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Settant’anni fa l’ordinazione di monsignor Giuseppe Melas, il vescovo missionario di Barbagia e Baronia; di Gianfranco Murtas

Posted By cubeddu On 23 settembre 2017 @ 07:02 In Blog,Chiesa sarda | Comments Disabled

Io non ho conosciuto, se non indirettamente, monsignor Melas ma a lui e alla sua memoria sono legato da numerose circostanze, sentimentali e di studio….

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fu consacrato vescovo, nella basilica di Bonaria ancora devastata dai bombardamenti del 1943, don Giuseppe Melas destinato da Pio XII ad occupare lo stallo episcopale di Nuoro (già diocesi di Galtellì-Nuoro) nel 1947, settant’anni fa. Le sue spoglie riposano a Santa Maria della Neve, la sua cattedrale, la chiesa più bella del mondo, secondo il verso, o la tenera definizione che ne dette una volta Vindice Satta, il figlio del grande Sebastiano, il poeta carducciano, socialista e forse ateo.

Io non ho conosciuto, se non indirettamente, monsignor Melas ma a lui e alla sua memoria sono legato da numerose circostanze, sentimentali e di studio – lo studio delle carte di curia cui mi aveva ammesso, quasi quarant’anni fa, l’indimenticato monsignor Pietro Maria Marcello, allora vicario generale e “grande vecchio” del presbiterio diocesano. Dovevo allora indagare sulla pacificazione fra i sardisti nuoresi del secondo dopoguerra e la diocesi cattiva, ingiusta e irriverente che negava i sacramenti – l’assoluzione nelle confessioni, ovviamente la comunione, i matrimoni in chiesa – ed i sacramentali – i funerali religiosi, le benedizioni delle case – agli elettori sardisti competitori avversari del Biancofiore. Drammatica la rottura ad Oliena, princeps il canonico Pietro Bisi, uomo di dottrina religiosa e schieramento profano. Ma gli abusi del clero, datati già dal 1943-44 e registrati anche alle stazioni dei carabinieri dei paesi nostri, dico di Campidano e Sarcidano e Gerrei ecc., non soltanto di Barbagia, furono numerosi e tanto più sgradevoli si appalesarono quando irrisero perfino alle disposizioni di legge, compartecipate da governo, Consulta nazionale e Luogotenenza fra 1945 e 1946. Una bellissima testimonianza scritta della poetessa oranese Marianna Bussalai, inviata all’onorevole Pietro Mastino con la data del 10 giugno 1946, costituisce un documento prezioso come pochi di quella temperie (l’ho pubblicato integralmente nel contributo “La bandiera, lo scudo e l’aspersorio. Dalla parte dei Quattro Mori” in Questione Sarda e dintorni, a cura di Alberto Contu, Cagliari, Condaghes 2012, ma mi ci sono intrattenuto anche in altri lavori mirati all’esplorazione del mondo sardoAzionista, alle relazioni cioè, segnate dal condiviso antifascismo, fra il sardismo e l’azionismo dei Lussu, Parri e La Malfa).

 

I sardisti avevano ragione, quei sardisti – naturalmente niente hanno a che fare con essi, operai e capimastri ideali della neonata e sofferta Repubblica italiana, i sardisti di oggi, di tutt’altro lignaggio etico-civile e politico – avevano ragione e rivendicavano la netta distinzione fra Dio e Cesare, ancora estranea al vocabolario mentale di tanta parte del clero in esercizio nelle curie e nelle postazioni parrocchiali.

Melas, uomo evangelico pur se anche lui legato ovviamente al suo tempo e condizionato o tirato dalle opposte pulsioni dei clericali/democristiani di maggioranza e della segmentata società ecumenica (quella che distingueva, appunto, fra la messa e il voto politico), rimediò. Avrebbe rimediato anche ad altre tenzoni, a faide addirittura che opponevano delittuosamente perfino paese a paese di quella Barbagia che gli era stata affidata come terra di missione… La voglio dire tutta però: rimediò al contenzioso fra PSd’A e parrocchia, in quel d’Oliena, soltanto dopo che la vittoria democristiana del 18 aprile 1948 aveva tranquillizzato tutti, depotenziando la miccia sardista: basti leggere la lettera inviata al can. Bisi il 26 ottobre 1947, per mostrare quanto anche le valutazioni del vescovo – a Nuoro da pochi mesi – fossero ancora condizionate dalle logiche della Chiesa intesa come “societas perfecta”, quale essa non era, non poteva essere e non è mai stata. Lo dimostrano i giudizi del tutto artificiosi (ed anche ipocriti) espressi prima di quel famoso voto politico, circa le formazioni in gara nella disputa della maggioranza elettorale.

In ordine alle pacificazioni sociali per le quali il presule spese il meglio delle sue energie, ricorderei soprattutto quella di Orgosolo, giusto all’inizio del 1953. Allora, come egli ben scrisse suggellando l’epifania di quell’anno, «alla presenza di tutte le Autorità della Provincia, e di un grandissimo numero di orgolesi, uomini e donne, grandi e piccoli, nel tripudio di una giornata piena di sole, pur nel rigore dell’inverno, i membri del Comitato, scelti fra tutte le famiglie, in numero di cinquanta, hanno solennemente giurato nel Crocifisso promettendo “di bene e fedelmente operare al fine di garantire l’osservanza di quanto stabilito dallo statuto dell’Associazione per il bene del paese”».

 

Il vescovo-padre di don Ottorino Pietro Alberti

Fu, Melas, il vescovo che seguì da presso la vocazione religiosa di Ottorino Pietro Alberti, classe 1927, scout e parrocchiano attivo in duomo da ragazzo, al tempo del ginnasio e del liceo Asproni, poi dottore in agraria laureatosi a Pisa nel 1952, e quindi studente alla Lateranense e prete ordinato a Santa Maria della Neve nel 1956, il 18 marzo, e per tre anni collaboratore del suo vescovo ed insieme insegnante ora di religione al prestigioso e familiare Asproni, ora di estimo al nuovo istituto per geometri, come a dialogare insieme con i due mondi, quello umanista e quello tecnico, distinti e all’apparenza anche distanti. Me ne parlava don Ottorino, di monsignor Melas, come di una solennità datasi in pasto alla carità, e con quel vescovo dalle mille esperienze e dalla profonda spiritualità egli rimase in stretto contatto nei quattro anni in cui si tennero le sessioni conciliari, giovannea la prima, paoline le altre tre, a San Pietro dell’urbe.

Allora il solenne ed umile monsignore che nella missione nuorese aveva portato il suo solido background cagliaritano, fu fra i più attivi, della compagine episcopale sarda, nelle discussioni della plenaria. Tonino Cabizzosu ha dato il conto preciso, non soltanto numerico, ma soprattutto qualitativo, dei suoi interventi (ne dirò poi) e io stesso, nel lavoro sui rapporti fra papa Roncalli e la Sardegna, pubblicato ormai molti anni fa, ho fatto la mia parte.

Direi ancora, riferendomi sempre alla relazione Alberti/Melas, che proprio all’indomani della scomparsa del presule don Ottorino dedicò, su L’Ortobene – il n. 18 del 1970 – un lungo articolo titolato “La partecipazione di Mons. Melas al Concilio Vaticano II”. Ma invero già alla vigilia della prima convocazione egli non aveva mancato di inviare da Roma i suoi contributi (una decina lungo tutto il 1962) al giornale diocesano che era stato fondato dal vescovo (poi cardinale) Maurilio Fossati ed era diventato per alcuni anni, grazie al vescovo Giuseppe Cogoni e ad un laico credente di grande personalità come Salvatore Mannironi (Ospitone il suo pseudonimo), una voce relativamente libera (e perciò sorvegliata) dal fascismo, associando così alla riserva sardista/repubblicana dei Mastino, degli Oggiano e dei Pinna, a quella socialista dei Satta Galfrè ed a quella comunista, anche quella cattolica. Furono articoli, quelli di don Ottorino, che puntavano a dire del Concilio Vaticano I come fu vissuto dai tre soli vescovi sardi del tempo, fra i quali il suo amato Salvator Angelo Demartis (un carmelitano sassarese mandato da Pio IX a Nuoro nel 1867 ed inviso a Giorgio Asproni), e in generale della storia teologica e canonica dei concili.

A Melas egli poi dedicò la sua prima opera: I Vescovi Sardi al Concilio Vaticano I. Un libro uscito nel 1963 sotto gli auspici della Regione Sarda per i tipi della Libreria Editrice Lateranense, di certo opinabile in molte delle sue tesi, ma indubbiamente prova di ingegno e capacità di ricercatore dell’autore: «A S. E. Rev.ma Mons. Giuseppe Melas, Vescovo di Nuoro e agli Ecc.mi Presuli dell’Episcopato Sardo». Allo stesso presule dedicò, nel 1967, un altro suo lavoro di grande impegno ed originalità, anch’esso editato dalla Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Il Cristo di Galtellì: «A S. Ecc.za Rev.ma Mons. Giuseppe Melas Vescovo di Nuoro nella fausta celebrazione del Suo XX di Episcopato».

Su L’Osservatore Romano del 18 ottobre 1970 commemorò il suo vescovo deceduto da appena qualche settimana, il 10 settembre: “Nel trigesimo della morte del vescovo di Nuoro mons. Giuseppe Melas”. L’articolo fu poi ricompreso nella miscellanea Scritti di storia civile e religiosa della Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1994.

Aggiungerei ancora, in questo ripasso velocissimo, le parole di don Ottorino, fatto ormai arcivescovo-vescovo delle chiese unite di Spoleto e Norcia, in occasione del convegno che nel 1979 celebrò il duecentesimo anniversario della diocesi di Nuoro dalla ricostituzione per volontà di papa Pio VI, il papa che sarebbe stato fatto prigioniero da Napoleone ed esiliato in Francia a fine secolo.

Ecco le parole di Ottorino Pietro Alberti – toccante testimonianza personale – a conclusione della sua relazione “I duecento anni di storia della diocesi di Nuoro dalla ricostituzione della diocesi di Galtellì-Nuoro 1779-1979”, al convegno promosso da monsignor Giovanni Melis Fois ed i cui atti furono pubblicati in Pacificazione e Comunione, a cura di Rosario Menne, dalla Stamperia Artistica Sassari nel 1982:

«Mons. Felice Beccaro… nel 1946 fu trasferito alla diocesi di San Miniato e fu chiamato a succedergli Mons. Giuseppe Melas, nominato da Pio XII con Bolla del 31 gennaio 1947.

«Ormai il mio racconto non è più storia, ma cronaca, della quale gran parte di voi che mi ascoltate siete stati non solo spettatori, ma anche interpreti. E vi confesso che il mio discorso mi viene più difficile, perché sento di non poter raccogliere in una sia pur rapida sintesi le vicende che hanno intessuto la vita di Colui che è stato il Padre del mio sacerdozio e nel celebrare il quale mi sento tentato di farne un’apologia, piuttosto che una rievocazione distaccata ed oggettiva.

«A far rivivere la figura di questo Vescovo è preferibile che ognuno scopra nella propria memoria e in fondo al cuore i ricordi che Mons. Melas ha lasciato di sé. La dolce e cara immagine paterna di Mons. Melas è certamente presente in quanti anche per una sola volta l’hanno avvicinato o l’hanno ascoltato e son certo che su ogni altra immagine, che di lui ci si è potuti fare, s’imponga quella del Padre buono.

«Dal 1° giugno 1947, giorno in cui fece il suo ingresso a Nuoro, egli ha dedicato tutta la sua vita, il suo coraggio, la sua saggezza, la sua amichevole comprensione al progresso spirituale dei suoi figli. Poiché credeva nella dignità degli uomini e nella loro fratellanza dinanzi a Dio, fu un ardente sostenitore delle loro speranze e delle loro aspirazioni più profonde. E nel perseguimento dei fini propri del buon pastore, egli ignorò qualsiasi sacrificio personale per quanto grande potesse essere e preferì soffrire anziché far soffrire. E solo Dio sa quante lacrime son sgorgate dal suo cuore, chiuso nel pudore di una sofferenza che solo al Signore doveva essere nota.

«Fu un grande vescovo perché fu un grande uomo, le cui virtù e le cui caratteristiche erano davvero proporzionate alle dimensioni dei difficili tempi in cui visse ed operò.

«L’acutezza e la sensibilità del suo di giudizio sulle persone e sulle cose, la delicatezza del suo modo d’agire, sono altrettante – e non le sole – qualità che lo sostennero nel suo governo pastorale, nei cui atti si sentiva l’uomo convinto, profondamente religioso, consapevole della lotta drammatica che la società contemporanea viveva e vive.

«Ben a ragione poteva scrivere Mons. Salvatore Delogu, allora Vicario Capitolare: “Egli è stato per tutti il Pastore buono, il Padre affettuoso, l’Amico vero. Questo il giudizio sereno nel popolo, di quell’umile gente che lo ha avuto guida e consigliere intelligente e generoso, di quanti sofferenti nell’anima e nel corpo, hanno trovato in lui il conforto e la speranza, la forza e la gioia, per guardare ancora alla vita e per superare, di essa, le pene, gli affanni e le difficoltà”».

 

Fra i nove episcopati nel segno di Maria di Bonaria

Invitato dai padri mercedari e dal comitato per il centenario Santuario Basilica N.S. di Bonaria, di cui fu parte eccellente il giornalista Mario Girau, partecipai fra il 2007 e il 2008 all’opera collettanea Ecce Sardinia Mater tua 1908-2008, un bellissimo volume fuori commercio che donato a papa Benedetto XVI nel centenario della proclamazione di Nostra Signora di Bonaria Patrona Massima della Sardegna. Partecipai con un contributo che nelle mie intenzioni valeva anche come ponte fra l’anima secolare della Chiesa diocesana e quella religiosa e mariana appunto tutta mercedaria e bonarina. Consegnai così le biografie dei nove vescovi che dal 1934 al 2006 scelsero di essere consacrati nella basilica mariana per eccellenza della Sardegna. Fra essi appunto monsignor Giuseppe Melas.

Tutte le carte consultate – e non furono davvero poche! – portarono una sola incertezza al tavolo di redazione: se delle nove, proprio quella di Melas, potesse anch’essa includersi nell’elenco basilicale o se invece, per necessità legate alle rovine belliche della maestosa basilica, si fosse dovuti riparare eccezionalmente, quella volta, nel santuario. Non potei risolvere allora il dubbio e lasciai la questione piuttosto in sospeso, propendendo per il santuario. E invece così non era: e potei accertarmene purtroppo soltanto dopo la pubblicazione del lavoro. Quindi scrissi a L’Eco di Bonaria, pro corrigendo, ma mi si rispose non ne valesse la pena, non trattandosi di vero errore o di errore sostanziale.

L’occasione adesso del 70° di quella consacrazione episcopale e dell’inizio di una missione apostolica di alto rilievo per la trentina di comunità della provincia di Nuoro – fra cuore nuorese, Barbagia di Ollolai e Baronia – protrattasi fino al 1970, dunque ben 23 anni, mi ha suggerito di rievocare adesso la biografia di don Melas e, in forma certa e pubblica, correggere l’improprietà di cui ho detto.

Ripropongo dunque questo testo poco conosciuto, data la circolazione avvenuta fuori dai canali delle librerie ordinarie, lasciando a mò di introduzione i paragrafi d’apertura del contributo offerto a Ecce Sardinia Mater tua 1908-2008, che possono aiutare ad inquadrare ulteriormente, con maggiori specificazioni, personalità e fatiche del vescovo all’interno delle vicende ecclesiali sarde del Novecento ed anche di quel centro di spiritualità costituito dal complesso mercedario cagliaritano.

 

Molti uomini per una stessa missione

Oggetto del presente contributo è la sequenza delle consacrazioni episcopali avvenute all’altare della grande basilica di Nostra Signora di Bonaria in Cagliari. Si tratta, in particolare, della promozione apostolica di sacerdoti sardi (o di ministero nell’Isola, come fu il caso proprio del superiore mercedario padre Adolfo Ciuchini) inviati dalla Santa Sede al servizio di comunità diocesane non soltanto della Sardegna ma anche del continente (come accadde per don Paolo Carta, mandato a Foggia).

La lista si apre con don Igino Maria Serci – nipote dell’arcivescovo di Cagliari (e ordinario già di Ogliastra ed Oristano) Paolo Maria Serci-Serra (1827-1900, prete dal 1849, vescovo dal 1871, presule di Cagliari dal 1893) – e si conclude con don Mosè Marcia, che nel 2006 associò al ministero episcopale l’ufficio di vicario generale della maggior archidiocesi della regione conciliare. Nel mezzo ecco, in successione, il già evocato padre Ciuchini ed i sacerdoti diocesani Francesco Cogoni, Giuseppe Melas, Paolo Carta, Tarcisio Pillolla, Antonino Orrù e Antonio (Ninetto) Vacca.

Una premessa valga a focalizzare la novità dell’evento tante volte ripetuto nell’arco, dunque, di sette decenni. Perché era stata prassi, per lo meno a Cagliari, che le consacrazioni episcopali avvenissero sempre in duomo, talvolta anche per gli uffici precedenti ricoperti fin lì dai candidati (nella parrocchia di Santa Cecilia, nel Capitolo metropolitano o nella Curia). Per restare soltanto al primo Novecento, si ricordino i casi di don Luca Canepa – vicario generale, e già vicario capitolare – promosso nel 1903 alla suffraganea di Galtellì-Nuoro; di don Raffaele Piras, vicario generale anch’egli, inviato nel 1906 come vescovo a Penne ed Atri in Abruzzo (sarà successivamente preconizzato arcivescovo all’Aquila, ma la morte interromperà anzitempo la sua missione); di don Saturnino Peri e don Francesco Emanuelli – parroco della cattedrale il primo e rettore del seminario il secondo, inviati rispettivamente a Crotone di Calabria (1909, per essere quindi trasferito ad Iglesias) e ad Ales (1910, per un ministero che sarà più che trentacinquennale); così come quegli altri del 1927 e del 1931 di don Giuseppe Maria Miglior e don Giuseppe Cogoni, entrambi (evidentemente in successione) vicari dell’arcivescovo Piovella, mandati a capo l’uno della Chiesa di Ogliastra e l’altro a quella ancora di Nuoro (che nel frattempo aveva perduto la contitolarità di Galtellì).

Prima di passare alle schede biografiche particolari dei nove presuli, sembra interessante rilevare alcuni elementi di identikit comuni fra di loro. In primo luogo è la provenienza: fatta eccezione per padre Ciuchini, laziale di Gradoli (Viterbo), essi sono tutto campidanesi, nativi di quelle subregioni economiche e storico/identitarie della vasta pianura che si stende in asse fra Cagliari ed Oristano da cui è venuto, negli ultimi due secoli, il maggior apporto alle classi del seminario e poi ai ranghi del clero secolare. Quasi come cartina di tornasole della più diretta e spontanea consentaneità degli ambienti rurali, tradizionalmente “bianchi”, ai valori spirituali e sociali della Chiesa e alle formule anche pedagogiche praticate all’ombra dei campanili. Ecco così, nella progressione temporale, l’hinterland del capoluogo (Nuraminis, Quartu Sant’Elena, Sinnai e San Sperate: sono Serci, Cogoni e Vacca, Orrù, Marcia), la Trexenta (Guasila e Pimentel: si tratta di Melas e Pillolla) od il Parteolla (Serdiana: riferimento a Carta).

Un secondo dato comune è l’età: la fascia anagrafica coinvolta (al momento della nomina) è quella, peraltro tradizionale ed opportuna, che contiene e giustifica le più varie esperienze sacerdotali condotte nel pregresso e ritenute utili ad un fecondo servizio episcopale, ma anche portatrice di un potenziale in parte ancora inespresso. I più giovani sono Cogoni, Melas e Carta – promossi rispettivamente a 45, 46 e 48 anni –, i più anziani Orrù e Marcia, a 62 e 63 anni. Nel mezzo gli altri: Serci (50), Pillolla (56) Ciuchini (58) e Vacca (59). Tutti, come si diceva, forti di almeno un ventennio di pratica pastorale che ne ha affinato il talento propriamente sacerdotale e, con esso, le attitudini a dar corpo e storia al carisma peculiare del vescovo, che più e prima del leaderismo s’esprime nel dinamismo dell’unità comunionale.

Interessante è il mix, presente in pressoché tutte le biografie, fra diretta esperienza parrocchiale, o in cappellania o nell’assistentato a gruppi – nella direzione spirituale cioè e nell’amministrazione dei sacramenti (con quanto l’accompagna) –, e pratica di Curia: così se don Cogoni e don Melas sono – al momento della nomina – cancellieri arcivescovili e però (il primo) anche professore in seminario (non soltanto di teologia ma anche di matematica e scienze) oltreché assistente ecclesiale di vari rami dell’Azione Cattolica, ed il secondo docente liceale ed altresì assistente degli universitari, don Pillolla e don Marcia sono rispettivamente vicario generale (e già anche lui cancelliere e, prima ancora, direttore del settimanale diocesano, ma anche vice parroco, professore ed assistente ecclesiastico) e – il secondo – economo della diocesi (e già rettore del seminario minore, ma anche già parroco e assistente dell’ACR). Anche don Orrù combina bene attività parrocchiale a incarichi settoriali di vertice, soprattutto in materia di nuove chiese e di pastorale del turismo. Spesi sul piano quasi soltanto del sacerdozio di “trincea” sono invece don Carta, che è cappellano militare, e don Vacca, parroco di lunga lena, fra entroterra e città capoluogo; oltreché, s’intende, il solo religioso del novero, padre Ciuchini, parroco di Bonaria in abbinata con il superiorato conventuale (e già però responsabile d’alta quota nel governo della sua Famiglia mercedaria). Anche essi, peraltro, non mancano di vantare esperienze overplace: don Carta è stato, oltreché docente all’Industriale e al Nautico, direttore del pensionato studentesco di Cagliari e della tipografia di via San Lucifero, ed assistente della GIAC (al posto di don Cogoni neovescovo di Ozieri); don Vacca ha diretto per anni l’Opera diocesana degli esercizi spirituali; padre Ciuchini ha coperto posizioni di governo nel suo Ordine.

Un’ulteriore, e soltanto all’apparenza curiosa (e comunque non rara), nota condivisa è quella che associa tre degli otto preti diocesani: vale a dire l’esperienza, maturata particolarmente nei primi anni di sacerdozio, di segretario particolare del (o di un) vescovo. E’ quanto è capitato a don Cogoni con monsignor Rossi (fra Cagliari e Ferrara), a don Melas con l’ordinario di Lanusei Miglior, a don Marcia con l’arcivescovo Bonfiglioli.

 

Il polo bonarino nella spiritualità diocesana

Si deve certo ad una consolidata affezione mariana propria del mondo latino, italiano e sardo, se sono relativamente numerosi i sacerdoti isolani i quali, chiamati all’episcopato nel corso del Novecento, hanno scelto la grande basilica mercedaria per la propria consacrazione. Certamente per i primi di loro deve aver contato quell’insieme di spunti dati dalla devozione popolare da cui sono stati avvolti fin da piccoli all’interno di famiglie e classi di catechismo parrocchiale, così come dalle linee teologiche approfondite nei corsi di studio in seminario. L’eco resistente del grande evento del 1908 ha certamente fatto il resto, unendo ancor più la mistica mariana alla devozione particolare alla Vergine di Bonaria.

Per gli altri – quelli della leva recente –, sicuramente un altro motivo si è aggiunto, attinto dal Concilio e dall’insegnamento mariano dei pontefici moderni, da Paolo VI – del quale tanto spesso a ragione si richiama il monito, variamente declinato, del «per dirci cristiani non possiamo non dirci mariani», pronunciato a Cagliari in occasione della sua celebre visita dell’aprile 1970 – a Giovanni Paolo II, con il suo motto «Tutus tuus» e l’intero suo magistero.

Se poi, esplorate le somiglianze, si volessero trovare anche i motivi di distinzione, le peculiarità di ciascuna storia (intendo l’elezione e la liturgia cantata nella grande basilica), pur quasi soltanto come curiosità statistica, se ne potrebbe dire… Perché alla prima – Serci –, datata aprile 1934, ben potrebbe riconoscersi il valore dell’innovazione d’una prassi: non più la cattedrale, ma la maggior chiesa mariana dell’Isola.

La singolarità dell’evento del 1939 – Ciuchini, Cogoni – è nell’abbinata dei consacrandi all’altare. Quasi un’anticipazione, almeno in Sardegna, della dimensione comunitaria affermata dal Concilio negli anni ’60 (leggi le concelebrazioni).

La solenne cerimonia del 1947 – Melas – sembra imporsi come momento di riscatto e speranza, alla fine della tragica guerra i cui segni sono presenti anche nell’area della basilica.

Quella del 1955 – Carta – potrebbe vedersi – per la destinazione pastorale del nuovo vescovo – come ideale ponte, appunto nel segno mariano, fra la Chiesa isolana e quella del continente.

Le tre consacrazioni che si succedono fra il 1986 ed il 1993, pur associate fra loro da un’evidente tensione positiva della Chiesa cagliaritana (e per essa degli arcivescovi Canestri ed Alberti, …accreditati, anche in ragione dei loro trascorsi uffici, presso la Congregazione dei Vescovi), marcano anch’esse motivi di distinzione. La prima – Pillolla –, dalla valorizzazione dell’ufficio del vicario generale nel contesto di una diocesi dal territorio vasto e morfologicamente, oltreché socialmente, segmentato. La seconda – Orrù –, dalla urgenza di “esportazione” di uno speciale talento operativo in una diocesi sì piccola ma storicamente composita e afflitta più di altre da emergenze occupazionali e di sviluppo economico. La terza – Vacca –, dalla ravvisata opportunità di procedere con maggior celerità e senza impaccio di “interessi” particolari, al consolidamento dell’unificazione, nella persona del vescovo, di due Chiese diocesane antiche e radicate.

L’ultima e recente (datata 2006) – Marcia – riporta anch’essa, come quella di giusto vent’anni prima, ad un’esigenza di razionalizzazione (o distribuzione) del lavoro in capo all’arcivescovo metropolita, sia per le dimensioni territoriali della giurisdizione sia per le incombenze legate alla presidenza della CES (allora pur soltanto prevista).

 

La mitria sul capo di un guasilese

La promozione del guasilese can. Giuseppe Melas, cancelliere arcivescovile a Cagliari, è la prima di una sparuta serie che interessa l’episcopato sardo nel secondo dopoguerra (comprendendo in esso anche quei pochi nomi – da don Agostino Saba a don Antonio Angioni – destinati, almeno in prima istanza, a diocesi della penisola, dove peraltro essi già vivevano). Essa avviene nel concistoro del 31 gennaio appunto del 1947 (ma se ne avrà notizia soltanto nella primavera successiva), quando Pio XII trasferisce a San Miniato, in Toscana, don Felice Beccaro, presule a Nuoro da ormai otto anni.

Don Melas è il sesto presbitero dell’archidiocesi proposto all’episcopato da monsignor Piovella, dopo Giuseppe Miglior (1927, inviato a Lanusei), Giuseppe Cogoni (1931, per la sede di Nuoro, successivamente trasferito ad Oristano), Igino Maria Serci (1934, destinato ad Ozieri), Adolfo Ciuchini (1939, per Alghero) e Francesco Cogoni (1939, pure lui per Ozieri).

Quando riceve la notizia della nomina, don Melas (classe 1901, 13 ottobre) ha 46 anni ed è prete da quasi 21. Iscrittosi al seminario di via Università quasi in coincidenza con l’entrata dell’Italia nella grande guerra – evento che vedrà un largo e costante impegno assistenziale della Chiesa locale al tempo guidata dall’arcivescovo Francesco Rossi –, ne è uscito nel giorno dell’Assunta del 1926 con l’ordinazione ricevuta, per mano di monsignor Piovella, a Guasila, nella bella chiesa in cui è stato battezzato e che reca, come il duomo ozierese, il marchio architettonico del Cima.

Dottore in sacra teologia (s’è laureato giusto un mese prima dell’ordinazione), è stato assegnato come vice parroco a Serramanna – parrocchia di San Leonardo –, da dove si è allontanato due anni dopo per incardinarsi, in via straordinaria, nella suffraganea di Lanusei, onde assistere, come segretario, il nuovo vescovo Giuseppe Miglior, da lui ben conosciuto per le precedenti funzioni di vicario generale di Cagliari.

Alla morte del vescovo ogliastrino è rientrato a Cagliari, iscrivendosi presso la nuova facoltà di Lettere del capoluogo. Qui si laureerà nel 1934 con una tesi sulla storia dei domenicani in Sardegna.

Per quasi un lustro, dal dicembre 1935, ha svolto un fecondo parrocato a Senorbì di cui ha scritto diffusamente Antioco Piseddu, nel suo Senorbì, note per una storia (Cagliari, TEA, 1982). Restaurò l’antica e pregevole parrocchiale dedicata a Santa Barbara, purtroppo caduta in un grave degrado delle sue strutture, ed a tanto riuscì – a fronte dell’inascolto da parte delle pubbliche autorità – mobilitando l’intera popolazione con un gran numero di iniziative particolari ed originali, per lo più legate alla condizione rurale del paese (per cui si andò dalla raccolta e vendita delle uova dei pollai domestici alla “settimana delle fave”, alla “festa della spiga”, alle lotterie e pesche miracolose, alle esibizioni teatrali o proiezioni cinematografiche, ecc.). Si coprirono così integralmente le spese, ammontate a 65mila lire complessive, quando il contributo del Municipio si limitò ad una quota quasi marginale…

Né ovviamente si trattò soltanto di riparare la “casa comunitaria”, quale doveva intendersi la parrocchia comunale. Quelli trascorsi a Senorbì furono anzi anni di continua partecipazione popolare tanto alle iniziative di promozione della cultura religiosa e preghiera comunitaria, come avvenne con la collocazione delle stazioni della Via Crucis nei vari rioni del paese, quanto ai fervorosi pellegrinaggi, come fu quello per la canonizzazione, nel 1938, di San Salvatore da Horta.

Presagio di quel che sarebbe avvenuto, o preparazione di questo, fu l’erezione, nella rinnovata parrocchiale senorbiese, di un altare dedicato alla Vergine di Bonaria. Era il 1937.

Nel 1939 l’arcivescovo Piovella lo chiamò a succedere al can. Francesco Cogoni (nel frattempo inviato vescovo a Ozieri) nella cancelleria arcivescovile.

Assumendo il nuovo incarico, egli riprese e sviluppò anche il lavoro di docente tanto nelle scuole pubbliche (liceo Scientifico) quanto nel seminario, a Castello (dove fu direttore spirituale per lunghi anni), offrendo anche l’assistenza ecclesiale ai giovani della FUCI.

Al novero del suo variegato apostolato aggiunse pure una presenza di livello almeno in altri tre ambiti: come cappellano dell’Istituto San Giuseppe, come notaio del Tribunale ecclesiastico regionale, come direttore diocesano delle Opere missionarie. Il tanto da meritare un riconoscimento di valore e una chiamata ed una ancor più grave missione: appunto l’episcopato.

Venne consacrato domenica 13 aprile, nel 40° della proclamazione della Vergine di Bonaria a Patrona massima della Sardegna, nel santuario però, non nella basilica (tanto deve desumersi – contraddicendo quanto riportato da tutta la stampa che dell’evento si è occupata pur in estrema sintesi – dalla sostanziale inagibilità del maggior tempio). Presule consacrante l’arcivescovo Piovella, e con lui i vescovi di Ozieri, Francesco Cogoni, e di Lanusei, Lorenzo Basoli. Un rito solenne, secondo l’antica liturgia, cominciato poco dopo le 9 e protrattosi per l’intera mattinata.

Destinato, come detto, a Nuoro, raggiunse la sua sede domenica 1° giugno, accolto alla periferia estrema della diocesi da alcune rappresentanze del Capitolo e del presbiterio ed in città, davanti al palazzo degli Impiegati, dal sindaco e dalle altre autorità civili, oltre che dall’intero corpo canonicale. Indossate le vesti paramentali, s’inoltrò, con il clero secolare e religioso diocesano e con le ampie rappresentanze di tutti gli istituti e le associazioni parrocchiali, alla volta della cattedrale di Santa Maria della Neve, transitando per la centralissima via Lamarmora e poi per la via Majore, il corso Garibaldi cioè, tra ali di folla plaudente.

Suffraganea di Cagliari, la diocesi barbaricina (associante nella sua giurisdizione anche le Baronie) era stata per larga parte nel primo cinquantennio del Novecento governata da vescovi provenienti dalla metropolitana: dal 1903 al 1922 don Luca Canepa, dal 1931 al 1939 don Giuseppe Cogoni. (Meno duraturi ma certamente fecondi anch’essi, furono gli episcopati anche di monsignor Fossati, prossimo cardinale di Torino, fondatore de L’Ortobene, e di don Beccaro). Egli proseguiva dunque questa cordiale offerta, della Chiesa maggiore alla minore, di energie pastorali e di governo canonico. Se ne vedranno i frutti fino al 1970.

Il suo maggior biografo – il nuorese Ottorino Pietro Alberti – lo descrive nella quotidianità del suo fare, abilmente e, può dirsi, naturalmente inserito da subito nella complessa e peculiare realtà locale, tutto all’insegna del motto «carità e servizio». Scrive Alberti (cf. L’Osservatore Romano del 18 ottobre 1970): «avvertì che, soprattutto per un vescovo, la superiorità è servizio, e il comando non è arbitrio, ma… atto di ubbidienza alle leggi eterne della Verità e della giustizia». Sicché «Egli amò e servì con assoluta dedizione le anime che la Provvidenza gli aveva affidato».

Di animo intimamente «semplice e buono» – sono ancora parole del suo biografo, che con lui visse in grande confidenza per molti anni –, fu esempio e stimolo al presbiterio diocesano affinché anch’esso considerasse prioritari «i valori personali, umani e cristiani» da promuovere, nella concretezza dell’apostolato sacerdotale, attraverso «l’esempio della fede della vita cristiana», con un supplemento mistico: quello della «sovrabbondanza di vita interiore che si sarebbe riversata sulle anime».

Sensibilissimo alle necessità vocazionali, stimolò costantemente l’appoggio di tutte le parrocchie al seminario diocesano e a quell’opera diffusa e discreta che da ogni comunità avrebbe potuto trarre giovane clero. E per favorire il «buon raccolto», nella convinzione che una valida preparazione fosse preannuncio di militanza, avrebbe indetto frequentemente i congressi catechistici: occasione anche di selezione ed incoraggiamento ai ragazzi di giocare la carta del seminario. Sarebbero stati ben 72 i giovani da lui ordinati al presbiterato, con una media di oltre tre all’anno! E due decine le parrocchie urbane ed extraurbane da lui fondate. Per non dire del gran numero di circoli dell’Azione Cattolica, sempre seguiti nella loro affermazione sul territorio e nella loro dimensione di rete laicale.

Nell’arco dei 23 anni di suo ministero avrebbe compiuto ben 5 visite pastorali, godendo della conoscenza personale delle comunità parrocchiali.

Uomo del suo tempo, condivise con gli altri vescovi della regione conciliare sarda e dell’intera Conferenza Episcopale Italiana una forte diffidenza verso quelle che la sua formazione considerava fonti di pericolo alla dottrina e alla vita morale privata e pubblica.

 

Quella volta, con il Partito Sardo d’Azione

Uomo di pace – e quanto più necessitava una tal tempra all’indomani degli sconvolgimenti bellici, quando all’unità sostanziale delle forze sociali e politiche doveva affidarsi la ricostruzione morale e materiale della nazione! –, rimonta quasi ai suoi esordi nuoresi la ripristinata concordia della Chiesa locale con il sardismo. La cosa avvenne nell’estate del 1948, dopo un triennio di pesanti mutue incomprensioni proprio nel cuore della Barbagia, quando si arrivò, da parte del clero, perfino a negare i sacramenti ai militanti del Partito Sardo d’Azione (oltreché del socialismo e del comunismo).

Il direttorio provinciale del Partito Sardo d’Azione venne invitato a una solenne funzione nella parrocchiale di Oliena, cui parteciparono, con il parroco can. Bisi, due delegati vescovili. Gli ex avversari, anzi nemici, si strinsero le mani, in una solenne liturgia celebrata all’altare. (E peraltro alcune delle fondamentali ragioni dello scontro erano nel frattempo venute meno: le elezioni politiche del 1948, conclusesi con il grande successo della lista democristiana, avevano disinnescato l’“aggressiva paura” che gli uomini del Biancofiore e il clero che li supportava, tanto più nelle aree rurali, avevano lungamente nutrito della concorrenza sardista).

Ma al di là delle tensioni ideologhe che pur marcavano il dibattito politico e giornalistico nel Nuorese, era alla questione sociale – leggi alle condizioni di vita delle popolazioni rurali (e dei ceti operai) ed alla piaga annosa del banditismo – che il nuovo monsignore, nell’arco di quasi un trentennio, pose le sue maggiori attenzioni. Né mai smise di invocare un’adeguata presenza dello Stato, in chiave certo non soltanto repressiva ma anzi soprattutto di promozione dell’economia per la difesa oltretutto, dell’unità delle compagini familiari, esposte al perenne rischio della disoccupazione e addirittura della emigrazione. Occorreva lottare contro lo spopolamento delle campagne e la precarietà di vita che i nuovi processi sociali avviati, fra la crisi dell’agricoltura e un’industria che tardava ad affermarsi (per rivelarsi successivamente un semifallimento), avevano imposto o non avevano saputo arginare.

In una ricca casistica, che meriterebbe un raccoglitore/raccontatore, sono i suoi interventi, diretti e personali, oppure mediati da uomini di sua fiducia, per risolvere in bene vicende di violenza e perfino di sangue che tempestarono la cronaca nuorese anche nei decenni del suo apostolato. Come pure era capitato a uomini di Chiesa dell’Ottocento (si ricordi, a tal proposito, il Varesini), spese energie personali, talvolta forse anche a rischio di incolumità, per strappare la pace fra famiglie e clan in atavico e bruciante contrasto.

«Sua grande dote – ha scritto ancora l’Alberti – fu la capacità di vedere l’uomo dall’interno, quando si era abituati ad ascoltarlo e a giudicarlo solo dall’esterno; e ciò gli permise di leggere nel fondo di tante anime la miseria e la disperazione, quali cause di ribellione e di misfatti». (E fu forse anche per questa attitudine ad entrare profondamente nella umanità dei più sfortunati che egli, al termine di una difficile mobilitazione delle energie ecclesiali e civili, strappò all’ingiusto ergastolo un detenuto innocente che rispondeva al nome di Antonio Satgia).

Partecipò al Concilio Vaticano II e fu, tra i pastori sardi, uno dei pochi – con Paolo Carta e Antonio Tedde – a tenere costantemente aggiornati i propri diocesani, con lunghe lettere da Roma pubblicate sul giornale di Curia.

Amante del latino, non evitava l’approccio in sardo: lui campidanese s’era fatto barbaricino. E alle trazioni religiose del suo popolo si richiamò sempre sforzandosi di irrobustirne il nerbo spirituale.

Morì dopo breve malattia, e fu molto e sinceramente pianto in Barbagia, il 10 settembre 1970, e sepolto nella cattedrale da dove aveva parlato e predicato per tanto tempo.

Il ripristino, dopo le devastazioni belliche

Nota inviata il 15 ottobre 2008 alla redazione di L’Eco di Bonaria.

Nel lungo contributo offerto alla splendida edizione di Ecce Sardinia Mater tua 1908-2008, nel primo centenario della proclamazione di N. S. di Bonaria a patrona massima della Sardegna, – e cioè, al capitolo 13° dal titolo “Nove episcopati nel segno di Maria di Bonaria” –, ho commesso un errore di cui debbo far venia (nonostante la relativa marginalità dell’oggetto), evitando così, a futuri ricercatori, indirizzi sbagliati di indagine.

In sostanza ho riferito la consacrazione del guasilese mons. Giuseppe Melas, nel 1947, al santuario invece che alla basilica, dove tutte le altre si erano celebrate (dal 1934 con mons. Igino Serci al 2006 con mons. Mosè Marcia). Ciò ho scritto deducendolo dal notiziario della prolungata inagibilità della basilica a seguito dei rovinosi bombardamenti del maggio 1943, e discostandomi da quanto le varie fonti consultate – iniziando proprio da L’Eco di Bonaria (ripreso fra gli altri negli studi del padre Quero e di mons. Ottorino P. Alberti) – asserivano. Non per bizzarria, ovviamente, ma, ripeto, per “deduzione” da circostanze che pure erano documentate e da me diffusamente esposte: per lo sfondamento della cupola sul fianco destro, per la perdita di tutti i vetri alle finestre e per un fossato scavato nel pavimento della principale navata.

Dalla consultazione del settimanale La Sardegna Cattolica, che è potuta avvenire soltanto in questi ultimi giorni presso la Biblioteca universitaria (dove le collezioni sono quasi complete e in buono stato), ho ricavato invece la conferma che il sacro rito si svolse effettivamente – come L’Eco ben scrisse –, e con il coraggio di quel tempo educato dalle emergenze, nella più capiente aula basilicale.

Così mi ero espresso, a proposito del vescovo eletto di Nuoro, nel contributo offerto ai curatori dell’opera, Mario Girau ed Efisio Schirru OdM: «Venne consacrato domenica 13 aprile, nel 40° della proclamazione della Vergine di Bonaria a Patrona Massima della Sardegna, nel santuario però, non nella basilica (tanto deve desumersi – contraddicendo quanto riportato da tutta la stampa che dell’evento si è occupata pur in estrema sintesi – dalla sostanziale inagibilità del maggior tempio)».

Seguendo quanto la rivista mercedaria di Cagliari riferiva allorché dava conto della condizione di persistente degrado della basilica in conseguenza dell’evento bellico, non mi pareva che alcuna sostanziale opera capace di restituire funzionalità agli interni si fosse realizzata prima della solenne cerimonia per la promozione episcopale del cancelliere arcivescovile di Cagliari e già valentissimo parroco di Senorbì.

L’Eco di Bonaria, alla ripresa delle sue pubblicazioni nel febbraio 1946 (e cioè tre anni dopo i violenti e devastanti, e forse… tragicamente necessari bombardamenti aerei del 13 maggio 1943), scriveva: «[la basilica] fu colpita da una bomba dirompente incendiaria; che, sfondata la volta della navata laterale destra esplose nel centro del tempio, scavando nel pavimento una profonda ed ampia fossa. Per lo spostamento dell’aria andarono in frantumi tutti i vetri, compresa la vetrata artistica della facciata; si staccarono gli stucchi decorativi (…), si sfondò una parte della volta sul pronao e restarono sconvolte le tettoie… Presentemente il Genio Civile provvede a riparare i danni esteriori, onde impedire che le acque piovane penetrino nel Tempio. Speriamo che in seguito ci sia concesso di riparare anche i danni interni, e di condurre a termine la Basilica, che la Sardegna ha voluto innalzare alla sua patrona massima».

Per questo le celebrazioni sia primaverili (col maestro generale Alfredo Scotti) che estive dello stesso 1946 hanno il santuario per loro centro; la basilica martoriata viene visitata dal re di maggio, Umberto di Savoia, giunto a Cagliari alla vigilia delle elezioni per la Costituente e il referendum istituzionale.

Alla fine del 1946 – cioè a pochi mesi dalla consacrazione di mons. Melas – L’Eco di Bonaria torna in argomento con nuovi (e non esaltanti) consuntivi e rinnovate speranze: «Furono rifatte tutte le tettoie, alcune volte demolite e vari altri lavori necessari per impedire la penetrazione delle acque. Per completare la riparazione dei danni esterni, mancano i vetri alle numerose finestre, e la copertura della cupola. Speriamo che anche queste opere siano eseguite con sollecitudine. Dopo di ciò occorre metter mano alla riparazione dei danni nell’interno del tempio, intonaci, stucchi e pitture. Queste riparazioni, ci si dice, dovremmo eseguirle per conto nostro».

Mancando ulteriori notizie, nei mesi successivi, sui lavori alle coperture, alle finestre ed ai muri, nonché sul riempimento del fossato interno, ne ho dedotto la persistente inagibilità. Ma ecco che valgono, infine, le cronache de La Sardegna Cattolica, specialmente quella del n. 14 del 17 aprile 1947: «Nella basilica di Bonaria, dagli ampi finestroni che la guerra ha spalancato privandoli dei vetri, entrava un freddo assai pungente. Ciò non ostante alle 8,30 l’ampia navata centrale era gremita e già le navate laterali si popolavano di gente venuta da ogni parte. C’era Cagliari e c’era Nuoro. Non potevano mancare, perché non sarebbero potute mancare, Guasila e Senorbì…».

Pace fatta con la verità storica.

Monsignore al Concilio

Nel suo I Vescovi sardi al Concilio Vaticano II, Protagonisti, vol. II, Cagliari, arkadia 2014, Tonino Cabizzosu ha dedicato a monsignor Giuseppe Melas il maggior capitolo – insieme con quello di monsignor Francesco Spanedda – comprensivo della scheda biografica, del prospetto sintetico della sua partecipazione ai lavori conciliari, dei cosiddetti “consilia et vota” (cioè delle note e sollecitazioni fornite alla commissione antepreparatoria del Concilio circa i temi da trattare da parte dell’assise ecumenica), il dettaglio dei suoi interventi in aula o per scritto. Sono pagine che meritano una lettura attenta perché certamente istruttiva.

Qui soltanto per rapida sintesi riporto i documenti conciliari che, fra il 4 dicembre 1963 ed il 7 dicembre 1965, portano la firma del presule nuorese: la costituzione sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium), quella dogmatica sulla Chiesa (Lumen gentium) e dogmatica sulla divina Rivelazione (Dei Verbum), quella pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (Gaudium et spes), i decreti sui mezzi di comunicazione (Inter mirifica), sull’ecumenismo (Unitatis redintegratio), sulle Chiese orientali (Orientalium Ecclesiarum), sulla formazione sacerdotale (Optatam totius), sul rinnovamento della vita religiosa (Perfectae caritatis), sull’ufficio pastorale dei vescovi (Christus Dominus), sull’apostolato dei laici (Apostolicam auctuositatem), sull’attività missionaria della Chiesa (Ad gentes), sul ministero della vita sacerdotale (Presbyterorum ordinis), le dichiarazioni sull’educazione cattolica (Gravissimum educationis), sulle relazioni con le religioni non cristiane (Nostra aetate), sulla libertà religiosa (Dignitatis humanae).

Di monsignor Melas risultano inoltre tre interventi orali in aula e tre scritti, tre sottoscrizioni di interventi collettivi, una decina di citazioni del suo nome da parte del segretario generale Pericle Felici, ecc.

Ben 36 erano le materie trattate dallo stesso presule rispondendo al cardinale Tardini (segretario di Stato) che a lui, come a tutti i vescovi cattolici del mondo, oltre che ad abati, superiori generali, istituzioni accademiche ecc., aveva chiesto “consilia et vota”: il più in tema di facoltà canoniche e disciplinari, ma anche di pratica liturgica. Riporto il bel riepilogo proposto da Cabizzosu: «Tra i consilia et vota espressi dai vescovi residenti in Sardegna, quelli di Melas sono i più numerosi e importanti per la molteplicità di argomenti proposti. Sono da sottolineare in particolare la richiesta di riforma radicale dei concorsi per l’attribuzione dei benefici; una formazione più adeguata di coloro che si preparano al sacerdozio per essere all’altezza delle rapide mutazioni sociali dei tempi; un ridimensionamento delle interferenze delle Congregazioni romane sulla vita delle Chiese locali; la richiesta di mitigazione negli interventi del Sant’Uffizio; maggior libertà d’azione dei parroci da certe prescrizioni giuridiche per puntare con più dedizione sul servizio pastorale soprattutto nei giorni festivi; la promozione di una cassa comune tra il clero per favorire una maggiore perequazione economica; la ristrutturazione delle circoscrizioni ecclesiastiche, con riduzione delle piccole diocesi; l’abolizione dei casi riservati e di censure. Se da un lato alcune istanze risultavano innovative, dall’altro nei vota di Melas si nota anche un’insistente richiesta di ampliare il ruolo e la funzione del vescovo diocesano, liberandolo da interferenze romane (Congregazioni Romane) e locali (Capitolo e l’indipendenza di azione dei religiosi all’interno del territorio diocesano)».

 

Il senso e le fatiche dell’ecumenismo

Molto, molto opportunamente Cabizzosu da spazio all’intervento scritto del presule sull’ecumenismo, inserito nella 30.a congregazione generale celebrata il 30 novembre 1962, dunque nella prima sessione giovannea, presieduta dal cardinale americano Francis Joseph Spellman, presenti 2.145 padri conciliari.

Ecco l’efficace ripresa che Cabizzosu formula di quel testo, del quale evidenzia l’afflato spirituale ben più che la speculazione teologico:

«Melas esordì nel seguente modo:

“ho esaminato con la massima attenzione lo schema del decreto de Ecclesiae unitate con il proposito di discutere e ho seguito con vero diletto interiore quanto è stato proposto in questi giorni di concilio da molti padri. Ora presento il contenuto di questo schema che ritengo sia da approvare e da accogliere interamente. Si tratta infatti di una cosa di tale valore che non solo è da apprezzare ma commuove l’animo e suscita grande speranza. Così grande è infatti per noi la ragione profonda nello schema, di tanta importanza, così necessaria, così assai sovrabbondante, che tutta la storia della Chiesa in lungo e in largo ne è pervasa e sorregge i destini di tutta l’umanità, così chiunque si avvicina ad esaminare l’argomento viene da esso attirato e affascinato e alla stessa altezza sollevato. D’altronde non poteva essere diversamente”.

«Il discorso del vescovo nuorese ricostruì alcuni aspetti dell’ecumenismo nella storia della Chiesa, sottolineando odio, lotte, divisioni e guerre che si sono avvicendate lungo i secoli, messe in atto da uomini che si definivano cristiani, ma che in realtà contrastavano con l’essenza del nome e contraddicevano la volontà di Cristo, che voleva una Chiesa unica. Questo modo di fare per Melas costituì, dunque, un grave peccato: “abbandoniamo dunque la superbia, la durezza d’animo, l’asprezza delle parole; rivestiamoci di umiltà, carità, fraternità, nella consapevolezza che il Signore ci ha riuniti non per aggravare la discordia ma per unire gli animi, superare le differenze, disperdere le ambiguità! Noi abbiamo presentato un proposito di tanta importanza e nessun ostacolo respinga ed impedisca la desiderata unità dei cristiani”.

«Melas continuava la sua lettura di taglio spirituale sull’argomento ecumenico e sottolineava l’urgenza, da parte di tutti, della dimensione orante e penitenziale:

“vorrei aggiungere – per completare e perfezionare lo stesso discorso – che è necessario sia il sacrificio, o il pentimento, sia l’espiazione che rendono più consapevole l’animo di colui che prega e lo rafforza nel proposito, e la stessa preghiera a Dio è più accolta, valida ed efficace per ottenere il perdono!”.

«Riguardo a questo aspetto nello schema in questione nulla viene detto. Il Signore insegnò che le grandi difficoltà e gli ostacoli più difficili vengono superati con la preghiera e il digiuno. Tutta la Scrittura, spesso, parla di cenere e di cilicio quando si intende placare Dio e sono richieste numerose grazie e doni”.

«Melas non affrontò il discorso sull’ecumenismo sotto l’aspetto teologico,

ma prevalentemente su quello pastorale. Per avvalorare le sue idee portò

come esempio la testimonianza di una monaca barbaricina, Maria Gabriella Sagheddu, morta nella trappa di Grottaferrata nel 1939. Al riguardo scrisse:

“mi sia permesso portare l’esempio di una figlia della mia diocesi di Nuoro, la cui causa di beatificazione è ormai cominciata, la venerabile Serva di Dio Maria Gabriella Sagheddu, che desiderando ardentemente il ritorno alla casa del Padre dei fratelli separati, seguì il Divino Maestro offrendo se stessa a Dio come vittima per i fratelli, all’età di venticinque anni. Venuti a sapere di questo sacrificio di un’anima amante, i fratelli Anglicani furono commossi per la notizia. E dall’abbazia anglicana situata a Nashdom, padre Benedetto Ley, Maestro dei Novizi, rispondendo alla nostra monaca, disse queste cose: ‘Tanta grande carità abbatte l’antica opinione presso gli Anglicani nei confronti di Roma. Perché se tutti gli Anglicani conoscessero la vostra carità con esperienza, certo il muro che ci divide subito cadrebbe infranto in polvere’. E lo stesso presbitero anglicano, scrivendo alla madre della stessa monaca, diceva queste cose: ‘Io sono un presbitero anglicano, monaco di una comunità benedettina anglicana. Da quando ho conosciuto l’oblazione della tua figlia per il ritorno dei fratelli separati, io ho pregato per te. Spero che mi permetta di dirti che il sacrificio della tua figlia mi spinge a una maggior fede verso Cristo e ad una più profonda preghiera per ottenere l’unione di tutti i cristiani sotto il Papa. Forse ti consolerai quando saprai che l’offerta della tua figlia molto ha giovato agli Anglicani, dei quali molti vogliono fortemente l’unione con Roma. Vivamente prego per te, signora. Ti affido alla Madre dei Dolori, che stette ai piedi della croce di Gesù; lei stessa ti sosterrà e sarai consolata per la perdita che hai subito’”.

«Lo scritto di Melas si chiudeva con un ulteriore auspicio: “la Vergine Madre di Dio, già dai primi tempi cristiani, mille volte viene invocata con confidenza sotto molteplici titoli. Questi, mentre dimostrano il fervido amore dei figli, allo stesso tempo, esaltano l’eccelsa potenza, amabilità e misericordia della Madre. Esiste nella mia diocesi di Nuoro una congregazione religiosa di monache dell’ordine di San Benedetto, che vengono chiamate con questo titolo: ‘Madre dell’Unità’, la quale si propone come fine specifico l’altissimo obiettivo di pregare e di lavorare per tale scopo. Quanto sto dicendo non ha lo scopo di ricordare la mia diocesi di fronte a questa importantissima assemblea, ma semplicemente indicare tutto ciò riguardo allo schema dell’argomento proposto. E chiaro che l’unità della Chiesa non è da aspettarsi dall’opera degli uomini, ma solo da Dio; attraverso l’orazione e la penitenza insistiamo con clamore e presentiamo i nostri voti alla Vergine Madre di Dio invocata sotto il nome di ‘Madre dell’Unità’ e non disperiamo oltre e non perdiamo la speranza che arriverà ‘l’unico ovile sotto l’unico Pastore’”».

Dovrebbe potersi aggiungere, al riguardo, che questa ecumenica fu una sensibilità da sempre presente ed attiva nel vescovo Melas il quale non a caso assunse, in quel lontano 1947, quale proprio motto episcopale, incluso nello stemma, il versetto tratto dal capitolo 10 del vangelo di Giovanni: «Unum ovile et unus pastor».

 

Un vescovo reporter per i propri diocesani

Valendosi del periodico diocesano, il vescovo scrive varie lettere dal Concilio per informare i suoi di come procedono le cose a Roma, e intanto descrive l’ambiente nel quale egli è chiamato a lavorare con i suoi duemila e passa colleghi di tutti e cinque i continenti. Comincia così dal 1° novembre 1962, solennità di Ognissanti. L’Ortobene pubblica la lettera nel numero del 10 novembre successivo. Eccone il testo (lo ripresi io stesso nel mio Papa Roncalli e la Sardegna. Corrispondenze Incontri Amicizie, Cagliari, Edizioni della Torre, 2002, pp. 1413142, 251-254; e più recentemente lo stesso Tonino Cabizzosu, nel capitolo sopra citato di I Vescovi sardi al Concilio Vaticano II. Protagonisti, vol. II, cit., pp. 244-246).

«Desidero scrivervi qualche riga da Roma, durante una sosta dei lavori del Concilio Ecumenico per dirvi il mio ricordo di Voi e mandarvi un cordiale saluto. La lontananza dalla Diocesi mi porta a pensarci di più e a pregare più vivamente per essa.

«Vi debbo un grande ringraziamento per quanto avete fatto in occasione della mia partenza lo scorso mese; non è spento in me il ricordo delle cortesi filiali dimostrazioni che mi avete dato e mi hanno commosso il vostro saluto, le vostre preghiere, il vostro accompagnamento. Molti hanno voluto essermi vicini anche per lungo tratto del viaggio e alcuni sono voluti venire fino all’imbarco ad Olbia e non si cancella in me il ricordo tanto gradito di molti carissimi figliuoli che mi hanno voluto esprimere i loro sentimenti a Siniscola, a Posada e a Budoni, ultima Parrocchia della Diocesi! Né dimentico la presenza di molte egregie Autorità che si sono compiaciute di ritrovarsi accanto al popolo mentre il Vescovo si recava al Concilio Ecumenico. A tutti il mio grazie più vivo! Tutto questo sta ad indicare come avete sentito profondamente l’importanza dello storico avvenimento che interessa la S. Chiesa, e la vostra intensa partecipazione per la sua riuscita. So che la vostra preghiera continua tuttora mentre il Concilio è nel suo svolgimento e che seguite con grande interesse le notizie che è possibile avere dalla stampa e dalla radio sulla grande assemblea ecumenica.

«A ricambio di tanta vostra cortesia, e per dirvi come il padre apprezza l’amore dei figli della grande famiglia diocesana, sicuro di soddisfare un desiderio comune che mi sembra d’intuire in tanti di voi, vengo a darvi in questa lettera qualche notizia del Concilio e del Vescovo che vi prende parte, non perché voglia parlare di me, ma semplicemente perché il Vescovo è qui a nome e per conto della Diocesi. Naturalmente non vi parlerò dei discorsi che vengono tenuti in questa solenne Assemblea perché nessuno può parlarne, almeno per ora; a questo riguardo bisogna contentarsi di quel poco che, in maniera molto sommaria e generica, viene riportato nella stampa, e che è nulla in confronto alla realtà di ciò che viene detto e discusso dai molti Padri Conciliari che parlano nelle varie adunanze che si chiamano Congregazioni Generali. Vi dò comunque alcune informazioni di ciò che è possibile dirvi e sono certo che vi saranno gradite.

«Molti di voi hanno visto la Basilica di S. Pietro, la più grande chiesa del mondo, ma e davvero impressionante vederla ora trasformata in un’unica immensa Aula Conciliare, con i seggi simmetricamente disposti nella navata centrale e distribuiti a settori a destra e a sinistra. Ogni settore è diviso dall’altro a mezzo di una scalinata, che consente l’accesso al posto assegnato a ciascuno dei Padri. Ogni settore comprende o 54 o 75 posti secondo che è appoggiato a uno dei giganteschi pilastri della Basilica oppure si addentra alquanto nel vuoto delle immense arcate. Ogni posto comprende un sedile coi braccioli, un genuflessorio, un leggio per scrivere e tutti e tre sono così sistemati che si possono sollevare o abbassare in modo che è possibile, nel breve spazio, stare in piedi, o seduti per leggere o scrivere, o inginocchiati; e ciascun posto ha pure a disposizione una matita a mina magnetica che serve per apporre la firma nella scheda di presenza. Ogni volta infatti che c’è adunanza viene distribuita un’apposita scheda che i presenti devono firmare e poi consegnare al personale addetto. In questa scheda sono segnati – dattiloscritti –i dati anagrafici di ogni Padre Conciliare ed i medesimi sono anche perforati in modo che dopo la raccolta vengano passati agli apparecchi meccanografici che in pochi minuti ne fanno lo spoglio e si viene così a sapere rapidamente il numero dei Padri presenti ad ogni seduta. Tutti i posti sono foderati in velluto viola nel genuflessorio, nel sedile, nella spalliera e ciascuno ha un numero che è progressivo ed è assegnato ai Padri secondo la precedenza canonica e cioè in base alla data ufficiale di nomina di ciascuno di essi. Accanto al Vescovo di Nuoro, che fu nominato il 31 gennaio 1947, si trovano gli altri Vescovi dello stesso anno, o del 1946 o del 1948 e cioè poco prima poco dopo di lui Il mio numero di posto per esempio e il 450; di fianco a me, a sinistra c’è il Vescovo di Altoona Johstown suffraganeo di Filadelfia negli Stati Uniti ed ha il numero 449 perché fu nominato l’11 gennaio 1947 e immediatamente prima, al numero 448, c’è il Vescovo di Lucknow, in India, nominato il 12 dicembre 1946 e subito dopo di me, al numero 451, c’è Mons. Alfredo Ancel, Vescovo titolare di Mirina e Ausiliare dell’Arcivescovo di Lione in Francia, che fu nominato il 17 febbraio 1947. E poi continuando, a distanza di qualche posto, sono vicini a me un Vescovo domenicano del Congo, un altro del Brasile, un terzo di Hong-Kong in Cina. Con questi perciò m’incontro tutti i giorni che c’è seduta e siamo diventati fraternamente amici e conversiamo quando si arriva, prima dell’inizio delle adunanze, e alla fine, quando stiamo uscendo. Quanto vi ho detto riguarda soltanto una metà dell’Aula Conciliare, quella destra a partire dalla Confessione, al lato cioè del Vangelo; alla parte opposta c’è un’identica numerazione parallela, che si chiama sinistra, al lato cioè dell’Epistola.

«Ogni giorno di “Congregazione” alle ore 9 c’è la S. Messa celebrata dai Vescovi più disparati del mondo e anche in diversi riti; ed è mirabile lo spettacolo della sacra funzione quando a rispondere al Celebrante è una massa imponente di Vescovi che sono non meno di 2.300 e qualche giorno 2.400 o anche 2.500. Pensate al Kyrie, o al Gloria, al Sanctus, all’Agnus Dei recitato all’unisono da questo coro eccezionale di voci! Un giorno, il 24 ottobre, la Messa fu celebrata in rito orientale bizantino, e in lingua greca, ed era gustosissimo sentire la gloriosa lingua dei greci con inflessioni nuove; il Credo è detto al plurale (Pisteccomen eis ena Theon… credimus in unum Deum…) e l’Amen diventa “Amìn”!…

«Bellissima e solenne la funzione quotidiana dell’intronizzazione del Vangelo che viene portato processionalmente mentre l’immensa assemblea canta il Laudate Dominum, alternando i versicoli col Christus vincit! Indescrivibile l’aspetto della solennissima Aula con i numerosissimi Vescovi, tutti indossanti l’identica divisa (sottana e fascia, rocchetto, mantelletta, Croce pettorale e berrettino) ciascuna modellata alla stessa foggia, ma con una grande varietà di colori, in cui prevale più numeroso il rosso paonazzo, ma con le frequenti varianti del bianco dei Mercedari e Cisterciensi; del marrone dei Cappuccini, del cinericcio dei Minori Francescani, del nero degli Agostiniani, del bianco e nero dei Domenicani…! Si notano i Vescovi Missionari dalla caratteristica barba, e risaltano immediati i volti neri o gialli, o intensamente e variamente bruni dei Vescovi africani, indiani, cinesi, giapponesi… Veramente la divina Sposa di Cristo è “circondata di varietà”! La sensazione che si sente immediata alla vista di questa accolta straordinaria di Vescovi è precisamente questa: unità e varietà! La si nota quando i Padri s’incontrano all’arrivo in Piazza S. Pietro, quando entrano nella Basilica e occupano il posto a ciascuno assegnato, quando sfollano! La si nota soprattutto durante lo svolgimento dell’assemblea che va dalle 9 alle 13 e talvolta anche più oltre! La trattazione dei vari argomenti in discussione dura quasi sempre circa 3 ore (dalle 9,30 alle 12,30); ogni volta parlano da 25 a 35 Padri, a ciascuno è fissato un limite di circa 10 minuti di tempo per il proprio intervento. Posso assicurarvi che si tratta di discussioni interessantissime e negli oratori che intervengono è facile ammirare competenza, saggezza, zelo delle anime. Lo stesso argomento viene sviscerato con profondità e vastità, ed esaminato in tutti i suoi svariati aspetti, e ciascuno dei Padri dà il suo apporto, scegliendo un raggio della molta luce che illumina i vari problemi! E tutti i Padri Conciliari parlano la lingua latina; ed è sorprendente constatare questo elemento di unità che è dato dall’uso dello stesso idioma, e noi italiani sentiamo ammirati la gloriosa lingua di Roma parlata bene da tutti i Padri, anche quando meno si potrebbe credere, ed io non vi nascondo che seguo con particolare gusto e curiosità quando parlano i Vescovi Africani (per esempio del Tanganica o del Congo), di Formosa, dell’Indie, del Giappone! Parrebbe incredibile, ma è stupenda realtà constatare che il latino sia parlato da tante labbra diverse e così lontane nello spazio, e così aliene come abitudini di mentalità, e che questa lingua si presti ad esprimere qualunque concetto e sia capace di essere usata anche nelle più ardue e complesse discussioni! Come non ringraziare il Signore e compiacersi che la S. Chiesa sia così grande e gloriosa?!

«Naturalmente anche nel latino resta un’insopprimibile varietà dovuta alla pronunzia e alla cadenza che sono proprie di ogni popolo. Del resto anche tra noi italiani non esiste forse questa varietà? Chi è alquanto esperto distingue subito un toscano da un lombardo, un romano da un napoletano… e tanti riconoscono noi sardi quando parliamo l’italiano per un particolare timbro che diamo alla nostra pronunzia! Perciò anche al Concilio è ben facile riconoscere un francese per la caratteristica tipica dell’m e per l’accentuazione della parola, o un tedesco che vi dice “Ghermania”, “Evanghelium”, “Reghina Anghelorum”… o lo spagnolo che ti pronunzia “s” la “c” e ti dice “Consilium” invece di “Concilium” e ti spezza la parola “ag-nus” e “dig-nu”» invece di “agnus” e “dignus”, e ti riduce a “chi” o “che” il dittongo “qui” e “que”, dicendo “ubiche” invece di “ubique” e “cum chibus” invece di “cum quibus” ecc, o gli inglesi e americani che ti fanno sentire abbondantemente liquidissima la già liquida “I”. Si tratta però, come vedete, di varianti non essenziali che non disturbano affatto la comprensione delle parole e di quanto esse vogliono esprimere. E tutti ringraziamo il Signore e godiamo perché nel Concilio e stata superata e vinta Babele che aveva confuso le lingue rendendole incomprensibili!

«Per questa volta basta così, in seguito, se avrò tempo, mi riservo di dirvi qualche altra notizia. E non vorrei che quanto vi ho detto fosse considerato solo una curiosità; esso vuole dirvi quanto è nobile e grande la S. Chiesa di cui siamo figli e come dobbiamo amarla intensamente ed esserle affezionati e obbedienti attraverso la Diocesi a cui apparteniamo che è parte vivente della Chiesa cattolica, cioè universale, sparsa nel mondo. Vi raccomando tutti al Signore, domando un ricordo nella vostra preghiera e vi benedico cordialmente»…

 

Uno sguardo sul mondo

Un mese dopo, ancora L’Ortobene ospita una nuova lettera di monsignor Melas, datata 21 novembre, festa di Nostra Signora delle Grazie. (Anch’essa è riportata in Papa Roncalli e la Sardegna ecc., ut supra). Eccone il testo:

«Più di una volta, e potrei dire giornalmente, ripenso a Voi e vorrei che poteste vedere lo spettacolo veramente ammirabile della Basilica durante ciascuna delle Congregazioni Generali. Dinnanzi ai miei occhi stanno i 18 settori di un lato della Basilica, con oltre 1100 Vescovi ed altrettanti ne stanno dalla parte opposta dove mi trovo io. Un silenzio solenne domina nell’ora della preghiera e del raccoglimento durante la celebrazione della S. Messa, e l’Aula si anima e palpita .e vibra quando si prega o si canta tutti insieme, specialmente quando si levano le solenni note gregoriane del Credo. E la Chiesa docente di tutto il mondo raccolta nella sua quasi totalità; da anni, celebrando la Santa Messa, giunto al Canone, fermo particolarmente la mia attenzione in quel punto in cui si prega il clementissimo Padre Celeste che si degni di accettare il Santo Sacrificio soprattutto e prima di tutta per la S. Chiesa che supplichiamo di “pacificare, custodire, adunare e governare in tutto il mondo” insieme col Sommo Pontefice e col Vescovo della Diocesi, “e con tutti coloro che hanno la retta dottrina e coltivano e alimentano la fede cattolica e apostolica”: in quest’ultima espressione s’intendono ricordare specificamente i Vescovi ai quali in modo speciale compete l’incarico di “coltivare” ed alimentare la vera fede in tutto il mondo. Quel richiamo che ogni giorno riporta alla mente i Successori degli Apostoli sparsi nelle varie Diocesi della terra; diventa vivissimo e attuale nel Concilio quando Essi non sono solamente ricordati e pensati ma sono veramente presenti e l’occhio li può abbracciare e contemplare con infinita compiacenza!

«Tra questo ingente numero di Vescovi, che solo il Concilio consente di raccogliere in maniera così eccezionale, ve ne sono di quelli che più attirano la nostra attenzione: sono quelli delle nuove Diocesi, da poco sorte nei luoghi di Missione, in Africa e in Asia, e specialmente quelli provenienti dalla Chiesa del Silenzio, quelli che sono potuti venire, che hanno lasciato venire! Guardiamo tutti con venerazione il Cardinale Wyszynski, Arcivescovo di Varsavia, in Polonia, che fu per vari anni in prigione per la fede e che tuttora deve combattere per difendere i diritti dei cattolici continuamente insidiati da un regime di atei e materialisti. Il 12 novembre ho potuto baciare la mano a Mons. Cirillo Zoharabian, Vescovo dell’Armenia, che ha subito ogni sorta di tormenti e gli è mancata solo la morte perché fosse un vero martire; cammina zoppicando e vengo a sapere che i persecutori gli diedero una volta trecento colpi di nervo di bue ai piedi, è mutilato alle dita delle mani, respira a fatica e mi spiega che ha soltanto un terzo di polmone!… Gli domando gli anni ed egli mi chiede quanti io gliene do; gli dico che mi sembra che abbia 70-75 anni. “E invece ne ho 82″, mi risponde. Gli faccio l’augurio sardo “a chent’annos”, e glielo spiego, e mi risponde furbescamente sorridendo: “così poco?!” Preferisco l’augurio greco che si limita a un solo anno e che viene ripetuto ogni anno: arrivederci all’anno venturo! Mi separo commosso da questo vero campione della fede e gli prometto che racconterò questo incontro ai figlioli della mia Diocesi. Cosa siamo noi in confronto?…

«Il 4 novembre, durante il ricevimento offerto dal Comune di Roma in Campidoglio, ho potuto conoscere un Vescovo della Lettonia, e mi duole di non ricordarne il nome, il quale attualmente si trova in Belgio, espulso dalla sua patria; egli è stato tanti anni in Siberia e fu condannato ai lavori forzati, sempre in odio alla fede; ora lavora tra gli emigrati ed espulsi del suo stesso paese che si trovano all’estero, e solo raramente riesce a sapere qualche notizia dei suoi famigliari! Gli ho assicurato che noi preghiamo sempre per loro e per la Chiesa del Silenzio e mi ringraziava!

«In occasione del ricevimento offerto dal Presidente della Repubblica ai Padri Conciliari di tutto il mondo, e ne erano presenti circa 1600, sulla soglia di una porta incontrai un Vescovo dell’Oriente, che poi seppi essere “ortodosso”, e gli cedetti il passo per riguardo; egli si schermì e voleva fare altrettanto con .me volendo che passassi io per primo; lo presi allora sotto braccio dicendogli: “andiamo insieme”; m’accorsi che non capiva l’italiano e

gli rivolsi la parola in latino, come sogliamo fare spesso quando incontriamo un Vescovo che certamente appare come straniero; egli però non capiva neppure una parola, nemmanco in latino; parlammo in francese e seppi così che egli era Vescovo copto che ha la residenza al Cairo in Egitto e che estende la sua giurisdizione anche nel Sudan e in parte dell’Etiopia. E a Roma tra gli “Osservatori” delle chiese separate invitato dall’apposito Segretariato.

«Incontrando ogni tanto e numerosi i Vescovi non italiani e specialmente quelli che il colore del volto indica senz’altro come asiatici o africani vien voglia di avvicinarli per fare in qualche modo la loro conoscenza; ma ciò non sempre è facile anche per la mancanza del tempo. Attaccando discorso con due Vescovi negri vengo a sapere che sono del Madagascar, ed essi apprendono da me che sono della Sardegna; dico loro che nel Madagascar si trovano diversi Missionari sardi, ed essi spontaneamente ed immediatamente mi fanno i nomi di Papoff e di Cossu. Ciò mi conforta perché mi conferma che i due nostri conterranei sono davvero noti anche a questi Prelati. Papoff è di Cagliari e Cossu di Bitti, e sono entrambi Padri Gesuiti. Assicuro di conoscerli entrambi e comunico che recentemente è partito anche un altro Padre della nostra Diocesi, il P. Turtas anch’egli di Bitti.

«I Vescovi delle Missioni e dell’America latina domandano tutti di avere più Sacerdoti e ne chiedono a noi italiani perché ne mandiamo loro; e resto impressionato quando faccio con essi il paragone delle nostre Diocesi e delle loro che sono più vaste, hanno più grande popolazione, e più Parrocchie, ma scarsissimo il Clero!

«Ho incontrato varie volte Sua Eminenza il Card. Fossati e Sua Eccellenza Mons. Beccaro, ai quali ho potuto esprimere la simpatia ed il ricordo della Diocesi di Nuoro da loro governata in passato, ed anche essi vi posso assicurare che non dimenticano la loro prima Diocesi in Sardegna.

«Questa prima fase del Concilio Ecumenico sta avvicinandosi alla conclusione ed io penso con piacere di poter tornare presto in Diocesi; so che Voi non cessate di pregare per la buona riuscita di questi lavori conciliari e ve ne ringrazio, mentre vi raccomando anch’io al Signore, e benedico cordialmente».

Proseguiranno, nel tempo, queste corrispondenze, così come faranno altri vescovi isolani, in specie l’alerese monsignor Antonio Tedde (su Nuovo Cammino) e ancor più l’arcivescovo di Sassari monsignor Paolo Carta (su Libertà), che curerà una vera e propria rubrica settimanale “dal Concilio” per tutti e quattro gli anni di svolgimento dei lavori. Perché, sarebbe anche da dire, quello che si pensava, sia da parte dello stesso pontefice Giovanni XXIII sia da parte dell’episcopato mondale, e cioè di iniziare e concludere tutto in pochi mesi fu smentito dagli stessi dinamismi imposti, o naturalmente impostisi, al Concilio che finì per affrontare questioni all’inizio non previste, dilatando l’orizzonte ecumenico e, direi, umanista della Chiesa, il che richieste lunghe e complesse ponderazioni.

 

Guasila, Senorbì e Nuoro, come onorare un pastore d’anime

Certo sarebbe bello che su monsignor Melas, ad iniziativa della diocesi di Nuoro o, perché no? del suo paese natale – di Guasila cioè – o di quello che dal suo genio pastorale trasse il meglio negli anni cupi della dittatura – di Senorbì cioè – si stampassero tutte le cronache e le corrispondenze documentanti il faticoso impegno del vescovo nelle quattro assise conciliari. Sarebbe un modo nobile per onorarne la memoria, lasciando traccia evidente, utile certo alla storia ecclesiale ma davvero non di meno alla storia civile della Sardegna. Mi verrebbe qui di richiamare, a supporto di una suggestione che rimanda alla fraternità di territori interni a questa stessa nostra isola – nel caso i Campidani (e in essi la Trexenta) e la Barbagia – quanto osserva, nel suo ricordo del 2010, don Giovanni Giuseppe Delogu, descrivendo lo stemma episcopale scelto da monsignor Melas settant’anni fa: «Al piano superiore campeggia la M di Maria e di Melas, richiamo all’identità propria che vuole immersa nell’identità di Maria “candor lucis aeternae”. Al piano inferiore il melo di Melas trapiantato in una nuova terra irrigata dall’acqua che viene dai monti innevati del Nuorese. Un melo che vigoreggia “tamquam arbor iuxta rivos aquarum”. Ancora due identità che si fondono, un connubio che dà frutto, formulato con immagini appropriate, quali l’albero, i monti, l’acqua. Immagini forti di vita.

«In entrambi i piani dello stemma episcopale è posta in evidenza una geniale intuizione, uno stupendo progetto pastorale del giovane vescovo di quarantasei anni che, consapevole delle due diverse identità, le proprie radici del Campidano e il nuovo territorio di Nuoro con i suoi monti innevati, diventino un nuovo ambiente di vita! Il proposito del nuovo Vescovo è che le due identità vigoreggino fondendosi, non prevalendo l’una sull’altra; il proposito è tessere legami per la vita, cantare la vita, oltre ogni insidia di divisione che è morte» (cf. L’Ortobene, 11 settembre 2011 (si tratta di un inserto di quattro pagine recante il testo della commemorazione che l’anno precedente, nel 40° della morte, tenne a Nuoro monsignor Giovanni Giuseppe Delogu, a lungo segretario particolare del vescovo).

Ricordo qui in breve, le tappe datate della sua vita religiosa:

nato a Guasila il 13 ottobre 1901; dalla prima ginnasiale (media) studente al seminario Tridentino di Cagliari, in ultimo studente del suo Collegio Teologico; premiato il 13 dicembre 1923 per merito nella prima teologia; riceve gli ordini minori: a San Giacomo il 25 luglio 1924 l’Ostiariato e Lettorato, il 3 agosto nella chiesa di San Francesco di Paola l’Esorcistato e Accolitato, a Sant’Anna il 26 luglio 1925 il suddiaconato, in cattedrale il 30 ottobre il diaconato (con lui i chierici Roberto Atzori da Samassi, Serafino Cossu da Serdiana, Raimondo Erriu da San Basilio, Luigi Lobina da San Vito ed Elvio Sitzia da Nuraminis; laureatosi in S. Teologia il 30 luglio, è ordinato sacerdote il 15 agosto 1926 (nella parrocchia della Vergine Assunta di Guasila); dopo un breve viceparrocato a Serramanna, fu escardinato  a favore della diocesi di Ogliastra (Lanusei) con le funzioni di segretario del vescovo Miglior (già vicario generale a Cagliari e preside della facoltà di Teologia prima del trasferimento a Cuglieri) e suo cerimoniere; dottore in lettere e filosofia all’università di Cagliari nel 1934 (tesi “I domenicani in Sardegna”: il lavoro è stato ripubblicato dal Centro Giovanile Domenicano in Selargius nel 1994; si consideri che nella stessa sessione accademica fu discussa presso la stessa facoltà, da Paolo Pisano, la tesi “La Trexenta”); rettore della parrocchia di S. Barbara in Senorbì dal 1935 al 1939 (17 aprile); cancelliere di Curia a Cagliari (in sostituzione di monsignor Francesco Cogoni, promosso vescovo di Ozieri) e canonico della cattedrale di Santa Maria; notaio del tribunale ecclesiastico regionale, direttore spirituale del seminario minore di Cagliari, direttore diocesano delle Opere missionarie, cappellano dell’Istituto San Giuseppe ed assistente della FUCI, fu anche professore di religione al liceo scientifico del capoluogo; eletto vescovo di Nuoro nel concistoro del 31 gennaio 1947, entrò in diocesi il 10 giugno 1947.

 

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