nel giornale di De Francesco: «e ne sono ricambiati di riconoscenza perché il buon senso di questa popolazione e dei suoi amministratori ha permesso di imprimere a questa campagne una nota speciale che ispira tranquillità ed oblio degli affanni».

Tienilo a mente, cugino Efisio: «il buonsenso dei suoi amministratori». E però mica basta questo. Senti anche il disappunto per certo vincolismo capitalista che per arricchire i ricchi impoverisce i poveri, negando loro sbocchi di mercato e reddito: «L’industria dell’abba ardenti che offriva all’attività locale modo di percorrere in tutti i sensi l’Isola e collocarvi la produzione, è bella e ita. La grande industria la uccide all’ombra della legge per la tassa sulla distillazione degli alcool. Qui ne sono accorati come d’una jattura immensa che sposta una mole d’interessi; tale pare non sia l’opinione dei rappresentanti politici, meravigliosamente taciturni su questo fenomeno».

E ancora. «La scadenza pel pagamento de’ mutui si soleva far coincidere coll’epoca della distillazione dei vini, perché allora si verificava la maggior circolazione di danaro, sia per esito di prodotto che per compimento di mano d’opera». E ora invece?

 

«Unu consilèri chi cantàda in còru – pàri unu sàntu a sa bessìda de crèsia – po sa bìdda nosta esti un’arruìna…

«Ca sùnti quàttru cànis ferenòsus – e sa bìdda a còddu bòlinti portài – ita de propòstas non seis setiòsus – de tàssas e feticàu s’ànti arruinàu…

«Sèus màli amministràus, non nàu chi sìant ladrònis, ma sùnti pappadòris».

 

A.D. 1907

Sì. Faccio un salto di anni. Seguimi nell’avventura.

Il primo della serie in ordine puramente alfabetico, di tutti quelli che furono convocati per deporre alle udienze tenutesi a Cagliari fra aprile e maggio del 1907, fu Alagna Antonio, il proprietario di mandorleti e frutteti con molti operai in azienda. Del gruppo dei promotori generosi dell’asilo infantile e di molte altre attività per il bene comune, meritò ed onorò la carica di giudice conciliatore ricoperta per molti anni. Eminenza grigia di Parte d’Ispi, dicevano, ispiratore e burattinaio altro che zio Pinna Curreli, che invece si era sempre esposto in prima persona, facendo bene o male se ne potrebbe dire, e fu bene e fu male senz’altro negli anni della sua amministrazione, mitizzata magari da Beppe, ma così doveva essere! Di Alagna, alla sua morte – nella primavera del 1915 – io scrissi sulla Voce del Popolo, settimanale guelfo di Cagliari.

E poi Alagna Francesco il professore di diritto all’università villeggiante da noi ad ogni primavera, Angius Tomaso che si sgroppava ogni santo giorno le strade fra Montevecchio e Ruinalta, Anni Giovanni assessore anziano facente funzioni di sindaco che in sardo pensava e parlava per tranquillità sua, Aresti Nicolino che al Comune lavorava da 23 anni ormai, e ancora Cabriolu Antonio e Cabriolu Francesco, mio fratello Cadoni Mannu Agostino – che veniva dal matrimonio di babbo con Giuseppina buonanima – e Cadoni Puddu Antioco, e Cardia Mocci Giuseppe fuoriuscito della lega ma pur sempre convinto delle sue ragioni, e Castiglia Egidio funzionario della sottoprefettura di Iglesias venuto più volte a controllare le carte del nostro Municipio – nel suo futuro anche la direzione dell’Unione Sarda fascistizzata –, Cannas Francesco il capitano dei barracelli e Casti Steri Sisinnio il fanalista stradale, e in altro giro Congia Anna, Congiu Giuseppe, Cosseddu Giuseppe, Curreli Raffaele, Dessì Alfonso il nostro medico alfa e omega – quello da cui tutto o quasi partiva ed a cui tutto o quasi ritornava –, e Fadda Francesco ex carabiniere e negoziante ormai affermato, e Ferraris Aldolfo il capo macchia forestale dipendente della ditta Sanguinetti…

Quanti nomi! Era ho detto il 1907, mancavano dieci anni giusti alla mia morte, e questi e altri compaesani erano stati tutti chiamati in tribunale – proprio dirimpetto al palazzo antico dell’università di Cagliari, all’ombra della torre dell’Elefante. A sfilare là davanti ai giudici e agli avvocati sia della parte civile che della difesa – tutti pezzi grossi del foro (e anche della politica) del capoluogo, ed ai cronisti della giudiziaria che riportavano parole e colore nei loro resoconti. Qualche volta più colore che parole.

Tutti lì a deporre al processo contro Giovanni Deidda, trent’anni, baffoni si sarebbe presto detto alla Stalin o magari alla Peppone, un passato burrascoso fra la divisa della dogana e il collegio salesiano, l’amore di una marchesina in quel di Firenze e l’adesione a un movimento sovversivo, fino al ritorno nell’Isola e al commercio della verdura, passando per un arresto in quel di Gonnos e l’esame per elettore nanti il pretore – voto sei decimi – e ancora il lancio di una lega dei contadini a Norbio, con uno stipendio sicuro per lui e la promessa ai soci di un tot giornaliero in caso di malattia, e molte, molte male parole contro l’amministrazione Piga-Anni-Sanneris-Murgia… molte o troppe chissà, fino alla denuncia per diffamazione ecc. ecc. che aveva coinvolto anche altri suoi sodali: Giulio Cabriolu – che il presidente del tribunale chiamava Carbiolu – ex guardia comunale con compiti di scrivano e, fino a che non si stufò, anche di custode delle carceri, e Antonio Ignazio Deidda Pitzalis bracciante agricolo, e Lucifero Pau contumace canzoniere, di campagna anche lui, per quel che si diceva in un foglietto stampato ad inchiostro… Un processo di venti giorni, in primo grado, e di poche ore in appello, su querela del Municipio e dell’ex sindaco Giuseppe Piga Bolacchi, per molti anni vicesegretario del Comune, quindi consigliere e assessore e sindaco, e intanto procuratore e patrocinante presso la Pretura e la Conciliatura.

Quanti nomi! Ferraris Sedda Antonio, Fois Farci Giovanni Battista fonditore di rame cliente dell’ex sindaco, Fonnesu Saiu Giuseppe già socio pure lui della lega, Frongia Carlo il segretario comunale che anche Beppe cita nel suo libro, Garau Melchiorre il perito tecnico di quel muro crollato il giorno stesso in cui era stato costruito con risparmio di materiali, Gnocchi Italo funzionario contabile e investigatore per conto della Prefettura di Cagliari, e Linguardo Luigi d’origini siciliane in Piazza Armerina e da noi depositario del Monte granatico nonché consigliere comunale, e Loru Barbara… Quanti nomi ancora, e ogni dieci che ne cito ne salto il doppio e anche di più…

I giornali che in città uscivano nel pomeriggio, arrivavano da noi, con il treno che faceva sosta ad Acquapiana, la mattina dell’indomani alle 8,20 in punto (o quasi). Noi tutti, seduti allo zampillo o ai gradoni di Frontera, o magari nei crocicchi di Funtanedda verso il rondò, o di via Roma che sembrava una staffetta di strade all’appuntamento, con tutti quei cantieri a destra e a sinistra, o nel quartiere alto, o nei curvoni di Seddanus, e nei caffè e anche nelle bettole, eravamo sempre tutti lì a commentare quelle colonne del giornale cocchiano o di quello clericale di Sanjust, o dell’organo della Frumentaria sassarese o ancora del foglio radicale di Umberto Cao, l’avvocato-ferroviere anima nera della rivoluzione cagliaritana dell’anno prima – disoccupazione e carovita in cima alla protesta – che aveva fatto morti e feriti e danni da non potersi stimare, quando anche a Norbio arrivarono rinforzi di carabinieri per tema di rivolta come in certe zone di miniera e caseifici. Di Cao dicevo, con un futuro di sardista e dopo di fascista, deputato perfino, anticipatore ma con più dottrina di quei tanti riciclati riverniciati che nel tuo tempo belano, acritici e ministri, al guinzaglio del loro padrone col salvadanaio.

Anch’io leggevo, anch’io mi informavo. E naturalmente mi formavo un’opinione. In paese ci vivevo tutti i giorni e tutto l’anno; della vita pubblica e anche della privata, senza essere smodatamente curioso, conoscevo il dritto e il rovescio, il concavo e il convesso. Ero immerso nella comunitaria quotidianità di Norbio fino a Oridda e Magusu, dopo la lunga ma gradevole parentesi oristanese per il ginnasio, e dopo anche quei lunghi lunghi troppo lunghi mesi passati dentro la divisa della Finanza per un po’ combinata anche con i panni del cuoco. Avevo già pubblicato le mie Fantasmagorie poetiche, che è cosa di quando avevo giusto 20 anni, ma dove s’erano infilati molti dei miei umori e malumori adolescenziali, e però anche l’amore vero, permanente e crescente per il mio “borgo natio”, per la piazza a cui guardava il nostro cancello, di lato al Monte granatico – piazza Zampillo e XX settembre, povero papa Pio – o per il lavatoio e l’umanità affaccendata al lavatoio…

Lavoravo in casa e nelle nostre campagne di famiglia, nei negozi nostri. Eravamo tanti, fratelli e sorelle più grandi e più piccoli di me, che ero il quarto della seconda serie di babbo, e della prima di mamma. Fra il maggiore e la minore c’erano vent’anni di differenza, che bella una famiglia così. Tanta religione in casa, preghiera sempre, sembravamo un convento. Peppino, più piccolo di me, e Antonietta, più grande invece, avevano preso i voti o stavano per farlo: uno prete (perfino cappellano militare) e l’altra suora. Ma tolti loro, noi altri reggevamo tutti quanti il confronto delle ore fra mattutino e compieta, orazioni giaculatorie e rosario scandivano la giornata in famiglia, e non avevamo bisogno dei suggerimenti del campanile. Però non ero triste, o meglio: sapevo come sdoppiarmi, sapevo bilanciare le due nature… E’ un’arte difficile ma comunque alla portata, quella di materializzare il nostro alter ego: io dialogavo con quell’altro Gigino che non voleva farsi imprigionare dai dispetti della salute, i quali proprio allora iniziavano a dar fastidio.

Successivamente mi sarei concesso agli esercizi nella nostra parlata campidanese, pubblicano infine Favolas ed atteras poesias umoristicas firmate Bernardu De Linas; dopo avrei licenziato Cosas de arriri, e dopo ancora a Unu brutt’animali, firmando stavolta Bernardu Mabìu…

In tutti quegli anni della mia infanzia, e dell’adolescenza e anche della prima giovinezza, avevo vissuto il clima, che per le nostre generazioni era normale, della guerra. Guerra stop and go, rituale odioso ma diventato normale. Tu che sei del benedetto 1943, ultimo di guerra in Sardegna – e dopo di allora basta guerre –, non puoi immaginare. Eravamo in Africa dall’Ottocento, dai tempi di Crispi, eravamo impegnati in Libia contro i turchi fra il 1911 e il 1912, e Ignazio era lì, e dopo ancora…

Scusa la digressione. Ritorno al 1907, al processo di Cagliari contro Deidda calunniatore o giustiziere del Municipio, anzi del partito Piga-Anni-Sanneris-Murgia…

Resoconti abbreviati del dibattimento, delle deposizioni dei testi comparivano anche sui settimanali e periodici, questo socialista e quest’altro liberal-borghese o d’altra obbedienza, ognuno voleva raccontarci o propinarci la verità dei fatti…, e noi lì a discutere tifosi d’una parte o dell’altra, invece che ad interrogarci finalmente, fuori dalle contingenze, che sorte potesse avere questo nostro paese che si rivelava alla Sardegna e al mondo anche peggiore di com’era di fatto…

 

Piga – «Perché mi si aizzava il popolo contro dovetti rassegnare le mie dimissioni dalla carica di sindaco; poco dopo si fece scoppiare una capsula di dinamite che apportò dei danni non solo alla mia casa, ma anche ad altre».

Anni – «Nel 1904 ero sindaco io e il Piga era assessore. In quel tempo si deliberò di cedere tutte le piante di alto fusto della foresta di Monti Mannu per 105 mila lire alla Ditta Sanguinetti: in cambio la Ditta avrebbe dato la sua proprietà, periziata dal Serra in 112.000 lire. La Giunta Provinciale Amministrativa non approvò la deliberazione del Consiglio Comunale, ed allora il cavalier Vanini offerse per quelle piante 200.000 lire».

Gnocchi – «Quella di Villacidro non era precisamente una lega socialista, e Deidda, che non capiva neppure cosa volesse dire “proletario”, era implacabile contro l’amministrazione comunale e parlava non per scienza propria: in molte cose aveva ragione (come la questione dei medici, la tassa di posteggio che fu poi soppressa), in altre aveva torto (questione dell’alloggio gratuito al vice segretario, appropriazione di alcune arance per parte del sindaco ecc.). Vero era l’addebito che al Comune erano accolonnati in catasto terreni non posseduti e pei quali pagava le imposte. Deidda presentò un memoriale coi desiderata e voleva: abolizione delle tasse, licenziamento di un impiegato municipale e di due medici. Il memoriale era firmato “pel popolo di Norbio”. Deidda aveva ragione quando accennava il mancato rispetto alle ceppaie nei tagli dei boschi per parte dell’appaltatore Fois Farci. Sentii dire che il sindaco Piga avrebbe avuto £. 20.000 pel taglio di un bosco. Seppi che bisognava fidarsi poco anche delle guardie forestali. Il contratto per la manutenzione delle strade fu rescisso perché il servizio non procedeva bene. Ricordo di aver indagato per multe non fatte pagare a Vanini e portate in capitolato pel taglio abusivo di 111 piante di alto fusto. Invece di fargli pagare £. 7.000, od 8.000 gli fecero pagare £. 28 e questa io la classificai una cosa non regolare. La multa era di £. 100 per pianta, quando si trattava di piante che potevano apportare un lucro all’appaltatore. La deliberazione colla quale si fecero pagare le 28 lire non fu sottoposta all’approvazione dell’autorità. Della permuta fra il Comune e la Ditta Sanguinetti ne ebbi una impressione disastrosa. Alla perizia dei beni del Sanguinetti prese parte il consigliere Sanneris. L’inchiesta fu sfavorevolissima al Sanneris e la pratica fu messa a dormire».

 

Ancora. Manca di Nissa Giovanni l’ingegnere, Marcialis Umberto il muratore, Maresu Francesco l’ex maresciallo della Benemerita, Murgia Francesco l’armiere, Murgia Gennaro che non c’è neppure bisogno di dire chi fosse, Murgia Ignazio il notaio, Murgia Luigi il medico e già sindaco repubblicano di Guspini, Murtas Giovanni il guardiafili dell’amministrazione dei telegrafi, Orrù Lorenzo già vice segretario comunale a Norbio, Peluffo Emanuele della Camera di Commercio e anche lui villeggiante da noi ogni primavera… Nomi, nomi, tutti a dire la propria…

Giovanni Deidda non m’era mai piaciuto, e certamente non sarò piaciuto io a lui. Nel 1915, in una mia cronaca per quella Voce del Popolo, che l’ottimo cavaliere nostro Martino Contu ha ripubblicato in un meritorio libretto che giustamente ha intitolato evocando il paradiso e i diavoli, ed ha richiamato poi con te, caro nipote promosso cugino, in quell’altro antologico delle mie Poesie, Favolas e Canzonis, lo definii tante cose bellamente riesposte: tribuno, demagogo, mellifluo oratore alla carnascialesca e dal linguaggio da “carrettiere avvinazzato”, bla bla.

 

Deidda – «La popolazione di Norbio si lagnava degli amministratori perché era stato venduto del sughero per la somma di £. 47.000 senza sapere dove questa fosse andata a finire; in una conferenza io dissi al popolo: se la somma è stata introitata dal Comune esisterà… Conferenze ne tenni anche in privato ed il concorso del pubblico era sempre numeroso. Da uno della lega che non conobbi mi venne consegnato il manoscritto di una canzone sarda per darla alle stampe. Siccome io ritenni che non contenesse nessuna offesa la feci stampare e la vendetti privatamente; la lessi in pubblico col permesso del delegato Vitti, ma non la commentai perché non sono professore. Nego anche di aver incitato all’odio contro il sindaco e gli amministratori, che semplicemente censuravo perché la famiglia Piga era debitrice del Monte granatico come lo è tuttora».

 

Cabriolu/Carbiolu Giulio scrivano? Applaudì, nell’ultimo giorno di carnevale dell’anno di grazia 1906, il tribuno che difendeva i poveri nel comizio interno alla sede della lega: ma i locali erano piccoli e la gente stava anche fuori, a sentire dalle finestre aperte… Tutti applaudirono, e dopo si formò un corteo che attraversò le vie del paese gridando «Viva il Carnevale, Viva il socialismo»…

Altri nomi: Piga Pittau Antonio, Pilloni Soriga Antioco, Pinna Spada Francesco, Pittau Antioco, Pitzalis Piras Giuseppe Antonio che non era leghista ma certo si sarebbe iscritto, Prinetti Luigi e Pochino Diego brigadiere e vice al tempo dei presunti misfatti, Porru Antonio il sindaco di Gonnos, Sanneris Giovanni l’ex sindaco di Norbio e già presidente del Monte granatico, Scano Ottavio il collettore delle imposte, Serra Efisio uno e trino : geometra e scrivano comunale e in ultimo pure conciliatore, Sedda Serra Giuseppe che era bettoliere ed obriere di Santa Rita, Serra Salvatore del novero degli insegnanti, e ancora Saba Francesco, Serra Pittau Giuseppe Maria, Soru Piras Salvatore, Spada Pittau Antioco, fino a Villasanta Giulio della Prefettura, fedele di sua eccellenza gialla (per dirla con Sebastiano Satta), in paese per i guasti ora del Municipio ora del Monte granatico. Quando anche ci fu chi rilevò che i suoi indennizzi di trasferta costavano all’amministrazione più degli ammanchi che era venuto ad accertare…

Nomi, nomi… Dal non tempo in cui la pietà di Domineddio mi ha messo, annoto, di tutta questa storia, Efisio caro, il fiato sprecato, e il tempo perduto per nulla.

 

Villasanta – «Gli operai erano stipendiati dal Comune, ma anziché fare i mandati collettivi si faceva un mandato unico a certo Collu. So che il segretario ed altri impiegati avevano maneggio di denari comunali. Molti operai si lamentavano di essere stati frodati: qualche altro si presentò da me dicendo di esser stato pagato per lavori comunali ed invece fu mandato a lavorare per conto del sindaco Piga. Questo me lo disse certo Isoni, figlio di una guardia municipale».

Saba – «A Norbio quelli del partito Pinna Curreli favorivano Deidda, quelli del partito dell’Amministrazione erano a lui contrari. Nella canzone si facevano addebiti, che mi pare non fossero veri, all’Amministrazione. Anche il Cabriolu mi disse che non era contento degli amministratori perché erano “pappadoris”».

Ferraris – «Nella provincia di Cagliari esiste un regolamento di massima pel taglio delle foreste con ferro tagliente, mentre il Fois sradicava con zappe e zapponi; al Fois vennero accordate proroghe dall’appalto che era stato concesso per due anni. In paese si sapeva che il Fois asportava le ceppaie: andai al municipio per poter verificare il contratto, ma non lo potei».

Fois Farci – «Io non ho mai rubato ceppaie, invece mi hanno portato via l’“arruschia”, i porci altrui mi hanno mangiato le ghiande; dopo chiusa l’asta col prezzo da me offerto di £. 1.500, il Ferraris mi disse: che cosa ha fatto! Lei ci rimette la testa, e faccia il negoziante di rame».

Castiglia – «Nell’ottobre 1900 quando mi trovavo alla sottoprefettura di Iglesias fui mandato in missione a Norbio essendo sindaco Pinna Curreli con lo scopo di metter d’accordo i due partiti. Ricordo che si facevano ricorsi pel dazio; il signor Anni era appaltatore del dazio di Acquapiana ed un cognato suo era appaltatore di quello di Norbio e si voleva che fra i due cognati esistessero rapporti d’interesse; un rapporto dei carabinieri non escludeva l’accordo; il signor Anni avrebbe conciliato alcune contravvenzioni daziarie mentre questo spettava all’appaltatore. Ad istanza di un amministratore si volevano deliberare nuove condizioni per l’appalto; il sindaco non volle convocare il Consiglio e il signor Anni, assessore anziano, spedì gli avvisi di convocazione. Alla seduta intervennero solo quelli del partito Anni e deliberarono di confermare l’appalto alle stesse condizioni al cognato del signor Anni».

Curreli – «Scorticai molti agnelli al Piga sempre, ma molto più quando era sindaco: credo che gli si regalassero per favoritismi».

Castiglia – «La seconda volta andai per assistere alla prima seduta del Consiglio che doveva dichiarar nulle le sue precedenti deliberazioni illegali. Ebbi in quella seduta una questione col consigliere Sanneris che voleva vedere il mio decreto ed io gli dissi: debbo star qui anche perché debbo praticare una inchiesta al Monte granatico. Riunii la Commissione e Sanneris non venne; quando incominciai l’esame dei bollettari ricevetti un telegramma del sottoprefetto che mi diceva di ripartire possibilmente in giornata per urgenti affari. Poi seppi che fui richiamato perché telegraficamente si ricorse contro di me al Ministero, al prefetto e sottoprefetto. Sanneris telegrafò all’udienza che mi avrebbe processato; poi si disse che la querela non si inoltrava più perché doveva partorire la Regina».

Villasanta – «Il Comune acquistò per £. 1.000 un tratto di terreno sulla strada di Gonnosfanadiga di proprietà del signor Anni, il quale poco tempo prima lo aveva acquistato per un prezzo molto inferiore. Una parte del terreno apparteneva alla moglie, una parte all’Anni, ed il Serra fece la perizia. Per parte della famiglia Anni appurai una usurpazione di circa 30 ettari di terreno in regione “Su tasuru”; questa fu perpetrata dal suo suocero e continuata; in questo terreno esisteva ed esiste tuttora una fonte. Questo fatto mi si disse risalirebbe a 27 o 28 anni. Non se ne occupò mai l’Amministrazione perché manca l’inventario dei beni comunali. Mi risultò che l’Anni faceva parte prima dell’Amministrazione Pinna Curreli e si distaccò perché risentito per l’affare del dazio consumo».

Frongia – «Fu nel 1905 aumentata la tassa focatico per la condotta medica. Il Consiglio Comunale deliberò nello scorso gennaio un voto di protesta contro le autorità superiori».

Villasanta – «Fu concesso in tre località comprese in Monti Mannu di 276 piante di leccio martellate a certo Sardu. Nel capitolato era stabilita la multa di £. 100 per ogni pianta tagliata senza martellare. Il Sardu lasciò 44 piante martellate e ne tagliò altre 37 senza martellare come mi affermarono le guardie, le quali però dichiararono che le 44 lasciate erano di poca importanza; altri testimoni mi dissero invece che ne tagliò altre 97 o 99. Le piante non martellate erano giovani e produttive».

Dolenti riflessioni

Un processo che sarebbe difficile definire se “del cortile” o “dei cortili”: per dire della pochezza del dibattimento, o all’incontrario della diffusione di una cattiva cura dell’interesse generale.

Che da noi ci fosse guerra di fazioni lo sappiamo: c’era stata la lunga stagione del contrasto fra il professor Todde ed senatore Loru. Entrambi poi se ne vennero qui, nel non tempo, l’uno nel ’97, l’altro, ben più anziano, l’anno dopo. Neppure i comuni esercizi accademici – nella facoltà di diritto, economista uno giurista l’altro, poi entrambi sullo stesso scranno di magnifico rettore –, e professionali nell’avvocatura, e amministrativi nella Municipalità del capoluogo o alla Provincia, erano riusciti a spingere l’uno a conciliazione verso l’altro. E non era certo questione di rinunciare ad esprimersi in libertà, ma quella almeno di non contrastarsi reciprocamente nelle occasioni forti, come accadeva alle elezioni. Figurarsi poi l’avvocato Fulgheri – a proposito: la biografia che ne ha scritto Salvatore Curridori dovrebbe essere adottata nelle scuole di Norbio come testo base per la ricerca della storia locale da parte dei ragazzi, ci avranno pensato i professori? –, l’avvocato Fulgheri com’era nella realtà invero neppure molto diverso da come Beppe ce lo ha rappresentato, e che io, che l’ho conosciuto di persona soltanto nel non tempo, ho ammirato quando da piccolo ne sentivo evocare il nome e le gesta, le iniziative come di un cavaliere che ci credeva.

Sempre ci siamo divisi a Parte d’Ispi, fra quelli di Ordena e quelli di Olaspri, ciascuno a sottolineare le virtù di Ruinalta o San Silvano, i limiti di Pontario. Soltanto in Cuadu ci siamo ritrovati, ché la guerra ci ha uniti, come comunità, nella paura e nella speranza, nei lutti e nei conforti che finalmente non ci siamo più negati l’un l’altro.

 

L’animo in Santa Barbara

Cidrese anch’io, nell’anno di grazia 1884, frequentai la messa domenicale e le lezioni della santa dottrina impartite da don Angelo Floris, e prima di lui da don Emanuele Sanna. A battezzarmi era stato dottor Sardu: pensa un po’, un prete che aveva avuto moglie, poi si era invedovato e aveva preso i voti. Maria Frazioli, la sua signora cagliaritana, era la sorella di Carmina. Conosci Carmina? La giovane e sfortunata moglie di Efisio Marini, il celebre medico pietrificatore dei cadaveri, una star della scienza internazionale di fine Ottocento, il medico detective dei romanzi di Giorgio Todde. Tutto ritorna.

 

Il mesto trionfo di Cuadu

Si avvicinava il mio ultimo momento. L’ottimo Martino – ne ho accennato prima – ha raccolto in volume, una volta, le mie corrispondenze alla Voce del Popolo. Sono pressoché tutte del 1915, dell’anno in cui l’Italia entrò nel conflitto che fu strage inenarrabile, ma non so se davvero “inutile” come la qualificò il papa Benedetto XV: perché comunque i nostri fratelli italiani di Trento e Trieste dovevano pur essere liberati dal gran carcere di Franz e Sissi.

E in quell’anno, alla fine di giugno, si costituì, anche a Norbio, il comitato di preparazione civile grazie all’iniziativa del pretore avvocato Oliviero Crespellani e di zio Salvatore Manno, divenuto vice ispettore scolastico, e anche di altri, del cancelliere Sechi e del ragionier Silvestro Dessì, e del collettore Scano, e del dottor Giua e dell’insegnante Melis. Scopo del comitato era quello di raccogliere i fondi per assistere le famiglie bisognose, tanto più quelle dei caduti e dei reduci inabili al lavoro.

Se ne raccolsero molte e rapidamente, di offerte. Il Comune deliberò 500 lire, ma più del doppio venne in poche settimane dalla gente qualsiasi, decine e decine di norbiesi parteciparono alla colletta, e anche la Cassa Rurale “Giuseppe Todde” con 75 lire.

Le maestre delle nostre elementari si organizzarono, per loro conto, dando vita a un ufficio di corrispondenza a disposizione dei parenti dei richiamati: scrivere ai loro congiunti al fronte, mariti e padri e figli…

Numerose donne di Cuadu si costituirono come sottocomitato dell’assistenza civile, con la presidenza a zia Vittorina Dore, la moglie dello zio sindaco Ignazio Cogotti, e vice Francesca Oppo, e chi partecipava veniva da famiglie e clan un tempo schierati gli uni contro gli altri. Si mischiavano i cognomi delle signore e signorine: Piga e Sechi, Cadoni e Pochino e Saba, Macis e Murgia e Anni, Congiu e Spano e Melis Fois…

Quanti ne erano partiti di nostri giovani, per il fronte. Anche da casa mia: Ignazio, Giuseppe, Beniamino, Paolo. Con Paolo, lo sai, avrei scambiato lettere fino quasi alla mia morte. L’hai pubblicata tu, con Martino, la mia lettera del 4 agosto 1917, in cui scrivevo di Ignazio combattente sui fronti occidentali tanto da poter «far rifulgere l’italo valore e la sarda intrepidezza in terra straniera» e dei prigionieri austriaci venuti a Norbio e che anche lo zio Pinna teneva occupati al Aletzi, mentre altri lavoravano qua e là, la parrocchiale inclusa, come ricorda anche monsignor Diana. Scrivevo anche della quarantina di nuovi richiamati, fra Castangias, Funtanedda e Sant’Antonio – le classi fra il ’76 e l’88 –, della messa alla Bassella, non della festa (causa la mancanza di «baldi cavalleggeri»), per San Sisinnio, della vendita della carapigna in piazza Zampillo…

Eravamo allora quasi all’ultimo tempo: vigilia di Caporetto per poi rimontare, lungo però tutto un anno lunghissimo anno, a Vittorio Veneto. Ma già dall’estate del 1915, a Cuadu, arrivarono notizie, erano le prime notizie: e la paura divenne presto pianto. Raimondo Cuccu di Francesco, Antonio Pontis di Sebastiano, Ignazio Vacca di Raimondo gloria ed onore!, erano non sono più, si disse, per non dire che erano morti.

E arrivarono presto anche i nomi dei feriti: Giovanni Ecca, Raimondo Orrù, Francesco Carta, Antonio Cherchi… Alcuni erano anche potuti tornare in licenza a casa, per la giusta convalescenza dalle ferite riportate al fronte, altri invece s’erano dovuti fermare in qualche ospedale del continente: Stefano Farris, Salvatore Vacca, Antonio Collu, Salvatore Sedda, Ignazio Madau il caporal maggiore…

Arrivò fra le prime anche la notizia delle ferite e della prigionia a Lubiana di Beniamino Cadoni, di tuo padre, o Efisio. Lo avreste riavuto però, Beniamino, a Norbio; e lo avreste avuto, un giorno, segretario fondatore della società bandistica, lo avreste avuto per lunghi anni depositario di quel gran nome biblico che ancora in un’altra generazione avrebbe onorato la tua casa, caro cugino. E penso a questo, adesso congedandomi.

Da poeta a poeta, senti qui: «C’è molta gente che / sa qualcosa: sa cos’è l’immaginazione, e sa / anche il significato. / C’è una cosa molto brutta, / il dolore. E sa cos’è».

«La vita che preparavo / l’hai conosciuta, per poco / – con te me stesso ingannavo – / e l’hai perduta, per giuoco. / … / Non sapevi, occhiridente, / che la favola è finita, / pensiero della mia mente, / o vita mia, senza vita».

 

 

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