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1927-1971, a Cuglieri nel seminario formativo del clero sardo. Uno studio di Tonino Cabizzosu nel 90° della fondazione, di Gianfranco Murtas

Posted By cubeddu On 16 settembre 2017 @ 05:33 In Blog,Chiesa sarda,Storia della Sardegna | Comments Disabled

«Carissimi…, Ormai sono a pochi giorni dalla Santa Messa: aiutatemi con le vostre preghiere e con la Santa Comunione, affinché io sia il meno indegno possibile di questo grande dono del Signore. Io ero tanto cattivo e nella sua immensa bontà il Signore ha scelto proprio me. In questi dodici anni di formazione mi ha dato tanti aiuti, tanti mezzi per diventare un Santo Sacerdote… Alla vigilia della mia ordinazione vi domando perdono di tutte le cattive manifestazioni del mio carattere. E insieme a questa domanda di perdono per me giunga a voi quella del più vivo ringraziamento. Ringraziamento per i numerosi sacrifici materiali fatti per dare a me la possibilità di studiare e seguire la mia vocazione. Quanti sacrifici fatti, quanti patimenti sopportati, quante lacrime amare versate in silenzio perché io non mi accorgessi, perché io andassi avanti tranquillo! Il Signore segna tutti nel libro della vita e un giorno tutto vi sarà restituito e al centuplo… nella vita eterna. Io che cosa vi restituirò? Forse nemmeno un soldo e certamente non è questo che voi vi aspettate da me, dal mio Sacerdozio. Io vi ricambio le preghiere, affinché si tramutino in benedizione e grazia tutti i sacrifici e tutte le lacrime… E’ una buona famiglia la nostra e così deve continuare per il futuro: esempio agli uomini e gioia del Signore…

«Poi: 1) Ho fatto stampare le partecipazioni a Bosa e sto già predisponendo gli indirizzi. Non c’è premura di spedirle subito per questo semplice motivo: che io partecipo solo la data della prima messa e non quella dell’ordinazione (questo per evitare confusioni). Quindi preparate i francobolli e le spediremo tutte da Orotelli. 2) Le immaginette verranno stampate a Nuoro e scrivo a D. Marredda appunto per questo. 3) Domani sera comincio una settimana di Esercizi in preparazione alla Ordinazione e terminerò venerdì mattina 3 luglio. Il 4 mattina partiranno e forse andrò col pullman dei nuoresi, sarà quindi bene che qualcuno venga alla stazione. Ma per questo vi telefonerò venerdì. Va bene? 4) Il sarto mi ha consegnato sottana e pastrano. Vanno molto bene. Mi pare che non abbia altro da dirvi.

«Nuovamente un ricordo a tutti, uno per uno, Vostro aff.mo Rosario».

Così scriveva da Cuglieri il 23 giugno 1953, lui allora giovane di 23 anni, don Rosario Menne, grande apostolo del clero nuorese scomparso il 13 giugno 1989. Orotellese come Salvatore Cambosu, orotellese – bisognerebbe dire – come tutti gli orotellesi, ché le classifiche hanno un valore sempre relativo e perfino artificioso.

Quelle lettere di don Rosario Menne chierico in sacris

Undicenne, per la prima media, al seminario diocesano di Nuoro, e cinque anni dopo, per il liceo, e poi per il quadriennio di teologia, appunto a Cuglieri. La guerra non ha toccato direttamente il Montiferru, ma l’incendio appena spento sui campi d’Europa è notizia che conforta chi, studente dei corsi di filosofia o teologia, dei disastri morali e materiali abbattutisi anche in Sardegna ha avuto contezza dalle proprie famiglie. Nel fortilizio clericale l’emergenza è stata avvertita nell’impoverimento del vitto, nelle minori disponibilità del sapone, nelle diminuite rimesse familiari a fronte delle accresciute mensilità da onorare con l’economato… Gli studenti già in sacris – oltre il suddiaconato cioè – se la sono scampata dal richiamo alle armi, hanno potuto continuare a studiare e a dare gli esami… E’ questa l’atmosfera, non ancora svanita, che ha incontrato, quindicenne, Rosario Menne nel salto dal modesto seminario nuorese – poche stanze aggregate all’episcopio locale – al monumentale edificio fattosi capitale ideale della Chiesa sarda: fabbrica di preti e sede d’incontro periodico dei presuli della Conferenza regionale.

A giugno di quel 1953, egli si licenzia in teologia, il 5 luglio viene ordinato dal vescovo Giuseppe Melas nella cattedrale di Santa Maria della Neve. Il 16 dello stesso mese, festa della Madonna del Carmelo, dice la sua prima messa nella parrocchiale di Orotelli intitolata a San Giovanni Battista. Inizia, per lui, un altro tempo di vita. Sarà da subito viceparroco nel paese natale, e due anni dopo, per un lustro intero, parroco a Torpé, barbaricino missionario in Baronia! Quindi titolare di un canonicato nel capoluogo e di un insegnamento alle Magistrali, e anche professore di materie letterarie al ginnasio del seminario minore già conosciuto da studente. In successione o in combinazione, dopo ancora, altri dieci, venti incarichi: assistente provinciale e anche regionale delle ACLI, confessore delle monache carmelitane, direttore dell’ufficio pastorale diocesano e organizzatore di numerosi convegni di studio (sulla pastorale del lavoro, per l’anno mariano di pacificazione, su “Banditismo e vendetta”, su “Evangelizzazione e promozione umana”, sul primo mezzo secolo di vita de L’Ortobene…); avvierà il primo consiglio pastorale diocesano ed i primi consigli parrocchiali; fonderà Radio Barbagia e sarà il promotore delle celebrazioni per il bicentenario della diocesi di Nuoro (già Galtellì-Nuoro); prenderà l’assistentato regionale dell’Azione Cattolica e la segreteria del comitato di beatificazione di suor Maria Gabriella Sagheddu; quindi l’ufficio di arciprete del Capitolo cattedrale e di delegato vescovile per la Consulta Apostolica dei laici, di responsabile della visita di Giovanni Paolo II a Nuoro, della commissione centrale del sinodo diocesano e, più tardi ancora, dell’istituto secolare dei sacerdoti della Regalità di Cristo e perfino del settimanale L’Ortobene.

Ripenso a tutto questo, riscorrendo, a vent’anni dacché mi fu donato e subito divorato, il volume Rosario Menne, un testimone scomodo, a cura di Antonello Menne. Ripenso a queste tappe di lavoro di un presbitero d’oro del clero sardo del Novecento, e tutto mi pare essersi mosso dai fondamentali formativi presenti nell’esperienza, non soltanto di studio, cuglieritana compiuta fra il 1946 ed il 1953.

L’Eco del Regionale – organo “di studio, formazione e collegamento” –,  il periodico del seminario di Cuglieri ideato e… messo su carta, nell’aprile 1949, da padre Egidio Boschi, che don Rosario aveva conosciuto nel suo corso di teologia, avrebbe dato conto anch’esso, o già esso, dei primi fuochi della pirotecnia ministeriale dell’ex allievo diventato ora protagonista sul campo, con tutti i titoli, attuali o previsti, delle sue funzioni oltre che dei suoi talenti: viceparroco ad Orotelli, nel giugno 1955, aveva presentato in seminario il nuovo movimento ecclesiale di spiritualità detto “Oasi”, lanciato dal gesuita Virginio Rotondi, collaboratore di padre Riccardo Lombardi al “Mondo Migliore”, colonna della militanza cattolica degli anni ’40-’50, e «una giornata di studio al Regionale della camerata Iakenfù» nel 1960…

Vien proprio da ripensare, da presso, al percorso esistenziale di don Rosario, e intanto ai suoi cimenti in età ancora di adolescente o nel suo primissimo affaccio alla maturità, insomma ai suoi anni di formazione: perché specchio di altri, di molti altri, direi perfino di quasi tutti gli altri suoi colleghi di camerata e di classe, nella disciplina regolata dai canoni gesuitici, all’interno di quella popolazione di duecento, quasi trecento fra liceisti (originariamente liceisti/filosofi), filosofi e teologi, chierici in conquista progressiva degli ordini minori – tonsura, ostiariato e lettorato, esorcistato e accolitato fino al suddiaconato dell’impegno celibatario –, giovani provenienti in larga prevalenza dai centri rurali dell’Isola, dai ceti modesti del lavoro operaio, artigiano o, per il più, agricolo e pastorale, e domestico per la sussistenza. Appunto come lui orotellese, orfano di padre da ragazzino.

Aiuta ad entrare nel vissuto ordinario di quella generazione, o di quelle quote di generazione che si sentono chiamate al servizio dell’altare, della predicazione, del consiglio, il compulsare la corrispondenza familiare che, per ragioni le più varie, ha trovato modo, nel tempo, di uscire dal riserbo del privatissimo per farsi pubblica in qualche libro di memorie e biografie. Come nel caso di don Menne.  Ed a risaltare sono sempre i sentimenti e con i sentimenti i problemi, perché è sempre questione di aiuti economici che urgono, alla fine anche di confezione, da qualche buon sarto di paese o magari del parentado, della talare o della cotta, insomma della divisa che racconterà di uno status, di una vita messa sul moggio… Pagine innocenti, pulite, datate anche, che dicono di uno ma, alla fine, dicono appunto dei mille che sono passati o passeranno, lungo quattro decenni e più, per Cuglieri… Eccone qualche passo:

del 27 novembre 1950, tempo forse di sacra tonsura: «Mamma Carissima, ieri sera ho ricevuto la vostra lettera e vi rispondo subito. Ho ricevuto i soldi. Grazie infinite. Non aspettavo subito questi soldi. Scusatemi se vi ho fatto fare dei sacrifici ancora più duri.

«Oggi stesso ho preso la stoffa per una sottana da mettere tutti i giorni. La stoffa è di cotone e precisamente della qualità della prima sottana che ho avuto. Spenderò fra tutto, materiale e manifattura, circa Lire 6.000. Il resto del conto mi servirà per chiudere il conto del primo trimestre e per pagare alcuni libri. Va bene?

«Mi chiedete l’ingrandimento della fotografia e così anche zia Rita… Non so se a Cuglieri lo faranno. In ogni modo se è possibile farlo qui vi manderò l’ingrandimento, altrimenti vi spedirò il negativo e l’ingrandimento lo farete a Nuoro…

«Se lo avete ancora, fate il favore di mandarmi il disegno della mia cotta perché c’è un compagno che lo vorrebbe avere. Voi il disegno non lo perdete poiché egli se lo trascriverà su altri fogli. In un primo momento mi ha chiesto direttamente la cotta per ricavarci da questa il disegno. Ma in questo modo me l’avrebbe sporcata…».

Del 17 dicembre 1951, tempo di ordini minori e poi di suddiaconato: «Mamma Carissima… La settimana passata è stata una delle più dure di tutto il trimestre per via delle interrogazioni e compiti in classe. In compenso quella che viene ci porta un po’ di riposo e ci avvicina alle vacanze di Natale.

«Oggi abbiamo iniziato la Novena, che qui in seminario riesce molto bene ed è molto partecipata.

«Mercoledì prossimo io entrerò in Esercizi per prepararmi a ricevere gli Ordini (sabato venturo).

«Non preoccupatevi di venire qui il giorno. Ci sarà molta gente. Le funzioni sono lunghe e noi potremmo stare insieme poco tempo. Poi viene la mamma di Nino subito dopo Natale. Voi venite un’altra volta. Almeno questo è il mio parere…

«C’è ancora da pagare questo primo trimestre. Andrò dal Padre Economo a chiedergli quanto devo dargli e vi accluderò un c.c. postale già compilato.

«Qui al principio dell’anno c’è stato il vescovo. Gli ho parlato del mio caso e dell’impossibilità temporanea a provvedere alle spese. Mi ha risposto che per il primo trimestre neppure lui poteva aiutarmi perché avevano avuto molte spese al Seminario di Nuoro. Mi ha dato 5.000 Lire sue personali per comprarmi i libri. Non vi ho scritto prima per darvi un po’ di tempo. So che questa è una notizia troppo dura e ogni volta che debbo parlarvi di questo ne soffro perché capisco i sacrifici e le privazioni che vi imponete per me. In compenso però vi posso dire che i soldi non li sprecate perché mi sto preparando seriamente a diventare un santo Sacerdote. Il Signore vi ricompenserà tutti con le più belle benedizioni…»

Cuglieri capitale pro tempore della Chiesa sarda

In varie occasioni ho avuto modo di occuparmi della formazione di studio del clero isolano del Novecento, e dunque anche della esperienza cuglieritana: così è stato, in tempi relativamente recenti, per don Ottavio Cauli e don Pier Giuliano Tiddia, il primo orrolese classe 1914, il secondo cagliaritano/sarrochese classe 1929. Capitolare della metropolitana di Cagliari il primo, dopo esser stato per lunghi anni parroco, e per più tempo parroco/fondatore a San Pio X nel capoluogo, e anche presidente dei parroci urbani di Cagliari, carissima figura di presbitero colto, ecumenico e coraggioso nella sua docenza mai conformista. Vescovo e arcivescovo (concludendo la sua missione ad Oristano e con la presidenza della CES) il secondo, anche lui assegnato, dopo impegnative esperienze di studio – dottore in diritto canonico alla Lateranense –, a rilevanti uffici, come giudice del Tribunale ecclesiastico regionale e professore, rettore del seminario minore, parroco della cattedrale e vicario generale.

Per un libro che è di prossima uscita ho anche raccolto la testimonianza, lucidissima e gustosissima, di don Angelo Pittau, altro presbitero (della diocesi di Ales) e amico-maestro, ordinato prete nel 1965, e poi viceparroco a Tuili, fidei donum, professore e giornalista freelance in Vietnam per tre anni, al tempo della guerra tremenda, e poi prete operaio in Francia e parroco di periferia a Torino (al tempo dell’illuminato episcopato del cardinale Pellegrino), e ancora parroco/fondatore della parrocchia Madonna del Rosario a Villacidro, parroco della chiesa-madre di Guspini intitolata a San Nicolò vescovo, responsabile della Caritas diocesana (e anche regionale), promotore di innumerevoli iniziative sociali preziose per il territorio diocesano e anche per tutti quelli entrati in relazione di fraternità, dal Ciad all’Honduras, all’Asia estrema.

Ne ho scritto e, almeno di quanto già pubblicato (rispettivamente in Notiziario Diocesano n. 2/gennaio-marzo 2004 e in Il Vangelo, la Chiesa e la Sardegna: una esperienza di vita, Cagliari, 2009), riproporrò, in calce a questo mio elaborato, alcuni stralci, passaggi biografici ricostruiti attraverso il modulo dell’intervista-testimonianza.

Aggiungerei peraltro che sono ormai diversi i libri che presentano squarci biografici di personalità le più varie del clero isolano del Novecento (e anche di questo scorcio di nuovo secolo), ed inevitabilmente i passaggi sulla esperienza cuglieritana hanno il loro spazio. V’è in generale una concordanza nel giudizio ex post, critico sotto svariati aspetti, pur in un quadro di ampi riconoscimenti degli sforzi di superiori e professori tesi a dare il meglio delle loro possibilità per un obiettivo nobile: il servizio alla Chiesa per il servizio al mondo, in una logica di pedagogia evangelica. Per il più si tratta di pagine firmate dai protagonisti stessi che, ormai anziani, ritiratisi dalla vita attiva della parrocchia loro affidata, hanno avvertito il bisogno di mettere ordine fra i ricordi personali e insieme, però, dare lustro e rinnovare l’affetto alle comunità con cui si è condivisa la vita nella alternanza delle scene belle e di quelle brutte.

E quando non sono pagine scritte sono pagine rese non meno espressive da fotografie che richiamano le classi e le camerate, i compagni di studio in gruppo, come può essere il caso di Flavio Cocco. Inediti, saggi, testimonianze, a cura di Tonino Loddo, Peppino Schiavone e Stefano Doneddu, Cagliari, Zonza Editori, 2007. La pagina biografica, all’interno degli atti di un convegno d’onore svoltosi nel nome dell’illustre presbitero ogliastrino – gairese classe 1904, ordinato nel 1931, deceduto nel 1997 –, è qui sobriamente redatta dal vescovo Antioco Piseddu («Il nuovo Vescovo [di Ogliastra] Mons. Giuseppe Miglior, nominato nel 1927, lo inviò per la teologia, al Seminario Regionale di Cuglieri che iniziava in quell’anno la sua attività. Voluto dal Papa Pio XI, era stato arricchito della Facoltà Teologica e doveva riunire i seminaristi maggiori di tutte le diocesi della Sardegna, per assicurare loro, sotto la guida dei Padri Gesuiti, una formazione adeguata ai tempi»), ma a dire è soprattutto una bella istantanea – didascalia «Don Cocco con un gruppi di seminaristi a Cuglieri nel 1929-30» – con impressa l’annotazione «III e IV Teologia»: trenta giovani, invero dai volti già maturi, tutti rigorosamente in talare nera e colletto romano.

Così potrebbe dirsi, sebbene nel caso specifico anche la parte scritta sia abbondante ed anche suggestiva, di Dai campi all’altare, libretto gustosissimo di don Martino Murgia – nativo di Samassi, classe 1923, ordinato nel 1952, storico parroco di Serdiana e della sua stessa Samassi –  uscito a sua cura nel 1992. Tre, qui, le immagini che illuminano: «Consacrazione della camerata alla Madonna. Nel 2° anno di Liceo. Tutta la camerata si consacrò all’Immacolata – 8.12.1946 – Seminario di Cuglieri», «Ancora nubi all’orizzonte Seminario Regionale – Cuglieri. Con le lacrime agli occhi Marcellino lasciò il seminario…», «Lassù verso la meta. Prima di Natale la S. Tonsura… gli Ordini minori e nel dicembre 1951 l’Ordine del Diaconato».

Sarebbe utile, credo, lavorare intorno ad una rassegna completa dei titoli che trattano, con biografie e autobiografie, la materia. Forse sarebbero cento i titoli di questo originale repertorio. Fra i molti altri, per il centratissimo mix di testo ed immagini, oltreché ovviamente per lo spessore umano, spirituale ed ecclesiale della personalità celebrata (a me specialmente cara), dovrei citare i tre volumi usciti per onorare il giovane don Antonio Loi, magnifica figura di santo della malattia: natali a Decimoputzu nel 1936, ordinazione in limine nel 1965, con placet personale di Paolo VI. Almeno tre sono i libri a lui dedicati lungo gli anni – il primo da Luigi Cherchi, Antonio Loi sacerdote di Dio. Una morte che vale una vita, Cagliari, Editrice Sarda Fossataro, 1976; gli altri due da Paolo Risso, rispettivamente Glorifica il tuo figlio. Antonio Loi, Biella, Tipografia Unione Biellese, 1989, con prefazione del vescovo e condiocesano iglesiente Piero Biggio, e Una vita per i sacerdoti: don Antonio Loi, Carbonia, Litografia Susil, 2003. Tutti e tre i volumi comprendono un bellissimo corredo fotografico oltreché, naturalmente, pagine descrittive dense e delicate, da cui molto si evince per la conoscenza più intima del protagonista e per quella del suo collettivo variamente impegnato nelle attività cuglieritane.

Singolarmente interessante è la raccolta biografica – titolo Preti – di una quindicina di presbiteri e presuli operata, nel 2002 (sessantesimo anniversario della propria ordinazione), da don Giovanni Axedu per la sua Libreria Sant’Eusebio di Cagliari. Fra i biografati compaiono don Enrico Pilleri – quartese classe 1919, ordinato nel 1945, per una vita intera cappellano di ospedali, ricoveri e monasteri – a proposito del quale vale menzionare anche … già fin d’ora: essere con Gesù è un dolce Paradiso… Don Enrico Pilleri (presenza sempre viva), un delizioso libretto a lui dedicato nel 2001 da don Gigi e Rosanna Xaxa – e ancora don Antonio Loi. Ma va detto che se per don Pilleri la permanenza cuglieritana fu relativamente breve (limitata alla prima liceo, fra 1938 e 1939) e sofferta a causa di una allora insorta forma tubercolare che lo riportò nel capoluogo (per qui studiare dai minori osservanti di San Mauro e successivamente sotto la diretta direzione dei canonici Orrù, Cabras e Giovanni Cogoni), per don Loi – la cui sorte fu invece crudele non soltanto nel durante ma anche nell’epilogo – si trattò di una esperienza che, al netto della malattia, conobbe il normale processo temporale, accompagnando agli esami la ricezione degli ordini minori e del diaconato.

S’affacciano, nelle diverse opere di tal genere curate un po’ in tutte le diocesi da qualche autore che vuole onorare la memoria dei suoi confratelli più stimati, magari collocandole in un contesto di personaggi fra i meglio significativi della storia della Chiesa locale, i riferimenti biografici di questo o quello. E sono nomi che, nei territori appunto, ancora risaltano per la buona semina ed i buoni raccolti. Come fa ad esempio Nanni Columbano Rum, che in Preti di Gallura. Sette ritratti di sacerdoti indimenticabili, viaggia nel tempo e con gli antichi – metti il vescovo Capece, o il teologo Giommaria Dettori, o il canonico e vicario capitolare Tommaso Muzzetto  e altri ancora non meno egregi (per esempio don Donati) – chiama alla ribalta il già famosissimo don Salvatore Capula – castellanese classe 1904, ordinato nel 1929, professore al minore di Tempio Pausania e poi, per ben 63 anni, dal 1933, parroco di La Maddalena – e quel don Albino Pirodda – aggese classe 1927, ordinato nel 1952 – che legherà il suo nome, anzi la sua vita, troncata prematuramente nel 1969 da un incidente stradale, alla comunità di Luras, dopo un apprendistato olbiese. Di entrambi, di don Capula e don Pirodda, è tracciato anche il cursus studiorum che attraversa anche i tempi del Regionale cuglieritano. Il primo nella squadra addirittura degli esordienti in quel maestoso edificio del Montiferru, dopo il corso filosofico affrontato nel seminario provinciale di Sassari (sarà fatto suddiacono e poi diacono a complemento del primo e del secondo anno di vita del Regionale); il secondo, di una generazione più giovane, che arriva invece giusto all’indomani del secondo conflitto mondiale e vive tutte le complicazioni della ripresa… in povertà sì, ma in pace e in democrazia.

Un cenno merita certamente anche Tra fede e storia. Studi in onore di Don Giovannino Pinna, a cura di Martino Contu, Maria Grazia Cugusi e Manuela Garau, uscito nel 2014 nei Quaderni della Fondazione Mons. Giovannino Pinna, per i tipi della cagliaritana AIPSA Edizioni. Vi è fra l’altro riportata una lettera di don Giovannino – gonnese classe 1944, ordinato nel 1969, una lunga sequenza di parrocati o vicariati nella diocesi di Ales, fra Pabillonis e Uras, Baressa, Baratili e soprattutto Villacidro, ed una cattedra all’Istituto di Scienze religiose – da lui, allora ventenne, spedita il 3 gennaio 1964, da Cuglieri, ai genitori: «[C’] è molta gente nel mondo – è lo stralcio del testo riportato da Contu nel suo saggio introduttivo – che non si accorge che il tempo passa e non ritorna più, e vive così senza rendersi conto di quello che fa e di quello che sarebbe bene fare… E noi che cosa dobbiamo fare di fronte al tempo che passa veloce e non torna più? Voi, carissimi genitori, lo sapete anche meglio di me, mi rispondete subito, dicendo: “basta che tutti i giorni impieghiamo bene il nostro tempo, ricordandoci soprattutto di pregare con fiducia Iddio e rimanendo sempre sereni, fiduciosi nella Divina Provvidenza”».

Vorrei richiamare altresì una più recente e bella pubblicazione dedicata da Lucia Utzeri e Giuseppe Antonelli ad un “Sacerdote Maestro di Carità” – così anche nel titolo – distintosi nell’archidiocesi di Cagliari come direttore per lunghi anni della POA e quindi dell’ODA, nonché, a livello regionale, come responsabile della Caritas nella sua prima formulazione paolina: Alfio Paulis, quartese classe 1920, ordinato nel 1945. Alfio Paulis Sacerdote Maestro di Carità, Iglesias, Cooperativa Tipografica Editoriale, 2013. Diffuse, anche qui, sono le pagine direttamente riferite agli studi cuglieritani, con una foto del seminarista ventenne (e altre di gruppo, però riferite al minore di Cagliari). Tutti profondamente spirituali, talvolta di autocritica talaltra di recupero e slancio, gli scritti del giovane chierico ripresi nel testo: «Sono quasi una quindicina di giorni, che prego male, perché vi metto poco o nessun impegno. Ho trascurato anche la recita del Santo Breviario. Sono stato insofferente delle prove che il Signore mi ha mandato a riguardo della mia salute…. Ho trascurato quasi tutti i miei doveri di prefetto e di alunno. Poveri propositi fatti con tanta decisione nei Santi Spirituali Esercizi! Sono stato fedele solo al proposito di offrire ogni giorno un fioretto speciale alla Madonna…», «… prendo le cose con leggerezza e non sono capace di farmi distanza, di vincermi… Perdono, mio Dio! Sono incostante nelle mie risoluzioni», «Sono fiacco di volontà, concedetemi la grazia di ricevere nel giorno della Pentecoste, il Divino Paraclito con i suoi doni…», «Vincere e rinnegare noi stessi in modo da formarci chierici pronti a combattere e vincere sia il demonio che il peccato…».

Del percorso cuglieritano di suo fratello minore scrive un degnissimo presbitero dell’archidiocesi di Cagliari anch’egli, come gli altri due di casa, per fare così quattro, passato per quell’esperienza: don Dino Pittau autore di Don Tonio Pittau sacerdote per la comunità, Cagliari, 1998. Un tocco appena nella ricostruzione biografica puntata soprattutto a dar conto, di don Tonio – samassese classe 1938, prete dal 1962, in benedizione dal 1988 –, dei parrocati in serie, fra San Giuseppe di Pirri, Sant’Avendrace e Santa Cecilia nella cattedrale di Santa Maria, e prima di essi dell’esperienza di studio e insieme missionaria in quel di Bruxelles, fra le comunità dei nostri emigrati. Fino all’epilogo tragico e ingiusto che tutti conoscono. «Ottenuta la licenza ginnasiale, Tonio incomincia nel Seminario regionale di Cuglieri l’iter filosofico e teologico – scrive don Dino –. Man mano che il sacerdozio diventa prospettiva vicina, il suo entusiasmo cresce a dismisura nello studio, nella formazione spirituale, nello stupore delle primi intuizioni pastorali… I Padri Gesuiti del seminario di Cuglieri, esperti conoscitori dell’intimo dei giovani e solerti maestri nel plasmarne i cuori e le menti, costruttori infaticabili di personalità spiccate e di apostoli, intuiscono le doti intellettuali non comuni di Tonio, sono penetrati nel suo intimo, incoraggiandone gli slanci e additandogli le mete nell’ambito sacerdotale, non solo come termine di un lungo cammino, ma soprattutto come espressione dell’aspirazione alla radicalità evangelica, che richiede l’abolizione delle mezze misure. Il giovane seminarista viene proiettato senza risparmio nell’apprendimento…».

Naturalmente – avendo già detto che i titoli interessanti sono nell’ordine di un centinaio – non potrei dilungarmi oltre. Di monsignor Paolo Carta vorrei sì dire, però, trattandosi di una personalità cui sono stato direttamente legato in vari momenti della sua e della mia vita, e anche di altri due preti ben noti per la loro pastoralità all’interno del clero isolano: don Salvatore Sanna (nativo di Solarussa, classe 1924) e don Antonio Porcu (originario di Quartucciu, classe 1928), delle archidiocesi rispettivamente di Oristano e di Cagliari e parroci storici l’uno di Isili e l’altro di Quartu Sant’Elena. Entrambi hanno lasciato un libro di memorie estremamente godibili, il primo dei due un testo che è anche accompagnato da un indovinato e ricchissimo supporto fotografico (di sequenze tanto private e familiari quanto parrocchiali, anche se, purtroppo, senza didascalie: e comunque riguardanti le tappe di Ghilarza, Mogorella, Simaxis e… per mezzo secolo, Isili. Nel novero però anche una classe o interclasse di tutti talarini… in dubbio comunque che sia proprio quella cuglieritana).  A parte quattro tavole manoscritte (dei tempi cuglieritani, perché di vigilia dell’ordinazione), il secondo presenta invece, a riguardo dell’appendice fotografica, i quadri delle parrocchiali servite nel tempo, San Giorgio Martire a Quartucciu e San Giorgio Martire a Segariu, San Giacomo Apostolo a Mandas, Sant’Eusebio vescovo e poi Sant’Anna a Cagliari e infine Sant’Elena a Quartu (qui dal 1984 al 2010).

Troverò modo, più oltre, di richiamare in maggior spazio le testimonianze rese dai due presbiteri tanto amati dalle loro comunità elettive.

Scrive don Paolo Carta…

Pagine autobiografiche (con tracce importanti sull’esperienza cuglieritana) sono anche quelle di Paolo Carta, compianto arcivescovo emerito di Sassari, consegnate al vol. II di Miscellanea ieri e oggi. Notiziario Diocesano, a cura di Gianfranco Zuncheddu, Cagliari, 2000. Vicenda singolare quella di don Paolo – serdianese classe 1907, ordinato presbitero nel 1935, vescovo di Foggia nel 1955, arcivescovo di Sassari dal 1962 al 1982 –, passato allo studio di teologia dopo la laurea romana in Economia e Commercio e in costanza di presidenza diocesana della Gioventù di Azione Cattolica. Una testimonianza vivace e precisa: «il 15 settembre 1931 entrai nel Seminario regionale della Sardegna… Comprendeva il Corso Liceale, di tre anni, e il Corso Teologico, di quattro anni, con due Sezioni: Corso Seminaristico e Corso Accademico per il conseguimento del Baccellierato, della Licenza e della Laurea in Teologia. I Chierici erano allora circa trecento, delle undici Diocesi della Sardegna.

«Superato un facile esame, fui ammesso in Prima Teologia. Eravamo pochi alunni per la Teologia Fondamentale, ma con tutti gli alunni dei quattro anni di Teologia per le altre materie comuni, che si studiavano con metodo ciclico. Mi trovai così in mezzo a tanti compagni più giovani di me, ma più bravi di me negli studi, perché io faticavo a capire i professori che tenevano le lezioni in latino, faticavo a capire i testi in latino, e faticavo ancora di più a rispondere in latino quando venivo interrogato. Ero un Chierico handicappato! Per Giunta, il Signore non mi ha fatto il dono di una felice memoria, per cui dovevo supplire con la buona volontà e con forte impegno di studio. Di fronte a compagni che brillavano per intelligenza, per cultura e per i massimi voti nella pagella, io dovevo contentarmi di modesti risultati e rassegnarmi a inevitabili umiliazioni.

«La situazione si aggravò poi nel secondo anno, quando – nonostante le mie resistenze – Monsignor Piovella mi impose l’obbedienza di frequentare il Corso Accademico di Teologia per conseguire almeno la Licenza; Corso molto più impegnativo, tenuto dal Padre Carlo Bozzola, brillantissimo per dottrina e per chiarezza, ma esigente con i discepoli, e specialmente con me, fino a umiliarmi, in una disputa, davanti ai miei compagni. Collaborava così alla mia formazione alla virtù dell’umiltà!

«… arrivai a conseguire la Licenza di Teologia col voto di “Bene probatus”. Mons. Piovella ne fu lieto e mi disse. “Non ti lascio per la laurea, perché hai già il titolo di Dottore dagli studi precedenti”. Ma quei quattro anni nel Seminario di Cuglieri furono provvidenziali per la mia formazione umana perché, dai 24 ai 28 anni, ho dovuto adattarmi a dormire in un grande camerone comune (mai in camera singola); fare le scale in fila con gli altri, e in fila con gli altri attraversare il paese di Cuglieri; a guidare una camerata di chierici, prima come Vice Prefetto, poi come Prefetto (così si chiamavano i Chierici preposti alle camerate).

«Ma furono anche anni meravigliosi per la amicizia che io strinsi con Chierici di tutte le Diocesi, per l’allegria che suscitavo con le mie scenette comiche in italiano e in dialetto, ripetendo quelle che avevo tenuto da giovane laico con la Filodrammatica che avevo organizzato nel mio paese, Serdiana. Ero diventato famoso specialmente per le recite della commedia sarda “Ziu Paddori”. Inoltre, un anno avevo messo in azione nella mia camerata una specie di banda musicale, nella quale io mi ero riservato la parte di “musicante con i piatti”, e i piatti erano due coperchi di marmitte che avevo chiesto in prestito al personale della cucina. Di quegli anni ricordo con profonda gratitudine il rettore Padre Alfonso Martin, il Vice Rettore Padre Angelo Aramu, il Confessore Padre Bozzola e il già ricordato Professore di Dogmatica Padre Carlo Bozzola, al quale sono rimasto legato da cordialissima amicizia…».

Una memoria fra le memorie, quella di don Antonio Loi

Un’ultima immersione nel vissuto personale dei chierici cuglieritani me la strappa don Antonio Loi, chiamato ora al venerabilato e, spero proprio, anche di più nel tempo che verrà. La sua esperienza al Regionale va dal 1954 – quando si iscrive alla prima liceo – al 1962, anno di quarta teologia del corso accademico; nel mezzo – a valere come ponte fra liceo e quadriennio teologico – l’anno cosiddetto filosofico. Sempre buono o molto buono il profitto degli studi, ma non solo negli studi. Ne scrive don Axedu, e il suo richiamo coinvolge da subito un altro nome caro: «Antonio praticava lo sport con passione… Nel 1957 riportò il massimo nelle gare in alto (1.60). Nel 1957 Efisio Spettu riuscì a battere Antonio nel salto in lungo segnando m. 5.42, mentre Antonio segnò 5.40. Fu l’unica volta che Antonio perse il record».

E ancora: «Fu sempre appassionato per il canto. Da ragazzo era dotato di una buona voce bianca: era perfettamente intonato e spiccava sulla voce degli altri compagni. Quando cambiò voce, divenne tenore. I compagni ricordano in particolare l’esecuzione dell’operetta “Marco il pescatore” composta da lui… Antonio era già sofferente. Il dolore fisico che si faceva strada in modo così violento contribuì ad una maggiore drammaticità ed espressività della parte di Marco. Ma le sue forze ne risentirono».

Vice prefetto e poi prefetto delle classi liceali, nei suoi anni di teologia: ma nel diario usava firmarsi «fratello maggiore». «Fu catechista a Cuglieri – ricorda don Axedu –. Il padre Paolo Gamba gli aveva affidato questo compito», che continuò a svolgere, d’ordinario, in parrocchia, a Decimoputzu, nei tempi di vacanza.

La malattia colpì pesante quando era in terza teologia, costringendolo a ricoveri, e a sballottare, da allora, il suo corso di studi. Rientrò a Cuglieri nell’autunno 1961, gli fu allestita anche una camera tutta sua e calda, e il vescovo Giovanni Pirastru pagò anticipato e di più perché ogni comfort alberghiero gli fosse assicurato. Ma furono allora altre crisi acute e altri ricoveri a Cagliari, e poi altri ritorni al Regionale in vista di dare gli esami del quarto anno. Sfiancante tutto il 1962 e nuovo, ennesimo ricovero ai primi del 1963: la diagnosi accertata parlava di linfogranuloma maligno, malattia mortale che andava allora «corrodendo i tessuti linfatici e ghiandolari e le giunture ossee».

E’ ancora don Axedu, al tempo parroco di Sinnai (dopo esser stato per più tempo padre spirituale nel seminario arcivescovile del capoluogo): «Il dott. [Luigi] Cherchi appena seppe della vera malattia di Antonio, il 23 febbraio 1963, andò ad Iglesias per parlare col vescovo Mons. Pirastru… Il dott. Cherchi chiedeva al vescovo che Antonio venisse ordinato sacerdote [a titolo di servizio per la diocesi]. Il vescovo non si dimostrò contrario, però faceva osservare che Antonio non aveva dato gli esami delle materie principali: Dogmatica, Morale, Diritto, Sacra Scrittura e che per l’ordinazione ci voleva la dispensa della Congregazione dei Seminari.

«Il dott. Cherchi parlò con il vicario generale di Iglesias, Mons. Mario Melis e col padre Rettore del Seminario di Cuglieri, padre Aldo Lanz. Questi assicurò di essere dispostissimo a dare il suo benestare perché Antonio fosse ordinato sacerdote. Invece monsignor Melis, tenendo contro che le condizioni di salute si aggravavano da un giorno all’altro, pensava che forse era meglio prepararlo alla rinuncia del sacerdozio… Mons. Vescovo decise che Antonio sarebbe stato ordinato quanto prima suddiacono. Antonio aveva già ricevuto la tonsura il 20 dicembre 1958 nel Seminario di Cuglieri da Mons. Carlo Re, vescovo di Tempio. Ricevette gli ordini minori dell’Ostiariato e del Lettorato il 19 dicembre 1959, dell’Esorcistato e dell’Accolitato il 17 dicembre 1960. Nell’episcopio di Iglesias fu ordinato suddiacono il 7 luglio 1963, e il 28 luglio 1963 diacono».

La richiesta di autorizzazione all’ordinazione straordinaria fu accolta da Roma alla vigilia quasi della seconda sessione conciliare, dopo l’elezione – avvenuta a giugno – di papa Montini. Tutto si compì il 21 settembre 1963 nello strazio continuo delle sofferenze fisiche. Il 4 maggio 1964, in una toccante udienza personale, il pontefice accolse e abbracciò il giovane prete sardo.

Storie di vita vera, di vita vissuta, anche di vita dura… Ma tutto questo voleva essere, adesso, soltanto l’incipit giusto – lungo ma giusto! – per avvalorare la considerazione finale che mi è venuta spontanea dopo la lettura del nuovo corposo libro di Tonino Cabizzosu dedicato alle esperienze formative di tanta parte del clero isolano del Novecento. L’ho detto: mille preti secolari sono usciti infatti dal seminario maggiore della Sardegna ed hanno inevitabilmente portato nelle rispettive diocesi, dopo l’ordinazione e i titoli pastorali od accademici del proprio cursus studiorum guidato dai padri della Compagnia di Gesù, quell’afflato comunitario regionale che era il tanto che necessitava a quella certa Chiesa dei tempi ormai remoti cresciuta all’ombra dei campanili separati e talvolta in competizione.

In una Sardegna divisa in mille anime-fazioni, in un’isola parsa tante volte come un insieme di isole neppure interessate a farsi arcipelago ed invece attraversate da energie centrifughe piuttosto che centripete, dovere della Chiesa – essa stessa penalizzata da una realtà tanto contraddittoria e sterile – era l’autocorrezione e addirittura la proposta di sé come modello di unità, senza conformazioni artificiose però. Al contrario, secondo nuove dinamiche mosse da uno spirito alto, consapevolmente comunitario ed anzi comunionale. Una scommessa, una grande scommessa. La Chiesa come icona sociale, come sistema o, se vuoi, come trama e insieme ordito, simbolo vivente di scambi che meticciano preservando ogni originalità. Questo l’obiettivo, questa la tensione, questo lo sforzo.

Quattrocento pagine… introduttive ad una storia

Quarantaquattro anni riassuntivi di un secolo intero, per le eredità ideali e sociali ricevute, per le anticipazioni di un futuro già prefigurato da avvisaglie non tutte tempestivamente colte per essere stornate quando negative od essere, al contrario, meglio indirizzate e sfruttate se positive. Nel mezzo, però, la storia vissuta nel quotidiano materiale dentro scenari sociali in successione, complessi, discordi talvolta e anche recessivi, o rapsodicamente evolutivi, d’impianto o traguardo perfino rovesciato, fra guerra e pace così come fra dittatura e democrazia, ma anche fra spontaneismo liberista (anni ’50) e pianificazione partecipata (anni ’60 e successivi), fra tradizione agricola ed avanzamenti industriali e tecnologici, fra quietismi convenzionali e smarrimenti psicologici di massa. Appunto il tempo che accoglie e segna – o soltanto in parte segna, quando a vincere è la propensione partecipativa – la biografia comunitaria ed intellettuale del seminario cuglieritano di cui scrive Tonino Cabizzosu nel recentissimo suo ultimo studio dato alle stampe – primo volume di una annunciata trilogia – con i tipi impressi dalla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna: Per una storia del seminario regionale di Cuglieri (1927-1971).

Già anticipato in Theologica & Historica, vol. XVI (degli Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna), Cagliari 2007, in un testo poi rifluito in Ricerche socio-religiose sulla Chiesa sarda tra ‘800 e ‘900, vol. III, Cagliari 2009 – corposa miscellanea dello stesso autore –, lo studio di Cabizzosu utilizza molto opportunamente anche un’altra sua anticipazione offerta a Iuventuti docendae ac educandae. Per gli ottant’anni della Facoltà Teologica della Sardegna, un volume curato insieme con Luciano Armando ed uscito a Cagliari, per i tipi della aisara, anch’esso nel 2007, in una bella collana rubricata come “Studi e Ricerche di Cultura Religiosa” dalla medesima Facoltà.

Importava fare questa zoomata sui precedenti perché è merito di Cabizzosu, e invero di diversi dei suoi migliori colleghi di cattedra, quello di seminare anticipazioni per poi concludere in gloria nei tempi maturi: intanto impreziosendo annali o libri comunque collettanei per i quali si chiede la collaborazione, e così dando anche conto delle proprie ricerche in corso, e per invitare, col garbo della implicitazione, il pubblico dei lettori a partecipare, con contributi originali – fornendo documentazione e/o, spesso, testimonianza – al completamento dello studio, alle verifiche necessarie di fatti o di interpretazioni già affacciate.

Sotto questo particolare profilo, Tonino Cabizzosu – presbitero della Chiesa ozierese con molti e delicati incarichi diocesani e la cura del bel parrocato di Ittireddu (dopo quello recente di Ardara e quello più remoto di Bottida), professore di Storia della Chiesa alla facoltà del Sacro Cuore di Cagliari, autore di cinquanta e più monografie e molte centinaia di articoli – è un vero maestro. Forse si presta alla cosa la materia della quale è uno specialista, perché egli può ben fare riferimento ad una letteratura ormai cospicua ed insieme ad una platea di coprotagonisti della sua storia – che è la storia della Chiesa sarda contemporanea, distesa fra Ottocento e Novecento – da cui è possibile ricavare, finché si può, apporti preziosi, talvolta decisivi e forse definitivi. Sarà questo, ma a contare è il risultato, eccellente sempre.

La stessa lettura critica della ricca e complessa bibliografia di Tonino Cabizzosu dovrebbe considerare questa categoria che chiamerei della “socializzazione delle schede”, nel senso della raccolta possibile e larga – indubbiamente più facile, ripeto, per un modernista o contemporaneista che non, per dire… per un medievista – di contributi che possono derivare dalle collezioni personali di virtuosi bibliofili ed amatori, ma anche e più ancora da memorie calde, da filtrare ovviamente, che riportano ad esperienze umane ed a relazioni istituzionali che nel documento non sono state fissate ma pur mantengono l’autorevolezza della veridicità.

Non perde nulla del rigore scientifico un processo di ricerca che, di lato a quelle classiche, utilizza fonti un tempo ritenute secondarie, come ad esempio la stampa quotidiana o periodica e, tanto più, la memorialistica comunque formalizzata. Il rigore è nel riscontro della autenticità delle fonti e nelle verifiche incrociate che ne sono quasi un corollario. Tutto sta poi a dichiarare apertamente il paniere ed il settaggio dei contenuti di quest’ultimo, fra editi ed inediti, unità d’archivio con epistolari e diari, giornali e memoriali ed anche, appunto, testimonianze in progress.

E come potrebbe non confluire tutto ciò in un’opera come questa storia, invero indicata, con intento di modestia, come soltanto propedeutica ad una storia di là da venire (ed è in ciò, infatti, il senso della preposizione “Per” in apertura del titolo: Per una storia del seminario regionale…)? Peraltro va detto da subito che il primo volume dell’annunciata trilogia attinge essenzialmente agli archivi del seminario e della facoltà Teologica – per la massiva parte inedita – ed a quelli di talune diocesi (Alghero e Bosa, Cagliari ed Ozieri), alle carte personali dell’autore (custodite nel suo megaarchivio illoraese), alla stampa di Chiesa (dal Monitore all’Eco del Regionale, ai notiziari Gesuiti Italia e Pontificia Facoltà Teologica Sardegna). Si tratta dunque per adesso di fonti tutte scritte: centrali, in tutto questo, i diari dei filosofi e dei teologi, quello di cappella, l’orario, il registro ex alunni 1928-1963, i registri delle iscrizioni e delle ordinazioni, i protocolli di corrispondenza, le relazioni rettorali alla Conferenza Episcopale Sarda, ecc.). Quelle orali saranno in campo soltanto quando si andrà a completare la trilogia e verranno come per darci modo di percepire nella loro tangibilità le premesse delle storie vissute fin qui, la fecondità della semina operata attraverso quelle lezioni dotte – o non dotte, o non tutte dotte, si vedrà –, quella certa spiritualità affinata nelle tornate di preghiera, soprattutto quel condursi “insieme” in una comunità strutturata. Perché, i preti oggi anziani, giovani lo sono stati anch’essi, nella stagione cuglieritana, giovani 18-25enni.

L’esperienza di due decenni ed oltre compiuta da Cabizzosu alla testa dell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari ha certamente favorito, in aggiunta ad altre variamente motivate e vissute, rapporti e utili scambi ora confidenziali ora formali, del professore-direttore con larga parte del clero non soltanto in capo alla sede metropolitana ma direi più in generale sparso fra parrocchie, istituti e uffici di tutte quante le undici (oggi dieci) diocesi isolane. Da lì, o anche da lì, sono certamente venuti spunti e veri e propri notiziari degni di vaglio ed elaborazione, sicché è anche di quei processi che noi oggi godiamo gli esiti ultimi. (Mestamente aggiungerei, per connessione tematica, che la perdita di Cabizzosu al servizio direttivo dell’Archivio, nel 2012, pessimamente gestita dall’arcivescovo Miglio che mai s’è davvero mostrato interessato alle nostre cose, ha finito per rivelarsi, a mio avviso, pressoché esiziale per la sorte delle relazioni diocesane con la comunità degli studiosi, per il più laici, così come alla permanenza di protagonismo dell’Archivio stesso sulla scena regionale delle istituzioni di deposito culturale e di promozione di studi e ricerche).

Il libro, fra sezioni tematiche e zoomate cronologiche

Si diffonde, questo volume appena distribuito a librerie e biblioteche, in quattrocento dense pagine, a loro volta raccolte in quattordici capitoli, e con una gustosissima, straordinaria appendice fotografica: sono sessantasei scatti, che speriamo di poter didascalizzare, perché ogni immagine evoca nomi e tempi, e dunque storie, fatti e sentimenti, sia quando si tratti di persone, di singoli e di gruppi, sia quando si tratti di luoghi, di spazi aperti o chiusi, dello stabilimento in costruzione fra i monti della vallata collinare e delle sobrie, austere monumentalità poste all’accoglienza d’una comunità sempre affollata: tale che, nei quarantaquattro anni scolastici/accademici, la successione si comporrà di almeno mille iscritti ed integrerà in essa, evidentemente, la compagine dei docenti e superiori, dei collaboratori e delle suore. Le foto presentate costituiscono un corpus unitario ma rivengono da prestiti diversi, a conferma di quanto dicevo circa le collaborazioni suscitate ed acquisite: concessioni del cuglieritano Giovanni Perria e di monsignor Gavino Leone, oltreché nella disponibilità dell’archivio della facoltà Teologica della Sardegna.

Saranno senz’altro i competenti ad entrare nello stretto merito di questo prezioso studio di Tonino Cabizzosu prefato da Maurilio Guasco, emerito di Storia del pensiero politico contemporaneo della Università del Piemonte Orientale (e uno dei più apprezzati studiosi del modernismo e delle relazioni fra politica e religione nel Novecento europeo, nonché autore di una bellissima Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, edita da Laterza nel 1997, e di altri volumi sulla formazione clericale nei tempi moderni). Io mi limiterò a qualche cenno sull’impostazione del lavoro ed a fornire semmai qualche contributo laterale o di secondo livello, idealmente dedicando questa partecipazione al mio amico perduto don Efisio Spettu, che del Regionale – ormai però trasferito a Cagliari – sarebbe stato il rettore dal 1992 al 2006 (e però già allievo a Cuglieri dalla giusta metà degli anni ‘50 al 1963). E che per il Regionale dette il meglio delle sue risorse, incontrando invece nell’episcopato sardo indolenze e perfino neghittosità infedeli, e nella presidenza pro tempore della CES, anche dopo la propria rinuncia all’ufficio sgambettato, intenti addirittura di smantellamento assolutamente scriteriati in una autoreferenzialità ingiustificata, supponente e inconsistente.

Sotto questo aspetto particolare – mi concedo questa rapida digressione – direi essersi persa nel nulla anche la giornata organizzata dagli ex alunni nel 40° anniversario del trasferimento da Cuglieri a Cagliari, presente (e presidente della liturgia concelebrata) don Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato e studente anche lui a Cuglieri (e in ultimo anche a Cagliari). Il testo della sua riflessione omiletica, con qualche cenno di cronaca, è in Notiziario Diocesano n. 2/aprile-giugno 2012.

Introdotto dai saluti del preside Francesco Maceri e del rettore Antonio Mura, a capo rispettivamente della facoltà Teologica e del seminario, e da una nota dello stesso autore, il volume si apre sorprendentemente con una pagina di don Primo Mazzolari. Figura grandiosa e giustamente riabilitata di recente da papa Bergoglio, Mazzolari era cremonese, della stessa provenienza cioè di Cleto Cassani, arcivescovo di Sassari nei calamitosi anni finali della grande guerra e del primo fascismo (e che parte non secondaria ebbe nel processo di fondazione del seminario cuglieritano, come superamento anche dell’idea di istituire autonomi seminari provinciali). Egli – don Primo, dico – compì una visita in Sardegna nel gennaio 1953, fermandosi in più centri, fra cui Carbonia ove tenne una conferenza di “sociologia cristiana” nell’affollata sala del CRAL, e una puntata la fece anche a Cuglieri il 24, un sabato. «La Sardegna, il suo stesso avvenire civile ha nel seminario di Cuglieri la sua riserva meravigliosa, la sua primavera… Guardo e m’incanto, dimenticando le larghe distese di certe zone attraversate nei giorni scorsi, senza cure, senza alberi, senza braccia. Ora so che il deserto fiorirà, perché il cuore di questi cari giovani custodisce la parola di vita per il tempo e per l’eternità, per il cielo e per la terra»: questo poi scrisse in un messaggio di memoria e ringraziamento.

Quel riferimento al “deserto” sardo dei primi anni ’50 mi ha riportato alla mente quello stesso che intravide don Giovanni Battista Montini – il futuro Paolo VI – nel febbraio 1928, a meno d’un anno dunque dall’apertura del Regionale, quando venne per la prima volta in Sardegna per un impegno FUCI, e in treno discese da Golfo Aranci fino a Cagliari, dopo una sosta sassarese (appunto dall’arcivescovo Cassani). Nel passo centrale si legge: «Il paesaggio. Ecco l’unico interesse di questo desolato paese. Ma è l’interesse delle cose compassionevoli, che non ricrea e non consola, ma lascia un languido senso di sconfitto stupore. La terra è pietra, con una pelurie verde, senza sfarzo alcuno, con qualche ciuffo addormentato e qualche albero ostinato che sembra distendere i rami come braccia per implorare pietà. Certe zone son così piene di sassi da sembrare ora tempestate da una brutale grandine di rocce. La vegetazione è stanca senza rigoglio, senza speranza. I paesi sono poveri e rari. Abbiamo ora passato la regione di Macomer… Il Sud, dove ora corre il treno, dopo Oristano, è piano e coltivato…». Scriveva dal treno, don Montini, e per pura coincidenza ciò avveniva a poche decine di chilometri dal nuovo seminario sardo… (Il testo, datato 10 febbraio 1928, è compreso in Lettere ai familiari, 1919-1943, Brescia, istituto Paolo VI, 1986).

La struttura del libro, dunque: “Gli antefatti”, “Scritti di fondazione e inaugurazione”, “I regolamenti” sono i titoli dei primi tre capitoli. I primi due si concentrano sul caso sardo, naturalmente inquadrato nella opzione che fu di papa Ratti fin dai primi anni del suo pontificato: al riordinamento degli studi ecclesiastici si sarebbe dovuto accompagnare l’ istituzione dei seminari regionali (o comunque interdiocesani) in Italia, soprattutto nel centro-sud, superando quella parcellizzazione diocesana, di campanile, che pareva controproducente, incapace di generare o liberare le tante energie insieme culturali ed ecclesiali pur presenti, almeno in potenza, nelle nuove leve entrate negli approfondimenti teologici.

Sembra qui importante, oltre ai rimandi testuali (quelli pontifici cioè), il focus che l’autore propone sia sulle esperienze formative sviluppate nel passaggio di secolo, tanto più nelle maggiori metropolie sarde di Cagliari e Sassari – con parziale richiamo dei chierici dalle sedi suffraganee (Ales i suoi li mandava ad Anagni, altre diocesi – Alghero, Tempio e Tortolì cioè Ogliastra – pensavano di bastare a sé!) –, sia sulla visita apostolica che fu condotta da monsignor Leopoldo Capitani nel 1921 ed anticipò di poco il Concilio Plenario Sardo che pure intese auspicare l’unificazione dei corsi e dei luoghi di studio. Si sa che i seminari diocesani isolani versavano quasi tutti in crisi, per la pochezza dei mezzi ma anche di chi avrebbe dovuto assicurare qualità alle lezioni ed alla disciplina delle comunità: i vincenziani a Sassari, i gesuiti a Cagliari loro sì, invece, assicuravano con una direzione attenta e competente sbocchi all’altezza, presentando soluzioni attrattive dei chierici delle rispettive province ecclesiastiche.

Dall’indomani del Concilio di Trento – precisamente dal 1562 e dal 1564 – erano stati i padri della Compagnia di Gesù ad assumersi l’onere di dar vita ai collegi teologici, vere e proprie facoltà universitarie autorizzate a rilasciare, nel tempo, attestati accademici riconosciuti dallo stesso diritto regio (spagnolo, poi piemontese).

L’abolizione delle facoltà teologiche disposta nel 1873 dalla legislazione del nuovo regno d’Italia portò tre anni dopo, per la richiesta dei vescovi isolani e i… buoni uffici spesi dal servita padre Bonfiglio Mura, intimo di Pio IX e prossimo arcivescovo di Oristano, al placet papale circa il rilascio dei gradi accademici (baccellierato, licenza e dottorato) da parte dei due collegi nei capi opposti dell’Isola. La storia preparava, intanto, altre chances.

Come detto, molto, o il più, del cantiere cuglieritano si deve all’arcivescovo turritano Cleto Cassani che il 15 febbraio 1924 proponeva alla Congregazione dei Seminari e delle Università retta dal cardinale Gaetano Bisleti – lo stesso che avrebbe consacrato e inaugurato la grande basilica di Bonaria nell’aprile 1926 – di rinunciare alla ipotizzata (dalla Santa Sede) istituzione di due seminari provinciali e puntare direttamente al seminario regionale sia per ragioni pratiche, organizzative e finanziarie, sia anche, sotto il profilo piuttosto pedagogico-formativo, per favorire l’osmosi fra i giovani chierici delle diverse parti dell’Isola, strappandoli così dal chiuso dei recinti diocesani d’appartenenza: contro le «gare campanilistiche», e invece per favorire «affiatamento» e «concordia» e «per affratellare il clero delle due provincie». L’idea lanciata fu allora Macomer, in subordine Abbasanta – soluzione resistente e ben quotata –, si sarebbe pensato anche a Santu Lussurgiu; Cuglieri fu un ripiego, non infelice però.

D’accordo anche l’arcivescovo di Oristano Delrio, anzi forse decisivo nel superare le riserve che in Vaticano stesso si nutrivano circa il sottrarre a Cagliari – la maggior città isolana e sede di una università regia che andava rafforzandosi (stava per essere reintrodotta la facoltà di Lettere e Filosofia) – il collegio teologico. Le sue argomentazioni, tutte fondate, strapparono infine anche il consenso, all’inizio incerto in quanto esclusivamente alla localizzazione, di monsignor Ernesto Maria Piovella, metropolita di Cagliari e personalità d’eccellenza dell’episcopato sardo di cui era pure il vice decano (ordinato nel 1907 per la prima cattedra di Alghero, e passato nel 1914 ad Oristano, a Cagliari dal 1920).

Una lunga gestazione: informali discussioni in occasione del Concilio oristanese del maggio 1924, nuova propensione (del cardinale legato, non dei vescovi) per Macomer contro Abbasanta, voto invece per Abbasanta sostenuto da ragioni igienico-climatiche (a pensare alla malaria) prospettate da parte del col. Marchiafava e del prof. Torizzi, interessati come periti al pari del medico provinciale Frongia. Altre perizie e altre verifiche, imprevista ma forse tardiva l’offerta di Arzana (seminario agricolo fondato da monsignor Emanuele Virgilio) da parte del nuovo ordinario ogliastrino, monsignor Antonio Tommaso Videmari, e finalmente la decisione: Cuglieri, Kuliaris in antico.

Centro minimo in quanto a dimensioni – cinquemila residenti al censimento del 1921, spalmato a quasi 500 metri sul livello del mare nel fianco occidentale-meridionale del colle Bardosu, con una costa alquanto mossa ed un clima temperato (ma con cadute invernali) – Cuglieri vantava storie remote e perfino quella di Cornus, municipio romano dopo un glorioso passato sardo-punico, si ricollegava alle sue mitiche glorie. Fu proprio lì, fra l’altro, che avrebbe avuto ufficio e autorità uno dei vescovi di più lontana memoria isolana, addirittura del V sec. (detto vescovo di Senafer)…

Sono molte le pagine, e tutte particolarmente avvincenti, che Cabizzosu dedica alle trattative decisionali che porteranno alla scelta del Montiferru e di Cuglieri in particolare. Si tratta di pagine che preparano ad entrare – sembrerebbe proprio fisicamente – nel grande stabilimento che da quei mesi del 1924, e materialmente dal 2 aprile 1925, lungo un migliaio di giorni di fatiche operaie e tecniche, prenderà corpo nel mezzo del fascinoso verde collinare di una delle zone più antiche della Sardegna: disboscamento, livellamento, fondazioni, 16.500 i metri cubi di terra movimentata. Il 4 agosto la benedizione collegiale, del cardinale Bisleti e di tutti i vescovi sardi, della prima pietra del futuro edificio.

Associata al seminario fu da subito, dunque, la facoltà/le facoltà (di teologia e filosofia, con corsi distinti, il secondo da intendersi come triennio liceale a sua volta articolato, almeno all’inizio, in un indirizzo letterario ed in uno più specificamente filosofico) unificativa dei due istituti di Cagliari e Sassari e della sezione oristanese: vi provvide, come fonte costitutiva, la Nostrarum partem, licenziata nel 1927 da Pio XI, il quale pure accollò alla Santa Sede tutti gli oneri di fabbrica.

Molto ben articolata l’intera la sequenza degli atti normativi a firma del pontefice fino all’inquadramento del caso Cuglieri all’interno di riassetti regionali od interdiocesani operati nell’arco di circa due decenni – e già da papa Leone, da Pio X, da Benedetto XV –, ed in vista essenzialmente di migliorare la qualità degli studi, nel Lazio e in Campania, in Calabria e nelle Marche, in Abruzzo, in Umbria ed in Emilia Romagna.

Affidata l’impresa per la parte ispirativa a Santa Maria della Neve, «primaria cleri institutrice» – come la definisce l’autore – ed ai padri gesuiti per la parte organizzativa e anche docente, seppure in partnership con il clero diocesano (Filia da Sassari, Frau da Tempio, Deriu da Alghero, Vacca da Ozieri, Cogoni da Cagliari furono i primi designati, da subito presente anche Forestan da Bosa), le maggiori regolamentazioni, nella forma della costituzione apostolica, paiono quelle del 1927 – la citata Nostrarum partem – e del 1931, la Deus scientiarum Dominus. Restando l’alto governo alla Sacra Congregazione dei Seminari, si cercò di definire le modalità per la preservazione della scientificità degli studi, intanto ponendo molti paletti a difesa della autorevolezza dei curricola dei docenti in cattedra, e definendo nei piani di studio la cosiddetta “disciplina precipua” (dogmatica in teologia, scolastica in filosofia) e quelle altre consimili distinguibili fra “principali”, “ausiliarie” e “speciali”, nonché qualificando e graduando i titoli accademici come già nel passato.

Sembra necessario, a questo punto, riprendere almeno un passo della lettera collettiva che l’episcopato isolano indirizzò a Pio XI onde ringraziarlo di ogni sua sollecitudine in favore della Chiesa sarda. Vale, questo passo, a spiegare la perfetta corrispondenza di sentimenti emersa circa la funzione, insieme simbolica e autenticamente pedagogica, attribuita alla prossima esperienza cuglieritana in rapporto ai bisogni e alle urgenze della Sardegna: «Ed un altro motivo ha mosso il Vostro cuore paterno in quest’opera, – sono le parole dei vescovi rivolte a papa Ratti nella lettera del 4 novembre 1924 –, di far cadere, cioè, quel muro di divisione che da secoli scinde i popoli sardi. Affratellati coi vincoli dolcissimi di lunga convivenza in un unico seminario, i giovani che dovranno essere i padri, i maestri, l’anima delle popolazioni sarde, sarà molto più facile sollecitare quel domani di perfetta armonia e di prosperità che è nelle speranze di tutti i veri amanti del benessere di quest’isola».

E’ questo, mi pare, il combinato nobile di causa ed effetto che l’episcopato sardo ed il pontefice pongono al centro della scelta di un polo formativo regionale: c’è, certamente, l’esigenza di “mischiare” le esperienze di vita dei giovani che nei seminari minori delle rispettive diocesi hanno frequentato, nei primi anni del loro cammino vocazionale, il corso ginnasiale (inclusivo delle medie); non si può infatti essere preti cattolici se non si incrocia con uno spirito universale (o tendenzialmente tale) – spirito che non è soltanto vago sentimento – la conoscenza del proprio territorio e la propensione a servirlo in futuro, insomma lo spontaneo orgoglio dell’appartenenza e la previsione di una appagante, ancorché sacrificata, stanzialità. C’è però di più: insieme con la chiamata a porre questa maggior latitudine cognitiva ed esperienziale al servizio della comunità cui si sarà destinati, secondo la logica che il prete – anziano di comunità – è missionario sempre, quale che sia il suo specifico incarico o lo specifico ambiente fisico e sociale della sua attività, se ne enuclea un’altra tutta spirituale: e vale essa come tensione identificativa verso il modello del Buon Pastore, traducendosi in una disponibilità incondizionata, cui educarsi, ad una esemplarità di vita capace di produrre ricadute nel concreto sociale.

Potrebbe dirsi così: seppure non sia ancora maturata, negli anni ’20, la sensibilità e anche la cultura ecclesiologica che definiscano l’identikit del prete-fratello invece che del prete-padre, o del prete-compagno/accompagnatore invece che del prete-maestro, è comunque chiaro come lo status clericale imponga obblighi di eccellenza morale e comportamentale che valgano come esempio e riferimento per la comunità particolare.

D’interesse ovviamente, e anche di curiosità, sono alcuni particolari regolamentativi della vita del nuovo seminario, così come definiti in sede di Congregazione nell’agosto 1927: ad esempio sui preventivi e le rendicontazioni periodiche, sulle relazioni, periodiche anch’esse, del rettore – primo della serie sarà il padre Giuseppe Peano, già responsabile del Tridentino di Cagliari – al corpo episcopale, sull’esclusiva dei vescovi circa la concessione degli ordini sacri, minori e maggiori, sui tempi di vacanza estiva degli studenti, ecc.

La quota mensile a carico degli iscritti era fissata in 150 lire e spettava alle diocesi di provenienza integrare stabilendo e comunicando il numero delle messe applicate “ad mentem Summi Pontificis”, onde trasmettere poi le relative elemosine… Tutto era dettagliato, e tanto più ciò era reso necessario dalla triangolarità delle partecipazioni responsabili, fra Santa Sede – passaggio obbligato anche di generose elargizioni provenienti da mezzo mondo, in specie dal cardinale di New York o dai cattolici di Baltimora o Cincinnati o Chicago, ecc.  –, episcopato sardo e Compagnia di Gesù. (Colpisce invero – né sarà purtroppo episodio isolato – l’arrabattarsi di rettori ed economi per quadrare i conti, a causa dei ritardi o delle omissioni, da parte delle famiglie, di provvedere alla “pensione” dei loro ragazzi. Il capestro, cioè l’esclusione è minaccia sempre presente e talvolta diventa atto concreto. Non manca, sovente, l’intervento salvatore dei vescovi, ma resta indubbio che un tale presidio ragionieristico sembra abbassare o ferire lo spirito di una comunità educante per di più con il marchio della ecclesialità, la quale dovrebbe ricondurre subito ad una sussidiarietà spedita e neppure dichiarata. Il tutto, sia chiaro, pur tenendo conto della complessiva povertà della società sarda degli anni ’20 e ’30 e anche successivi che, causando marginalità, limiterebbe pure gli spazi di possibili sanatorie).

Il 29 settembre 1927 venne consacrato l’altare maggiore della cappella: officiò il cardinale legato, mentre i vescovi Mantini e Miglior provvidero a quelli laterali dedicati alla Vergine ed a San Giuseppe. Due giorni dopo, ancora il cardinale Bisleti inaugurò il complesso con una cerimonia all’aperto: gli studenti intonarono un inno, monsignor Rossino della Congregazione romana lesse il breve pontificio, l’arcivescovo Piovella tenne il discorso di circostanza, che fu piuttosto articolato e religiosamente profondo. Grato, e ben a ragione, si mostrò l’episcopato sardo verso il pontefice per la sua munificenza.

S’aprono i cancelli nel Montiferru, fuori il partito s’è fatto regime anzi Stato

Vien da pensare – collocandoci fuori dal recinto – alla primissima stagione, alla stagione appunto dell’apertura dei cancelli ai centrotrentadue esordienti fra corso filosofico (triennale con undici materie) e corso teologico (quadriennale – con 14 materie – fino alla licenza, con il 5° anno per la laurea); vien da pensare ai dodici cameroni occupati con spirito inevitabilmente compagnone (leggi pure: senza alcuna riservatezza personale, ma come nelle caserme, come anche in certi ospedali), alle cinque aule di lezione ed a quelle di studio (altre sette), alla biblioteca (quasi dodicimila volumi tanto per partire), al gabinetto di fisica, naturalmente alla grande cappella intitolata al Sacro Cuore (287 metri di profondità e 10 di larghezza, nell’abside un trittico raffigurante il Sacro Cuore – titolare – e i santi Carlo Borromeo e Luigi Gonzaga, la luce da dieci finestroni), ai due refettori ed al parlatorio, all’infermeria, ai campi dello svago e dello sport ed al parco tutto verde. Magari anche alle 18 camere riservate a superiori e docenti, alla loro cappelletta d’intimità…Vien da pensare ai modi ed ai tempi in cui la vicenda tutta ecclesiale, o clericale, si dipana, nel maggior scenario della vita pubblica sarda e italiana, della vita culturale e politica degli anni ’20. Per trarne qualche conclusione, ed elementi utili a ripetere gli esami anche nelle stagioni successive. Appunto perché la Chiesa non vive di sé, non può vivere di sé, ma è missionaria per statuto, è costitutivamente esemplare e liberatrice, lievito per la pasta, e se manca è perché mancano i suoi uomini, e bisogna riconoscerlo con il giudizio storico, non con quello morale o partigiano.

I cancelli aprono mille giorni dopo la celebrazione del Concilio Plenario Sardo presieduto dal potente e discusso cardinale Gaetano De Lai, nel seminario arcivescovile di Oristano di fianco alla cattedrale di Santa Maria: un’assemblea deliberativa episcopale svoltasi nel clima combattuto, in Sardegna come nella penisola, delle settimane che separano l’esito del voto parlamentare, che ha fascistizzato (con l’imbroglio del maggioritario Acerbo) la Camera dei deputati, dal rapimento e l’uccisione del deputato social-riformista Giacomo Matteotti.

Un clima tremendo e destinato a durare, tremendo per la società e la democrazia, ed all’inizio anche per una Chiesa che – col suo clero ed il suo associazionismo militante – cederà ogni giorno di più come cederà il suo partito di riferimento, il Popolare, costretto anch’esso alla prova dell’Aventino, per uscirne infine stritolato dalle leggi “fascistissime” del 1925 (in replay l’anno successivo) e dal dimissionamento in blocco, per sanzione od imperio di legge vendicativa, della rappresentanza politica.

A Cagliari – per poco che valga la circostanza richiamata – la confusione ideale e ideologica del cattolicesimo militante sposa ancora, fra 1925 e 1926, la causa fascista dell’antirisorgimento e sostiene, con enfasi spropositata, il progetto della sostituzione dell’erma di Giordano Bruno con la statua bronzea di San Francesco, nel settimo centenario della morte dell’Assisiate. Non immaginando che alla fine proprio di quello stesso 1926 gli alleati di firma, i complici sottoscrittori del piano supposto purificatore incendieranno la tipografia di quel Corriere di Sardegna che era stato diretto da don Gabriele Pagani, l’amico di gioventù di don Angelo Giuseppe Roncalli, ed era rimasto l’ultima bandiera locale del Partito Popolare Italiano. Soltanto cento, forse duecento metri misurava la distanza fra quella sala tipografica zittita da allora per quasi vent’anni – avrebbe ripreso le pubblicazioni, il Corriere, nel 1945 – e la rotonda erbosa che, di fronte alla porta dei Leoni, dal 1913 e fino a quel 1926 era stata lo spazio d’onore riservato a fra Giordano l’abbrustolito dall’Inquisizione romana. Ahimè, proprio quel fra Giordano il domenicano abbrustolito dal fuoco antico, quando il fuoco era nel dominio della Chiesa e del braccio secolare cui essa trasferiva gli eretici o i presunti tali. Il fuoco del fondamentalismo sempre crudele e ingiusto.

L’incendio della tipografia cattolica aveva caricato di nuovi umori belluini i fascisti di Cagliari che dovevano solidarizzare con il duce appena scampato da un attentato in quel di Bologna; pochi giorni dopo un uomo come Antonio Gramsci, deputato già protetto da immunità, fu arrestato e rinchiuso a Regina Coeli; giusto un anno dopo, proprio nelle stesse settimane in cui il Regionale cuglieritano iniziava la sua attività, un combattente per la democrazia come Emilio Lussu, discolpato dal tribunale per il noto episodio Porrà (che però gli era costato un anno di detenzione e affezione polmonare in quel di Buoncammino), venne inviato al confino di Lipari. Che cosa entrava del trambusto sociale e politico dell’Italia e della Sardegna nelle conoscenze e nelle considerazioni del clero adulto e di quello in formazione sparso fra i seminari diocesani e quello esordiente nel Montiferru?

Il cattolicesimo sociale dei primi anni ’20, che pure l’avventura bellica aveva finalmente avvicinato alle responsabilità elettorali e politiche dello Stato liberale, ancora tardava, per una certa inconsumata tara ideologica, a distinguere e misurare i campi degli avversari per ipotizzare od escludere possibili pragmatiche alleanze, in vista del nuovo, saldamente rimanendo entro le coordinate, tutte e sempre da difendere, della democrazia formale. Tutto il campo sembrava invece grigio, indistinto, ai cattolici attorno a sé: le stesse riserve nutrite sulla ormai composita area di sinistra – articolata fra massimalisti e riformisti, ma anche, dal 1921, comunisti, e gli storici radical-repubblicani – parevano gravare anche nel giudizio circa la galassia liberale, fra giolittiani, nittiani e vecchi salandrani (e già sonniniani), fino a quella minoranza chiassosa e minacciosa dei fascisti. Forse le sue dimensioni, la complessità e contraddittorietà della rappresentanza sociale fra borghesia professionale urbana e soprattutto ceto rurale, la coesistenza fra la prevalente anima monarchica e sabaudista e quella pur estremamente minoritaria repubblicana, l’incapacità di gestire una effettiva autonomia dall’episcopato e dal clero portatore di consolidate resistenze alla partecipazione alla vita politica e istituzionale altro che nei corpi intermedi e nelle amministrazioni locali, questo e tanto altro condizionava il movimento cattolico nella sua espressione popolare, rendendolo incapace d’iniziativa, nonostante i suoi cento e passa deputati eletti nel 1919 e confermati e perfino implementati nel 1921, per evitare la deriva fascista. Dimezzato nei voti e nella rappresentanza alla prova del 1924, il partito (che da quel movimento derivava ) s’era ridotto a poter dare soltanto testimonianza di affezione alla democrazia appunto nella stagione, rivelatasi infine sterile, aventiniana.

Perduta dunque la rappresentanza politica nazionale, ridottosi il laicato a funzioni ancillari e marginali, ed ancora soltanto per uno, due anni, negli spazi del confronto pubblico, tornava in campo la Chiesa con le sue falangi clericali e il centro direttivo nei palazzi del Vaticano: era la Chiesa in quanto tale, o la sua gerarchia per meglio dire, a negoziare con le istituzioni dello Stato italiano i termini delle relazioni future. E si profilarono i patti del Laterano conclusi infine nel febbraio 1929.

Colpisce – leggendo la minuziosa ricostruzione delle vicende preparatorie del seminario cuglieritano offertaci da Tonino Cabizzosu, e leggendo dalle relazioni dei primi rettori (ritorna il nome di Peano) le valutazioni generali dell’andamento di quella necessaria e preziosa istituzione formativa nei tempi del suo esordio – l’autoreferenzialità ecclesiastica. Il guardare solo a sé, o alla propria missione ma quasi eludendo ogni giudizio critico, e perfino interesse, riguardo alla condizione civile – civile! politica e democratica (o non democratica) – della società sulla quale chinarsi con il grembiule del servizio… Così prima degli accordi lateranensi, così dopo.

Vien proprio da ripensare a quei terribili anni ’20 nei quali facevano cumulo le memorie ancora calde della grande guerra, del “grande macello” continentale, dei lutti infiniti fiondati in tutte le famiglie d’Italia e, più gravi ancora, della Sardegna, e gli echi resistenti delle tormentate tensioni della smobilitazione, in ogni paese dell’Isola, fino all’inoltro progressivo nel regime autoritario, all’accettazione del fascismo fattosi stato: stato d’ordine e stato riparatore. Non soltanto nel male, dunque, soprattutto nel bene, avrebbe detto qualcuno, tanto più, appunto, in quel variegato ed atomizzato mondo cattolico che lo pensava, fiduciariamente, positivo negoziatore dei patti di conciliazione, in chiave di revanche verso il liberalismo del tempo passato e, per la soddisfazione papale, riparatrice del misfatto del 20 Settembre 1870. Bene quel fascismo, sì avversario di don Sturzo costretto all’esilio e soppressore del Partito Popolare (parzialmente riassorbito, dapprincipio, nel collaborazionismo del Centro Nazionale), ma comunque disponibile, verso la Chiesa, ad ogni transazione giuridica e finanziaria, tranne che in materia educativa, come si sarebbe visto nel 1931 con il violento rimaneggiamento dei circoli dell’Azione Cattolica. Alcuni vescovi – anche l’eccellente monsignor Virgilio e il suo successore ogliastrino monsignor Videmari – si mostrarono da subito, fin dal 1923, propensi al pubblico… alalà, all’allineamento progressivo e piuttosto compatto, ancor più accentuato dove i gerarchi parevano maggiormente rispettosi del sentimento e delle forme della santa religione popolare. Avrebbero fatto quasi a gara i presuli sardi nel sostegno al regime di dittatura, e fra tutti forse avrebbe trionfato l’arcivescovo di Oristano Giorgio Delrio. Le benedizioni non le avrebbe negate nessuno…

Ecco qui: bisognava, bisogna inquadrare la vicenda preparatoria del seminario interdiocesano di Cuglieri in questo scenario di limiti e colpe, di miopie clamorose degli uomini di Chiesa, dico della Chiesa italiana e di quella sarda, uomini non avveduti e non coraggiosi, non testimoni di alcuna liberazione evangelica, ma rassegnati all’esistente e infine ossequienti e convenzionali. La promessa affacciata dal regime di una soluzione alla annosa “questione romana”, così come le paure e le ostilità, in parte comprensibili e perfino giustificabili, verso i “rossi” del bolscevismo sociale e politico avevano finito per ispirare il grosso della presenza clericale isolana – partito d’ordine per natura – ed il nome di don Giovanni Minzoni, quello stesso che sarebbe apparso nella toponomastica di tanti paesi della Sardegna all’indomani della seconda guerra mondiale, fu rimosso e sepolto nella dimenticanza generale dentro e fuori le parrocchie, le curie ed i seminari diocesani.

Proprio così. I primi chierici della regione ecclesiastica sarda avrebbero saputo delle novità – quelle della conciliazione ristoratrice e anche quelle di segno contrario, di poco successive, dei limiti invalicabili imposti all’operatività dell’associazionismo cattolico –, ma, proiettati nel futuro e allineati al realismo dei vescovi e dei superiori e professori in quel di Cuglieri, forse non ebbero strumenti per una libera interpretazione. E festeggiarono l’11 febbraio 1929. Tutti la vissero, quella pena civile della dittatura, con relativa leggerezza, del regime anzi colsero le virtù della rassicurazione totalitaria, e negli anni ’30 perfino le paradossali virtù di un imperialismo dichiaratosi cristiano e convertitore degli infedeli. E peraltro, se anche si fosse rimasti in democrazia, o nel quadro costituzionale liberale, non sarebbe stato comunque loro concesso di leggere per pura volontà né la stampa quotidiana né quella periodica, e l’accesso alla biblioteca avrebbe anch’esso scontato criteri selettivi; la reclusione collegiale avrebbe loro impedito una eventuale partecipazione a qualsiasi iniziativa che pur fosse stata lecita ed anche meritoria. Il regime favoriva la dispensa dalla leva, a norma dell’art. 10 del Concordato, ma già lo status clericale, nella società degli anni ‘20 e ’30 – e tanto più nella società rurale del tempo –, avrebbe garantito di per sé un privilegio riconoscibile. La chiamata partecipativa di vescovi e parroci nelle innumerevoli ricorrenze patriottiche, magari per lo scoprimento di una qualche lapide celebrativa dei caduti in guerra o dei trionfi del duce e del suo regime, così come per la benedizione di gagliardetti e delle truppe in partenza per l’Africa coloniale da cristianizzare, le funzioni ordinarie e retribuite dei cappellani nelle forze armate e nella milizia – non soltanto quelle ammesse e incoraggiate negli ospedali e nelle scuole – tutto questo avrebbe come legittimato, e legittimò infatti, un duumvirato, l’affiancamento delle due potestà, pur intimamente incompatibili. La legislazione matrimoniale al pari dell’impedimento dell’accesso agli uffici pubblici degli apostati avrebbe ancor di più, nel tempo, non soltanto mostrato al mondo l’unicità del “caso” Italia (più tardi seguito dai “casi” di Portogallo e Spagna), ma avrebbe nel concreto introdotto nella cultura civile – o chiamala soltanto mentalità – del clero in formazione o del giovane clero appena andato in cura d’anime l’idea dell’indissolubile nesso, per… il bene del popolo, fra il regime politico e la Chiesa militarizzata anch’essa con tanto di mostrine e galloni canonici.

Così per due decenni, e per averne prova facile basterebbe sfogliare le annate del settimanale La Sardegna Cattolica, che dall’afascismo dei primi anni – il giornale uscì col suo primo numero nel gennaio 1928 – sarebbe passato, nella seconda metà degli anni ’30, ad un affiancamento pieno, nei titoli e negli articoli di prima pagina, al pagano regime di Mussolini. Sfiorando in alcuni numeri perfino una debolezza incantata per la marzialità burgunda! Non granché diverso in altri fogli diocesani, dal sassarese Libertà al nuorese L’Ortobene, in una riconversione repentina che la testata ebbe, anche in costanza di episcopato Cogoni, dopo alcuni successi “imperiali” in Africa e vari episodi della guerra di Spagna che segnalarono il fronte repubblicano come anticattolico, accreditando per converso nella buona causa quello franchista…

Conformismo cattolico dunque, nella rinuncia a qualsiasi slancio profetico ed anche ad ogni lettura autenticamente democratica del tempo vissuto (ma qui mi parrebbe di poter osservare che se non si passa per l’accettazione del liberalismo non si potrà mai accedere alla comprensione profonda e piena della democrazia!). E forse soltanto la conclusiva tragedia della nuova guerra, più ancora della prodromica legislazione razziale del 1938, che in fondo radicalizzava, normandoli nella peggior forma, lo storico antisemitismo cattolico e la resistente dottrina del deicidio, avrebbe imposto un ripensamento profondo, ancorché sempre guidato dall’establishment gerarchico, sul dovere sociale ed educativo proprio del clero o degli istituti religiosi che non poteva esprimersi pienamente se non in democrazia.

Nella stagione della nuova Italia repubblicana (e democristiana)

La fatica della ricostruzione non soltanto degli assetti materiali ma degli stessi ordinamenti istituzionali, le accelerate trasformazioni economiche e sociali, gli sforzi delle politiche d’assorbimento delle marginalità geografiche e sociali, la scolarizzazione di massa e l’avanzante secolarizzazione del costume, gli attriti negoziali fra capitale e lavoro dopo la contestazione giovanile e i primi episodi, in anni ormai inoltrati, della cosiddetta strategia della tensione, gli scenari internazionali nuovamente perturbati nel Mediterraneo e forieri di precarietà strutturali negli inderogabili approvvigionamenti energetici, avrebbero segnato la seconda parte di quel quarantennio ed oltre che, nel calendario di episcopi e parrocchie delle undici diocesi sarde, sarebbe stato riconosciuto come il “tempo di Cuglieri”.

Giusto alla vigilia o all’indomani del trasferimento di seminario e facoltà dal centro del Montiferru alla capitale dell’Isola, lo Stato si faceva regionalista, dando attuazione al dettato costituzionale del 1948; giusto alla vigilia o all’indomani del trasferimento di seminario e facoltà a Cagliari, il parlamento nazionale votava la legge introduttiva del divorzio nell’ordinamento giuridico italiano, aprendo stagioni di dilacerazioni incomposte e finalmente sanate dal risultato del referendum popolare del 1974… Ne dirò poi. Ma certo posso qui anticipare l’evidenza, perfino sconfortante – ora che parliamo e scriviamo nell’A.D. 2017 e non più nell’A.D. 1971, e conosciamo le luci nuove del pontificato Bergoglio – del gap allora e dopo continuativamente registrato fra dottrina e vita, dello scontro anzi fra la dottrina e la vita buona. Per dire, infine, soltanto questo: che la dottrina vale, valeva, dovrebbe sempre valere, a proporre e ad illustrare, a spiegare, la virtù del modello d’ispirazione, ma che per il resto è la vita come si presenta, se mossa da buone intenzioni e pur nell’eteroprassi, che va accolta e non giudicata. «Io sono per la vita. La vita prima dei dogmi. I gesti prima delle parole. La spiritualità prima della morale. L’essere umano prima di tutto», aveva scritto nella sua lettera ai diocesani virtuali di Partenia monsignor Soave, il vescovo Jean Gaillot rimosso da Evreux ai tempi di Giovanni Paolo II e accolto invece con grandi abbracci riparatori da papa Francesco… La storia revisionista apre le porte, in crescendo, alla libertà, anche nella Chiesa, che oggi è più la Chiesa di Rosmini che di Pio IX, pur beatificato al pari dell’autore delle Cinque piaghe. Pur con tante luci, quelle montiniane e quelle woytjliane, soprattutto quelle della carità operosa spesa nel quotidiano da innumeri servitori, in tanta parte della storia ecclesiale gerarchica quel gap astruso ha continuato a marcare di vecchio ed improduttivo le nuove stagioni della storia. Valga, a darne prova, il “pacchetto” irrisolto delle dure questioni della bioetica oltreché quello della morale familiare.

Le domande, spunti per un dibattito e per un contrasto di tesi

E’ questo, mi sembra, il problema centrale che occorrerebbe porsi valutando retrospettivamente la duratura esperienza del Regionale di Cuglieri: se la formazione del clero sardo in quel lungo passaggio di decenni, di fianco a ben evidenti fattori virtuosi, abbia saputo corrispondere al bisogno sociale che andava mutando nel tempo, in democrazia dopo che in dittatura, in pace dopo che in guerra e in nuova pace dopo che in nuova guerra, in territori trasformati, o in via di trasformazioni (purtroppo in ampia parte illusorie), dalla cultura contadina a quella industriale, fra generazioni nuove e scolarizzate, coinvolte in impensate temperie moderniste tanto nei consumi quanto nei valori d’orientamento.

Con il suo metodo di storico della Chiesa che colloca le vicende della istituzione dentro la carne viva della società materiale, e in prima istanza dentro i bisogni della comunità credente (e obbediente), Tonino Cabizzosu presenta il seminario di Cuglieri nelle sue luci e nelle sue ombre, nelle linee di tendenza dei suoi approcci ideali, culturali e disciplinari così come nell’applicazione quotidiana lungo le diacronie dettate dall’evoluzione dei tempi. Per valenze esterne e per valenze interne. Basterebbe qui pensare all’evento conciliare annunciato e poi guidato da papa Roncalli, ricevuto e quindi saggiamente amministrato da papa Montini.

Di prim’acchito – ne ho prima accennato – si direbbero quattro le fasi storiche, tutte ampiamente strutturate, contenute nel lasso di tempo che misura l’esperienza del seminario cuglieritano. Stagioni, ciascuna a suo modo, epocali per i travagli sociali ed anche, di riflesso, per quelli ecclesiali, nella inovviabile continuità storica ma insieme portatrici di novità negli assetti e negli impulsi integralmente culturali, se a tale aggettivo assegniamo i più ampi contenuti che attengono alla relazione dei protagonisti con la scena che, evolvendo di continuo, mentre li accoglie con essi interagisce, plasmando e insieme subendo la traccia di un passaggio forte.

Penso dunque agli anni del primo consolidamento del regime fascista e, dopo la conciliazione, del cosiddetto “consenso” popolare all’ordinamento della dittatura, così fino ai prodromi della seconda guerra mondiale; penso al lustro pieno dell’emergenza e del disastro bellico, con i richiami militari, le famiglie divise e tanto spesso colpite da nuovi lutti oltreché da ogni genere di privazioni materiali, le devastazioni crudeli di molti centri abitati; penso alla faticosa ripresa sociale ed economica, alla ritessitura della trama civile nazionale in uno alla trasformazione costituzionale ed istituzionale della quale prima dicevo; penso infine alla stagione degli sforzi riequilibratori dello sviluppo riconquistato, nell’Isola precipuamente al piano cosiddetto di Rinascita, ai nuovi insediamenti industriali non complementari ma sostitutivi di un tessuto antico, che non era costituito soltanto da valori economici, dai valori di un’economia povera e quasi di sussistenza legata ai cicli stagionali dell’agricoltura o della pastorizia, ma dai valori morali e comportamentali, da un certo senso della vita e della presenza sociale.

In parte Cabizzosu affronta la questione: lo fa incidentalmente, certamente nel prossimo volume della trilogia e nell’ultimo che assemblerà le testimonianze di alcune decine di ex chierici-studenti, le risposte verranno più nette. E non sono e non saranno, credo, complessivamente positive, almeno sotto questo specifico profilo della relazione di Cuglieri – della sua comunità di studi e di vita – con la Sardegna (nell’Italia) in trasformazione.

Certo va qui anticipato che ben difficilmente si potrebbe sperare in una risposta diversa da quella che potrebbe dare la Chiesa nella sua complessità. Ancora fino a tutto il Concilio le lettere collettive dell’episcopato sardo – segnatamente quelle quaresimali, ma non solo, perché aggiungerei, negli anni ormai di democrazia, anche le notificazioni elettorali – mostrano i limiti perfino drammatici di una lettura che si sarebbe imposta nella sua complessità – e tale non fu mai – della realtà sociale, e dunque anche economica e anche morale e spirituale, della popolazione. In una più matura e avanzata consapevolezza delle ragioni laiche dell’ordinamento, cui avrebbe dovuto corrispondere, da parte degli uomini di Chiesa, una propria totale riconversione evangelica nella logica sempre e soltanto del lievito nella pasta sociale, docente per l’esemplarità non per il proselitismo e meno che meno per l’intesa (venale ed a beneficio elettorale) con Cesare.

Il racconto di quattro decenni, fra luci e ombre nell’isolamento del baricentro geografico

Ritorno al racconto di Cabizzosu. Insieme con la diffusa esplicitazione delle normative regolamentatrici delle attività seminaristiche, disciplinari e scolastiche, generali e particolari, sono di speciale interesse i quadri statistici presentati anche con tabelle numeriche ed istogrammi per l’intero periodo 1927-1971, sia per più limitati lassi temporali (ad esempio 1928-1932, 1928-1936 per le inizialmente distinte facoltà). Includendo in essi anche gli identikit nominativi dei partecipanti, chi in teologia chi in filosofia, ed i gradi accademici conquistati.

I Regolamenti portano alla quotidianità del vissuto personale e collettivo, ai suoi perché (morali e perfino spirituali) ed alle forme concrete delle relazioni fra pari e con i superiori, dicono di orari e di refettorio o infermeria, di dormitori e di rispetto igienico, di pietà e di studio, di vacanze e di direzione spirituale, di liturgia e di uso della radio… Così nel tempo, fino ai disposti del 1940 e del 1950, in quei luoghi conventuali che, con rapide pennellate, così sono descritti immutati nel tempo: «la facciata, eretta con pietra a vista, si presentava austera, abbellita solo da un elegante campanile che si ergeva oltre i 30 metri, con al centro una statua di marmo bianco raffigurante la Madonna e con stemma pontificio in pietra. L’atrio d’ingresso, con largo scalone di marmo, appariva elegante, spazioso: in esso dominava il busto bronzeo di Pio XI. Quattro vasti porticati, con 42 arcate, si elevavano ai perimetri del cortile centrale interno che si estendeva per 2.400 metri quadri. Nel primo porticato si trovava una lapide marmorea in memoria dell’illustre figlio di Cuglieri. B. Mura…».

Entrano qui, abbondanti, le descrizioni critiche riguardo al modo di “fare teologia” a Cuglieri, vale a dire circa i testi adottati e gli insegnanti che, per essere essi stessi autori di dispense (ritenute piuttosto sbrigative e, sembrerebbe, talvolta… banalmente duplicate o rimaneggiate da più autorevoli pubblicazioni) ed anche di manuali non particolarmente commendevoli diffusi poi nelle sedi accademiche di tutt’Italia e anche di fuori, diventano bersaglio di recensioni assai poco benevole. Il che, se obiettivamente finisce per umiliare la comunità docente di Cuglieri, soprattutto denota i limiti nei quali i professori – tanto quelli di provenienza secolare quanto quelli di marchio della Compagnia – sviluppano le loro lezioni. Dimostrando una volta di più i ritardi della ricerca teologica italiana (e sarda a maggior ragione, ma certissimamente non soltanto sarda!) rispetto ai risultati raggiunti, forse anche per la tradizionale maggior libertà di studio e scrittura, nell’Europa continentale a forti influssi anche protestantici…

Cabizzosu, seguendo la linea d’indipendenza che gli è propria – scomoda per lui ma per lui anche doverosa –, riassume le critiche dettagliate che a diversi lavori dei cattedratici cuglieritani vengono nel tempo da teologi i più accreditati a livello internazionale e sovente collaboratori di riviste specialistiche come Ephemerides Theologicae Lovanienses oppure Nouvelle Revue Théologique: «manuali privi di contenuti innovativi, esame di alcune problematiche teologiche troppo rapido, senza adeguati approfondimenti, con rischio di offrire una lettura semplicistica o superata», «contenuto non innovatore in quanto attinto “per la maggior parte” da precedenti manuali, opera cronologicamente superata di almeno una trentina d’anni, non sufficiente conoscenza nella seconda parte del testo, dell’iter di riflessione teologica operato negli ultimi anni, rischio di essere sganciati dalla riflessione teologica in atto e di isolare ulteriormente i fruitori dal contesto europeo di ricerca scientifica», ecc.

Non si tratta – la cosa è di tutta evidenza, ma merita sottolinearlo – di un ripasso… giustizialista di valutazioni espresse, nel tempo, presso alcune delle più autorevoli sedi della scena internazionale: l’intento assolutamente meritorio dell’autore nel dar conto di tali posizioni o interpretazioni è quello, semmai, di storicizzare per il pieno i passaggi evolutivi della esperienza – anche della esperienza speculativa – maturata a Cuglieri, tant’è che egli non manca di registrare altresì le aperture pur deboli che, ad esempio, in ecclesiologia paiono prospettarsi dopo la pubblicazione dell’enciclica pacelliana Mistici Corporis Christi nella stessa stagione che vide anche arrivare, con la Divino afflante Spiritu, un qualche  riconoscimento alle intuizioni di esegeti prima confinati, dall’ufficialità curiale, nell’oblio. Verrebbe, in proposito, da riflettere con qualche amarezza: per un paradosso certi avanzamenti esegetici e dottrinari sono accolti dal magistero nell’anno più drammatico della seconda guerra mondiale, quasi sia l’apocalisse ad allargare la mente dei dogmatici di professione…

Certo è che in discipline anche le più diverse – dalla teologia morale (viziata da una casuistica esasperata e senz’anima, bollata recentemente, in termini generali, anche da papa Francesco che rifletteva sulla propria preparazione giovanile confidandosi con La Civiltà Cattolica), alla storia ecclesiastica (di taglio spiccatamente apologetico) – il ritardo pareva scaricarsi sui chierici allo studio, soltanto alcuni dei quali, in età più matura, avrebbero rielaborato criticamente la stagione cuglieritana. E’ qui che compare, infatti, nella ricostruzione storica di Cabizzosu, un bel paragrafo tutto riferito alle analisi retrospettive di don Gesuino Mulas, presbitero ozierese il cui diario spirituale è stato pubblicato tre lustri fa, con molto coraggio, dallo stesso nostro autore (Diario Mulas. Un sacerdote sardo tra crisi e rinnovamento conciliare, Cagliari 2001).

Possono bastare, a dare un’idea delle conclusioni del Mulas, queste poche battute stralciate dalle sue pagine segrete: «gli alunni del seminario, sottoposti ad una sistematica imbottitura di cranio, finiscono per essere fanatizzati e credono di possedere essi solo il verbo che illumina e che salva», «Gli occhi che pian piano si aprono davanti alla realtà, dopo il sonno dogmatico del seminario. Il mondo visto con lenti deformanti. E anche la vita del seminario. Fuori tutto male, dentro tutto bene. Il grande mistero dell’universo svelato con quattro o cinque sillogismi. La storia addomesticata in funzione apologetica. Acrobazie dei cosiddetti docenti per farti vedere perlomeno grigio quello che era nero».

Insieme con questi rimandi critici al concreto tanto dei testi adottati, manuali inclusi, quanto della didattica d’aula, sono le relazioni presentate ai vescovi dai rettori alla fine di ogni anno scolastico/accademico le fonti che meglio possono dire – naturalmente dall’interno, e cioè da un punto d’osservazione costretto o condizionato – dell’andamento del seminario, come istituzione e come comunità, nel tempo. Gli aspetti culturali e spirituali, quelli disciplinari, quelli complessivamente e variamente formativi della personalità dei giovani chierici sardo sono minuziosamente esplicitati onde consolare l’episcopato isolano con i successi conseguiti, ma soprattutto farlo accedere, per via di esaustiva informazione, a maggiori e più impegnativi step di responsabilità a riguardo dei bisogni in campo ancora da soddisfare.

Ben potrebbe qui osservarsi come, nonostante l’esperienza del Concilio Plenario Sardo del 1924 e nonostante i loro incontri annuali, proprio a Cuglieri, e alla diffusione dell’annuale lettera collettiva, l’interesse degli undici vescovi contitolari della regione ecclesiastica volto ad una pastorale condivisa continui ad essere piuttosto scarso. Resistono e vincono ancora gli orgogli di episcopio nell’ordinario quotidiano e, d’altra parte, tutta l’impostazione formativa del clero, non soltanto di quello italiano e sardo, tende a promuovere status leaderistici così nelle curie come nelle parrocchie. E’ proprio l’individualismo che continua a rappresentare il “marchio di fabbrica” del clero italiano e sardo ancora fino a tutto il Vaticano II (e direi anche dopo), e l’esperienza comunitaria di Cuglieri, positiva per altri aspetti, non pare modificare il dato di fondo.

A dirla in altre parole: il clero generato dai seminari regionali italiani – ma credo (intuitivamente, senza aver studiato meglio la questione) in generale nei seminari cattolici di tutto il mondo, negli anni che precedono il Vaticano II il quale riorienterà, irradiandolo di Bibbia, l’intero impianto ecclesiologico – è clero che va per figure condottiere; si tratta forse di modelli che corrispondono essi stessi alle esigenze della società del tempo, che è società di masse. Modelli, preciserei, rispondenti a tipologie antiche e stagnanti: a un certo “mondo dei fedeli” ancora non emancipatosi alle consapevolezze ontologiche, appunto di radice scritturale, del “popolo di Dio”, di cui con abbondanza tratteranno i documenti conciliari (essenzialmente nella costituzione dogmatica Lumen gentium) e poi anche il catechismo della Chiesa universale: affiancando alle categorie della Chiesa gerarchica plasmatasi in progress lungo quasi due millenni, quelle più sostanziali ed orizzontali della Chiesa-comunione, della Chiesa cioè strutturatasi per carismi, ministeri e diaconie.

Le relazioni di consuntivo, anno dopo anno

I report rettorali sono stesi certamente con il massimo dell’onestà intellettuale e con un intento di assoluta lealtà nei confronti delle diocesi di provenienza (e di ritorno, ormai attrezzati al mestiere) degli studenti: 136 nell’anno dei Patti del Laterano, 176 nell’anno del rimaneggiamento dei circoli di Azione Cattolica, 227 nell’anno giubilare straordinario (convocato per celebrare i diciannove centenari dalla Croce sul monte Calvario), 272 nell’anno di proclamazione dell’impero fascista (italo-africano), altrettanti nell’anno di vigilia delle leggi razziali…

Rapida digressione. Una tabella (cf. pag. 146) rende bene le quote partecipative delle singole diocesi, che complessivamente organizzano 408 parrocchie (167 nella provincia ecclesiastica di Cagliari, 116 in quella di Oristano, 125 in quella di Sassari): quasi uniformemente distribuito, Ozieri a parte, il raddoppio delle presenze fra il 1927 ed il 1937; interessante il risultato finale delle ordinazioni nel decennio: 183 complessivamente: 53 nella maggior provincia (Cagliari, Iglesias, Nuoro ed Ogliastra), 27 fra Oristano ed Ales, addirittura 103 fra Sassari, Alghero, Bosa, Tempio ed Ozieri (con singolare performance di quest’ultima: 31 ordinazioni, tante quante quelle di Cagliari).

Sarà utile ricordare la sequenza dei rettori chiamati alla responsabilità cuglieritana: Giuseppe Peano e Alfonso Martin nel primo decennio, nuovamente Peano (con vice Angelo Aramu, liturgista cagliaritano) dal 1937 al 1940, Carlo Bozzola fino 1947 e nuovamente nel sessennio 1953-1959, Crescentino Greppi nel mezzo – cioè fra 1947 e 1953 – e Arnaldo Lanz negli anni cruciali di preparazione ed avvio conciliare, dal 1959 al 1963 cioè, Giuseppe Miglio a chiudere la serie fra il 1963 ed il 1971, sentinella delle tre sessioni paoline del Vaticano II e della prima e complicata stagione postconciliare.

Con l’eccezione di Lanz, genovese, i rettori sono tutti piemontesi. Sotto il profilo personale essi sono anche sommariamente biografati da Cabizzosu nel capitolo “Figure di educatori”, insieme con una cinquantina di superiori e docenti, tre quarti dei quali di radice gesuitica e davvero pochi – Francesco Sole, Salvatore Deriu, Francesco Cogoni, Renato Volo, Gesuino Martis, Antonio Virdis – di provenienza dal clero secolare delle varie diocesi isolane (mi riferisco qui, per il più, agli anni ’20, ’30 e ’40).

Lungo cinquanta pagine sostenute da numerosi riferimenti testuali estrapolati dalle relazioni rettorali, Cabizzosu aiuta ad entrare nelle problematiche concrete della vita seminaristica che, merita ricordarlo un’altra volta, nella esposizione dell’autore include, oltre alla fase iniziale che si giustappone temporalmente al fascismo (fino al 1943, dunque 16 anni), anche quella dell’emergenza bellica e quella infine, dal 1945 al 1971 (sono 26 anni).

Andamento morale, scolastico, igienico, finanziario: queste le sezioni su cui si concentrava la maggior cura analitica degli estensori, fra ultimi anni ’20 e primissimi anni ’70. Gli aspetti pedagogici – particolarmente avvertiti negli anni dell’impianto – guardavano al mix “ragione e persuasione”, avvertito come vincente rispetto a un approccio prevalentemente militaresco. Interessanti le osservazioni sulle maggiori attitudini di taluno degli studenti, meritevole dunque di essere accompagnato e valorizzato per il bene finale della sua missione nella sua chiesa. Dettagliato il report sui risultati puramente scolastici, ad esempio con il rinforzo resosi necessario delle lezioni di grammatica… Davvero il paniere delle osservazioni, e comunque delle materie annualmente oggetto di disamina da parte dei rettori, sarebbe troppo vasto per poterlo riassumere e costituisce un invito vero e proprio incrociarlo nella lettura di questo libro, calandosi così nell’ordinario quotidiano di una istituzione che, come detto, non è soltanto ordinamento ed organizzazione ma essenzialmente comunità.

Potrebbe qui bastare il richiamo alle situazioni di tensione o almeno… dialettiche fra i padri della Compagnia e la competente congregazione di Curia e/o l’episcopato sardo, in alternanza ad altre più piane e vogliosamente sinergiche, riferendosi le prime – indubbiamente più interessanti sotto il profilo storico – alle questioni della gestione economica, per la supplenza che le diocesi dovevano dare, o si sperava potessero dare e non sempre davano, agli impegni disattesi degli studenti, sovente in difficoltà familiare (difficoltà invero associate a quelle insuperate delle stesse diocesi, che per sostenere i maggiori avrebbero dovuto penalizzare i minori, quelli appunto iscritti ai vari Tridentini…); alle questioni insieme disciplinari e di studio, per una certa maggiore severità di superiori e professori rispetto a quella espressa dai singoli vescovi piuttosto di bocca buona, per la necessità di procedere con le ordinazioni e dare clero alle parrocchie; alle questioni che Cabizzosu qualifica come di “diversa ermeneutica”, fra professori e vescovi, circa il futuro degli studenti, talvolta considerati del tutto inadeguati alla missione: «melius est abundare quam deficere nell’allontanare dal sacerdozio quelli che non danno affidamento. Siamo col Papa!… Un giorno egli stesso ci ringrazierà», scrive, in un certo giorno dell’estate 1938, il vice rettore padre Aramu all’arcivescovo Piovella, appunto meno selettivo nell’allargamento dei ranghi.

Ripeto: a me sembra, questa rassegna delle relazioni rettorali, la chicca vera del bellissimo lavoro di Cabizzosu, perché sorpassa i cancelli delle formalità o degli aspetti ordinamentali e normativi ed entra nel cuore vivo e pulsante del quotidiano della vasta comunità, fra canto gregoriano e pratica della pietà, conferenze estive sull’Azione Cattolica e magari anche su materie d’agricoltura, accessi alla biblioteca (e all’infermeria!) e settimana missionaria, ripetizioni anteesame trimestrale e vettovagliamento, defezioni ed esercizi di orazione sacra, corsi pedagogici per i liceisti (introdotti però soltanto nel dopoguerra) e visite saltuarie o ripetute di ospiti del calibro di un don Mazzolari, appunto, o di un Carlo Carretto, e altri cento, compresi, negli anni ’60, presidenti di giunta ed assessori regionali impegnati con la politica di Rinascita…

Una questua alimentare, nel 1944

Gli anni di guerra, con quel che significano in quanto a restrizioni materiali (tanto più nelle derrate alimentari destinate, a costi crescenti, ai 250-270 fra studenti, superiori/professori e suore) ed a riverberi generali (anche morali e psicologici: si pensi ad esempio ai ventilati rischi di richiamo militare o di mobilitazione civile dei chierici non in sacris) sulla vita del seminario, saranno presenti nelle relazioni di padre Carlo Bozzola (che ha per vice Luigi Gallicet e Tarcisio Valente come economo). Pur non colpito direttamente, il Regionale paga l’inaridimento delle fonti familiari e diocesane – si pensi alle 40 messe annue “ad mentem Sacrae Congregationis de Seminariis et Studiorum Universitatibus” e alle questue finalizzate) per cui sembra puro eroismo il risultato che può presentarsi alla fine di ogni anno scolastico/accademico. Isolatissimo («Cuglieri è ormai allacciato col resto della Sardegna dal solo postale di Tresnuraghes; la macchina poi del seminario ha una misura limitatissima di benzina», scrive padre Bozzola all’arcivescovo Piovella nell’aprile 1941), il seminario fa quotidiana prova di santo equilibrio fra il vecchio che impoverisce, il nuovo (metti i corsi di cultura militare e assistenza sanitaria) che entra, i doveri che non cambiano. Ingegnosamente attivi più di tutti sembrerebbero i due Cogoni, vescovi l’uno ad Ozieri e l’altro (metropolita) ad Oristano che ipotizzano o sperimentano soluzioni pratiche d’emergenza: «proporrei che nelle parrocchie dove vi è un chierico il rev.do parroco promuova una questua pubblica in generi, non in denaro (perché non si ha modo di poter acquistare se non a prezzi esorbitanti). Ciascuna plaga dell’isola ha oltre che le produzioni comuni, certe particolari: grano, cereali, patate, formaggio, lardo, olio ecc. Queste questue riunite nel centro diocesi o [altrove] verrebbero ritirate per cura dell’amministrazione del Regionale», suggerisce monsignor Giuseppe Cogoni nel novembre 1943 impegnato a non chiudere assolutamente il seminario per non mettere a repentaglio l’anno scolastico e forse anche qualche vocazione.

Singolarmente avventurose sono proprio le missioni d’approvvigionamento tentate da padre Gallicet ed altri: a Borore, a Loceri, a Barisardo, a Lanusei, a Villagrande, a Mamoiada, a Nuoro, in Trexenta, a Sorso e Sennori… con imbarazzanti, e talvolta drammatici incidenti, manovre sbagliate, pneumatici sottratti alla macchina, frizioni che si guastano, blocchi militari in sequenza. Scene da film neorealista, ultime inevitabili conseguenze di una guerra scatenata dall’imperialismo di una dittatura secondata (con pedagogia pervertita) dalla Chiesa italiana lungo vent’anni e più, sul sangue di molti – don Minzoni fra essi – ma infinitamente meno di quelli che hanno applaudito il regime nelle piazze e in casa, perfino in chiesa.

Cambia il quadro storico nella seconda metà degli anni ’40, e nei vent’anni a seguire saranno altri i colori di fondo della scena mondiale e nazionale, fra ricostruzione e guerra fredda, sviluppo economico ed occupativo – si pensi agli anni ’60, naturalmente anche con le sue ombre (i grandi flussi migratori verso il nord Italia e l’estero dalle regioni meridionali e dalla Sardegna) – fino ai primi nuovi cenni di crisi.

Muniti di una… bisaccia personale (riempita dalle parrocchie se non si può dalle famiglie), gli studenti sono riammessi, dopo l’estate, nell’anno scolastico 1946-47.  La retta mensile, già portata da 150 a 180 lire (e il bucato da 10 a 15 lire, mentre la tassa annuale d’iscrizione è andata da 50 a 100 lire) viene portata a 3.000 lire «pagabili a trimestri anticipati in denari o in derrate alimentari», il valore delle quali è determinato secondo i listini – nello specifico – della Camera di Commercio provinciale nuorese.

Qualche avvicendamento nel corpo docente (vanno via Monetti, Gallicet, Degrandi, Marchesi, Della Casa, entrano il tempiese Volo – cui subentrerà poi padre Di Girolamo – per storia ecclesiastica e i padri Furreddu, per le discipline scientifiche, e Rocco, moralista, e l’acquisizione della bella biblioteca di don Pietro Maria Cossu, intellettuale di razza e storico parroco marmillese, costituiscono, unitamente al ricambio anche nel rettorato – è in stallo adesso padre Crescentino Greppi –, alcuni segnali di novità e rilancio dopo la lunga stagione di precarietà coincisa con la guerra. Nel buono c’è ovviamente anche il cattivo: un qualche virus (intestinale e polmonare) riempie l’infermeria per qualche tempo, e coinvolge nelle diagnosi e nelle terapie (e poi anche nella disinfestazione totale dei locali) il meglio della medicina sarda, a cominciare dal professor Brotzu.

La lunga preparazione al Concilio

Gli anni ’50 sono visti da Cabizzosu come un tempo di lenta ma certa fermentazione del “bisogno” conciliare. Ve ne sarebbe – ve n’è – traccia nel nuovo periodico L’Eco del Regionale, ma naturalmente è nella vita stessa delle comunità parrocchiali che comincia progressivamente ad avvertirsi, anche forse per la spinta obiettivamente esercitata dalla crescente modernizzazione e (pur soltanto come linea di tendenza) secolarizzazione della società, il bisogno dello svecchiamento. Si comincia, nel settore liturgico generale, con qualche novità, con l’allentamento del digiuno eucaristico, ad esempio, o con la introduzione della messa vespertina, e più ancora con qualche revisione di giudizi formulati su dottrine e dottori, tanto più nel campo interno della teologia e dell’esegesi o dell’ermeneutica.

Naturalmente tutto ciò non annulla il gap, paurosamente grande, fra lo spirito pubblico, la diffusa sensibilità sociale cioè anche in materia etica e di costume, e le ipertrofiche rigidità clericali che neppure smetteranno, pur se molto si ridurranno, con il Concilio dei primi anni ’60. Certo è comunque che sembra entrare nei gusti anche formativi del clero, e specificamente, nel Regionale quel che la democrazia postbellica, in crescente rafforzamento, porta con sé, come rovescio esatto del patrimonio conformista, chiuso e noioso della dittatura anteguerra. Cresce lo scambio, insomma, fra Chiesa e società: la prima afferma una soggettività finalmente matura, pur con tutti i suoi condizionamenti e le sue contraddizioni (soprattutto per il contenimento delle sue native pulsioni profetiche da parte di un apparato giuridico/istituzionale ancora troppo autoreferenziale: sono degli anni ’50 il tentativo della “operazione Sturzo”, la crisi dell’Azione Cattolica e l’emarginazione di uomini come Arturo Paoli e Carlo Carretto, ma anche di padre Turoldo e di padre Balducci, o di don Milani, per restare soltanto a qualche nome noto della patria nostra, e del 1958 è il famoso pubblico j’accuse del vescovo di Prato contro una giovane coppia sposata solo civilmente), la seconda scopre nella Chiesa un elemento di forza che, tanto più nella pratica sussidiaria, e dunque nella socialità così come nell’educazione, non è di nessun altro soggetto pubblico.

Lo stesso movimento cattolico italiano, se aveva conosciuto negli anni ’20 e ’30 qualche timida posizione di autonomia rispetto al pensiero dominante e al pervadente sistema socio-politico – si pensi alla FUCI e anche all’Azione Cattolica – conosce una progressiva articolazione e le minoranze anticipatrici diventeranno, nel tempo, le protagoniste di scelte storiche: basti qui pensare alla svolta politica che, progressivamente pensata e preparata, porterà, negli stessi anni del Concilio alla svolta del centro-sinistra, cioè all’alleanza politica del partito di matrice cattolica con i socialisti.

A venticinque anni dalla fondazione

Ricorda, Cabizzosu, le celebrazioni per il XXV del Regionale che impegnarono in loco i vescovi Fraghì e Tedde (poi anche gli altri), il cappellano capo (e prossimo vescovo e arcivescovo) Paolo Carta, padre Riccardo Lombardi, l’assistente generale della Compagnia di Gesù padre Martin, il direttore della Radio Vaticana padre Costa, lo stesso cardinale prefetto Giuseppe Pizzardo, noto perché reazionario ed ostile ad ogni esperienza di preti-operai. Liturgie solenni e solenni concerti, fiumi di parole, grandi e impressionanti scenografie.

Un focus statistico lo merita l’anno giubilare (per il seminario), il 1952 cioè: 240 gli studenti iscritti (s’affaccia un certo calo nelle immatricolazioni liceali), una quindicina gli abbandoni, 37 le ordinazioni; piuttosto soddisfacente e generalizzata la partecipazione alle attività culturali a latere, come – secondo la declinazione fornita dall’uscente rettore Greppi – lo «studio della musica sacra con suono dell’armonio, conferenze di sociologia, di azione cattolica, di pastorale tenute da relatori esterni, attività dell’osservatorio meteorologico, dell’osservatorio sismologico», oltreché la frequentazione della biblioteca.

Il ritorno di padre Bozzola alle responsabilità apicali, accompagnato dall’arrivo (o dal ritorno) di nuovi docenti per dogmatica, diritto canonico e teologia fondamentale e pastorale, Sacra Scrittura e forse altro, segna una tappa, un’altra, del cammino iniziato nel 1927, ora in un contesto che anche sul piano dell’ordinamento vede una innovazione importante: perché proprio nell’anno scolastico 1954-55 viene introdotto il quarto corso filosofico, di passaggio cioè dal liceo alla teologia.

Ogni relazione annuale – adesso di padre Bozzola, dal 1959 di padre Lanz, dal 1963 di padre Miglio (intanto vice al posto del tissese padre Capitta) – è la rappresentazione di conferme e novità, di numeri (ora in ripresa ora in calo) e di nomi (associati alle cattedre), di attività in consuntivo e di nuove programmazioni: 33 le ordinazioni del 1954, 32 l’anno seguente, 45 i liceisti di prima nel 1955 e anche nel 1956, ma 52 nel 1957, con un rialzo della popolazione complessiva fino a 236 unità che diventano ben 275 nella relazione, l’ultima della sua serie, che padre Bozzola trasmette ai vescovi il 29 aprile 1959: «63 iscritti al primo anno di liceo, vacante il quarto anno di teologia… Per la prima volta i diaconi ebbero una camera propria», sintetizza Cabizzosu ricordando anche che «Tra il personale venne immessa una figura nuova: un vice-vice (P. Gamba), che doveva coadiuvare nella disciplina il vicerettore».

Per quattro anni, fra il 1959 ed il 1963, è dunque padre Arnaldo Lanz, fisico e chimico oltreché teologo, il responsabile delle cose cuglieritane. Che non sono “cose” soltanto di passaggio, ma di svolta, perché incrociano in pieno il pontificato di Giovanni XXIII e la preparazione e poi lo svolgimento della prima sessione conciliare. Il Regionale, nel suo corpo docente, è chiamato anch’esso ad esprimere i “consilia et vota” richiesti a tutte le istituzioni accademiche, così come ai vescovi, abati e superiori generali dei cinque continenti. Anche per quanto ne ha già trattato nel suo pregevole I Vescovi sardi al Concilio Vaticano II. Protagonisti, vol. II, Cagliari, arkadia 2014, Cabizzosu dà largo spazio alle riflessioni ed alle proposte del collegio docente, trasmesse a Roma il 27 aprile 1960. In breve, esse facevano riferimento alla Sacra Scrittura, relativamente ad una apertura esegetica associata ad una «congrua vigilantia» su pubblicazioni e modernismi teorici e pratici; al dogma (qui ancora ribadendo, come nell’Ottocento, la condanna delle dottrine politiche tanto marxiste quanto liberali, e meglio studiando la natura teologica del sacramento della cresima); alla riforma del diritto canonico; ai religiosi relativamente al loro progetto vocazionale ed alla collaborazione con il clero secolare; all’amministrazione dei sacramenti (con un dettaglio in dieci punti); e ancora a questioni come i «giorni festivi», alle «facoltà» dispositive concesse ai vescovi, alle «scuole», alle «cause» inoltrate alla Curia romana, all’«azione cattolica» e dunque all’apostolato laicale e alle congregazioni mariane.

Sensibili, o più sensibili alle questioni teologiche piuttosto che a quelle pastorali, i professori cuglieritani riflettevano, davanti alla novità rivoluzionaria annunciata (già soltanto con i segni) da papa Roncalli, la stanchezza della loro formazione: una ecclesiologia tridentina, cioè, e una certa fatica perfino a intuire, neppure a comprendere, le «finalità pastorali del Concilio, sebbene il pontefice Giovanni XXIII – scrive Cabizzosu – ne avesse già sottolineato la peculiarità». «Anche nella vita interna della Chiesa, – aggiunge il Nostro – in una visione ancora da ancien regime, si chiedeva un maggior controllo della Curia Romana sulle Chiese di periferia ripristinando il ruolo dei visitatori apostolici. Non mancavano, tuttavia, aspetti significativi come l’attenzione al diritto di proprietà privata, la sua destinazione sociale, l’allargamento del periodo di formazione prima dell’ordinazione sacerdotale, l’educazione della gioventù, la promozione della presenza cristiana nel mondo della cultura».

Circa la stagione propriamente conciliare, opportuno mi sembra sia stato, da parte dell’autore, il rimando alla vivida testimonianza di due ex studenti – Antonio Addis della diocesi di Tempio e Gavino Leone della diocesi di Ozieri, ordinati rispettivamente nel 1965 e nel 1963 (esse saranno riprese, come già accennato, nel terzo volume della trilogia): «Mentre a scuola studiavamo in maniera immutata le solite discipline curriculari, negli spazi di tempo libero ci esercitavamo su temi del tutto nuovi di ecclesiologia, di Sacra Scrittura, di ecumenismo, esplorando con occhi diversi il rapporto della Chiesa con il mondo, con le altre confessioni cristiane, con le religioni non cristiane e perfino con i non credenti», «La rivista Il Regno iniziò a pubblicare un inserto sul Concilio con la cronaca di ogni giorno e la sintesi degli interventi dei vescovi, arricchiti da commenti e approfondimenti di vari teologi… avevamo in mano non solo le bozze del primo documento del Concilio Vaticano II, Sacrosantctum Concilium sulla Liturgia, ma eravamo giù imbevuti di quello spirito di rinnovamento».

L’ultimo decennio

L’ottavo capitolo è intitolato “Prestigio e inizio della crisi” e insieme coinvolge, in un impasto di cui sono ben regolati però i tempi, le cause e gli effetti, gli anni del Concilio e quelli del postConcilio. Si tratta di una fase storica in cui molti di quelli che si appresteranno alla lettura del lavoro di Tonino Cabizzosu sono, come don Addis e don Leone e come anche il sottoscritto, testimoni più o meno centrali (e se marginali va bene lo stesso). Sotto questo riguardo, la ricostruzione storica operata dall’autore, anch’egli per ragioni anagrafiche chiamato, pur giovanissimo, pur soltanto studente (dai salesiani del Mandrione dopo che da quelli di Lanusei, e prima di approdare, nel 1967, a Cuglieri per il liceo e il primo corso di teologia), a “partecipare”, assume toni appunto e inevitabilmente… partecipativi. Non che ceda, Cabizzosu, ai suoi doveri di distacco analitico nel trattare la materia (egli ha troppo mestiere alle spalle per essere tentato da improprie partigianerie): mi pare un dato certo però che nella esperienza, sia genericamente culturale che intimamente morale, dello storico che è prete entrino elementi supplementari di conoscenza e di sensibilità elaborativa che ad altri sfuggirebbero. E d’altra parte egli, come storico della Chiesa maturato alla scuola dei padri Giacomo Martina e, può dirsi, nei riflessi dell’opera magna di un don Giuseppe De Luca – per cui, a dirla in una parola, la storia della Chiesa non può non studiarsi che all’interno della storia sociale e civile di un popolo o di un tempo – ben si colloca, da lungo tempo, fra gli interpreti “non neutri” ma apertamente “conciliari” delle vicende ecclesiali del Novecento.

Non si trascuri questo passaggio perché appare sempre necessario conoscere la lente dello storico onde inquadrare e penetrare fino in fondo le risultanze dei suoi studi. E Cabizzosu, con i cinquanta e passa corposi saggi monografici, con le centinaia e centinaia di articoli pubblicati in Sardegna e fuori, con la quantità di conferenze tenute negli ambienti i più vari, ora accademici ora ecclesiali ora anche di dibattito civile, ha sempre onestamente rivelato la sua matrice, così come era stato dai suoi maestri in cattedra negli anni di frequenza alla Gregoriana.

Si tratta, da questo punto di vista, di avere piena contezza dell’imprinting culturale di tanto autore per comprendere tutti gli sviluppi della sua interessante, oltreché copiosa, produzione. Di questo, d’altra parte, egli stesso ha dato conto in più occasioni, e soprattutto in Percorsi di fede e ricerca scientifica di un presbitero sardo, uscito nel 2008, e raccolta non soltanto di notizie biografiche ma anche, e forse soprattutto, di una confessione spontanea e documentata circa il processo culturale, fra le grandi coordinate ecclesiali, da lui sviluppato nel tempo.

In quel testo emergono per centralità, a mio avviso, proprio gli anni formativi cuglieritani: “Alla scuola dei Gesuiti: liceo classico (1967-1970) e “Gli studi di teologia a Cuglieri e a Cagliari (1970-1975). Se ne conclude quindi che in quelle dense e coinvolgenti dieci-quindici pagine v’è già un’anticipazione di quanto oggi, a quasi dieci anni da quella pubblicazione, ed a quaranta dalla esperienza sul campo, Cabizzosu propone con Per una storia del seminario regionale di Cuglieri (1927-1971): offrendo anche il suo contributo personale, di testimone, della vicenda cuglieritana già volta al suo declino e in preparazione della nuova stagione nella capitale della Sardegna.

Erano 300 gli alunni dell’anno scolastico 1961-1962 e cinque di più nell’anno successivo, compresi ben 48 liceisti chiamati alla licenza presso le scuole pubbliche. Nel 1967 si avrà il riconoscimento legale del liceo seminaristico (allogato in locali ad hoc, con tanto di gabinetti scientifici e fornita biblioteca) da parte dello Stato, con la conseguente equiparazione dei titoli rilasciati.

All’autunno del 1961 rimonta il lancio dell’associazione “Regnum Christi”, finalizzata al coordinamento di tutte le dodici organizzazioni parascolastiche attive nel recinto del seminario, dalla Polisportiva Pio XI, presieduta dall’indimenticato don Efisio Spettu, al Collegio dei cerimonieri ed a quello dei sacristi, dal circolo di Azione Cattolica all’Apostolato della preghiera, dal Circolo missionario alle Congregazioni mariane, dall’Opera catechistica San Giovanni alla Lega di perseveranza, dalle accademie di camerata a quella di Santa Cecilia, dal Club dei filodrammatici a quello Cineforum.

All’indomani della conclusione della seconda sessione conciliare (la prima convocata da Paolo VI) padre Miglio saliva il gradino che da sperimentato vicario lo faceva titolare; con lui turnavano anche una ventina fra professori e superiori. Puntuale anche il nuovo rettore nella trasmissione dei suoi report, dai quali – tanto per dare una misura e una tendenza (declinante) nei cruciali anni che legavano stagione conciliare e stagione postconciliare – potrebbero stralciarsi i numeri che già Cabizzosu estrapola combinandoli con gli accenni alle attività: nell’anno scolastico 1963-1964 i chierici assommavano a 283, idem nel successivo (136 teologi, 26 nel corso superiore filosofico, 121 liceisti), e ancora in sequenza 270 (rispettivamente 125, 131 e 114), 252 (121, 24, 107), 256 (117, 25, 114), idem.

Nell’anno scolastico 1969-1970 gli iscritti erano complessivamente 197 (95 fra teologi e filosofi e 102 liceisti) ed ai gesuiti così come ai vescovi appariva ormai sempre più chiaro lo scenario nuovo che andava delineandosi negli assetti sia fisici che ordinamentali del Regionale. Il quale, sotto il profilo puramente istituzionale, avrebbe visto col tempo un sostanziale e progressivo ridimensionamento. Tanto più nel liceo e nel corso filosofico gli abbandoni nel quadriennio 1964/1968 sarebbero stati, in sequenza, del 10,60%, dell’11,11%, del 9,52% e del 14,45%. Nella sua relazione datata 20 luglio 1969, il rettore Miglio avvertiva «una crisi avanzante di vocazioni al sacerdozio, che inciderà parecchio nei prossimi anni… Forse bisognerebbe incominciare ad organizzare e a favorire di più la ricerca sulle vocazioni di adulti».

Rilevava, padre Miglio, un certo affievolimento dello spirito di fede, accompagnato da una minor propensione al sacrificio così come a calarsi nell’esperienza della vita eucaristica e sacramentaria e di preghiera, ed una speculare crescente insofferenza per «le pratiche spirituali e le regole comunitarie». Il famoso ’68 – annus horribilis per i conservatori – aveva fatto capolino anche dentro le mura del fortilizio clericale del Montiferru. Invero non poteva accadere diversamente. Né fu un caso che, ad iniziativa di taluno che non attese autorizzazioni, venne diffuso fra i 94 teologi un questionario volto a raccogliere giusti contributi «in vista della ristrutturazione della vita del seminario e sulla riforma degli studi». Parteciparono al sondaggio in 81 ed i risultati vennero portati a conoscenza dell’intero episcopato sardo. Bocciata, con la maggioranza del 60%, l’ipotesi di una possibile (e invero problematica) permanenza nell’isolamento di Cuglieri molto ampio era il ventaglio delle opinioni circa le concrete opzioni alternative: accanto ai riformatori erano i riformisti – per adoperare adesso qualche categoria della scienza politica e non di quella religiosa – , v’era chi si mostrava più sensibile alla ricomposizione del seminario per piccoli gruppi, chi chiedeva una maggiore corresponsabilizzazione degli studenti nella gestione generale, chi puntava alla distinzione fra le figure del padre spirituale e dell’animatore, chi auspicava un animatore “pleno vitae” e chi invocava la soppressione del ruolo, chi desiderava democrazia ed elezioni dal basso dei formatori, chi negava tour court fiducia all’istituzione ecclesiale in quanto a presa pedagogica, alla sua capacità di presenza critica e testimoniale nella società, ecc.

Del 1969 si procedette a una visita psico-pedagogica che coinvolse l’intera popolazione del Regionale. Una équipe di esperti provenienti dall’università salesiana di Roma ebbe incontri, per 16-18 ore complessivamente, con i chierici e nel febbraio 1970 – quattro mesi dopo il consulto – si fornì al seminario la scheda personale nominativa e il giudizio complessivo circa la comunità.

Cabizzosu testimone, oltreché resocontista ed interprete, scrive al riguardo: «Chi scrive… ricorda il diffuso malumore tra i chierici a causa del tempo scelto: venne improvvisamente annullato l’atteso periodo di vacanze in famiglia e la non celata minaccia da parte di non pochi studenti di rispondere in maniera superficiale ai questionari. Oltre gli incontri personali e di gruppo, la metodologia posta in essere proiettava sulle pareti bianche “schizzi” o “raffigurazioni” quasi incomprensibili e gli studenti venivano invitati a scrivere il primo pensiero che veniva loro in mente. Tale proiezione, fatta in tempi diversi e per gruppi minori, avrebbe, forse, avuto esito migliore. L’ambiente, durante la “forzata” sosta per l’analisi psico-pedagogica era surriscaldato, ed il contesto in cui si svolse era carico di contestazione. La relazione comunitaria sarebbe dovuta rimanere segreta… tale riservatezza non venne rispettata. In data 27 marzo 1970 il settimanale diocesano turritano Libertà la pubblicò integralmente».

E qui è riportato proprio quel testo che afferiva a cinque campi: intelligenza, socialità, motivazioni vocazionali, livello socio-culturale, affettività. Il gruppo fu riscontrato «entro la media, con pochi al di sopra e pochissimi al di sotto (molto scadenti)», riguardo all’intelligenza; fortemente propenso alla socialità, pur con difficoltà a tradurre nella pratica tale inclinazione; piuttosto scontento e aggressivo o rivendicativo riguardo al livello socio-culturale di provenienza; attraversato da «captività ed egocentrismo», e dunque da immaturità, in ordine all’affettività. Specialmente interessanti le osservazioni in ordine alle motivazioni vocazionali: «Si constata che per un certo numero il seminario è soltanto un centro di studi. Alcuni stanno in seminario come forzati o condizionati da persone e situazioni esteriori alla loro accettazione personale. Alcuni non affrontano seriamente e con senso di responsabilità la loro decisione. In alcuni esistono valori umani molto validi che devono essere integrati in quadro di riferimento molto più vasto, che includa valori spiccatamente religiosi».

Entra in campo il cardinale Baggio

L’ultima relazione di padre Miglio reca la data del 29 agosto 1970, ed il 1970 – l’anno stesso della storica visita di papa Montini a Cagliari (e anche dello scudetto tricolore della squadra del Cagliari di Gigi Riva) – è l’anno cruciale che chiude la storia. Le cronache di quanto e come concorse alla chiusura definitiva di una storia lunga e onorata sono concentrate da Tonino Cabizzosu in alcune pagine che definirei proprio magnifiche del suo lavoro. Non le riassumo e soltanto riferisco che, secondo le intese vescovili assunte a Bosa nel marzo, le tre classi liceali venivano retrocesse da Cuglieri alle singole diocesi di appartenenza degli studenti (ma arrivarono tutte a Cagliari), e che in data 5 maggio il provinciale torinese della Compagnia di Gesù, registrando ormai a Cuglieri una situazione di grave disagio, si appellava all’art. 7 della convenzione: ne veniva la disdetta contrattuale (comunicata con l’anno d’anticipo previsto), vale a dire la rinuncia a proseguire  nell’oneroso ufficio della formazione culturale e religiosa dei chierici diocesani.

Fu il cardinale Baggio, presidente pro tempore della CES, accompagnato dall’arcivescovo Fraghì a concordare con il provinciale Vergnano e il rettore Miglio di dar corso, dall’anno scolastico/accademico 1971-1972, alla chiusura definitiva della esperienza cuglieritana ed al trasferimento dei teologi a Cagliari. Ancora per l’anno scolastico 1970-1971 era dunque garantita la permanenza nella vecchia sede, poi sarebbe avvenuto il trasloco, ponendo a carico della CES gli oneri (oltre che finanziari anche organizzativi) della sistemazione a Cagliari del centinaio circa di teologi, mentre la facoltà avrebbe avuto una sorte autonoma, restando, nei nuovi locali di via Sanjust, in capo ai gesuiti. Per la Conferenza Episcopale Sarda si sarebbe posto successivamente anche il problema di alienare, a chi e con quali modalità, il complesso del Montiferru (da ricordarsi: di proprietà della Santa Sede) e la costruzione a Cagliari di una sede adeguata per capienza e funzionalità.

Nel travaglio del periodo – a Cagliari la prolungata malattia dell’arcivescovo Botto aveva poi determinato, nel 1969, la sua rinuncia e il subentro, appunto, del cardinale Baggio finora impegnato nella diplomazia vaticana, ad Iglesias così come a Lanusei ed a Nuoro la malattia o la morte dei residenziali Pirastu, Basoli e Melas avrebbero portato, l’anno successivo, in diocesi altri presuli, rispettivamente Cogoni, Delogu e Melis-Fois, innovando anche a Tempio con l’arrivo di monsignor Urru – la Conferenza Episcopale parve mostrarsi impari, e comunque intempestiva, a governare la complessità derivante dall’abbandono della Compagnia, al più interessata a proseguire nella gestione della sola facoltà teologica.

Va detto che fin dal dicembre 1967 i vescovi erano stati allertati dalla Congregazione dei Seminari, ora affidata al cardinale Garrone, circa le intenzioni della Santa Sede di affidare l’amministrazione di tutti i pontifici seminari italiani alle conferenze episcopali locali. Ciò sia in materia disciplinare ed economica, sia in materia specificamente scolastica. Le intenzioni – che poi erano una vera e propria delibera assunta dallo stesso Paolo VI – si inquadravano nel più ampio disegno di un rimaneggiamento/accorpamento delle innumerevoli diocesi del Bel Paese.

Forse quel che temettero di più i presuli sardi erano gli oneri finanziari dell’operazione e la ricostruzione degli eventi operata da Cabizzosu non tralascia qualche elemento informativo su quello che si rivelò sempre più il… punctum dolens della relazione pattizia attivata ormai da quattro decenni. Dal 1° luglio 1968 la direzione del Regionale passò alla CES, e per essa ad un collegio di quattro vescovi, compreso il presidente della Conferenza: nel concreto però ancora per cinque anni era confermata in capo alla Compagnia di Gesù la direzione immediata; per la CES aveva sottoscritto la convenzione l’arcivescovo Botto, al tempo presidente della Conferenza, impegnando il clero diocesano a una più attiva collaborazione. La facoltà Teologica continuava ad essere retta dagli antichi statuti approvati dalla Santa Sede. Quest’ultima conservava la proprietà degli immobili (e naturalmente dei terreni) cuglieritani e si – caricava gli eventuali oneri straordinari ad essi relativi. Circa il personale è da dire che dopo ben 42 anni lasciavano le suore del Cottolengo, affidatarie dei servizi di cucina e alloggiamento.

Ma per intanto, prima di sbaraccare, la grande comunità ormai concentrata sui soli filosofi e teologi – dimezzata press’a poco per la cessione ormai intervenuta dei liceisti – doveva affrontare il suo ultimo anno di “vecchio regime”, con padre Giuseppe Bosio rettore.

Alla sua ultima relazione, che rifletteva il senso di precarietà ormai inevitabilmente calato sulla compagine sia docente che discente, e piuttosto critica su talune attitudini ad un impegnativo esercizio del ministero da parte dei chierici iscritti e valutati, si sarebbe sommato nel breve periodo il cosiddetto “promemoria Tiddia”, mentre quello cosiddetto “Teani” – dal nome del preside della facoltà dal 2002 al 2016 (nella sede cagliaritana ovviamente) – sarebbe giunto, come ricostruzione ex post, di taglio piuttosto storico, per ricostruire gli step, cioè i passaggi che avrebbero condotto, partendo dagli anni 1966-1967 e lungo un lustro intero, al pieno trasferimento della grande famiglia cuglieritana nel capoluogo.

Flashback sentimentale anni ’20-’30 (e poi): i “Diari” e” L’Eco”

Anche ai documenti Tiddia e Teani, così come alle vivide testimonianze personali di padre Umberto Wernst e di padre Raimondo Turtas – grande nome della storiografia ecclesiastica sarda – Cabizzosu offre lo spazio di numerose pagine, assolutamente preziose per fissare, da diversi punti di vista, la successione degli avvenimenti, i rapporti di causa ed effetto fra essi, le dinamiche dei rapporti reciprocamente intrattenuti dalle istituzioni ecclesiali, le mutate sensibilità della gran “scolaresca” finalmente approdata – ma con quante problematicità d’ogni genere! – nel capoluogo.

Merita accennare in conclusione ai capitoli che chiudono, o quasi, il libro. Essi rendono un certo passato quasi eredità sentimentale e ideale, davvero non tutta commendevole nei contenuti propri, giusto nel momento in cui è affrontata la questione del passaggio dalla campagna del Montiferru ai traffici della città. Quelli intitolati, in sequenza, “Spazzi di vita seminaristica dal ‘Diario filosofi’ (anni 1927-1936)” e “Dal ‘Diario teologi’ (1935-1936)” offrono, in parte in convergenza in parte diversamente dalle relazioni dei rettori, la possibilità di entrare nel vivo quotidiano del Regionale a cominciare proprio da quello delle camerate: in anni – questo va ricordato – che rappresentano il primo decennio dell’esperienza “concentrazionista” dei giovani chiamati, per il vero oppure no, al sacerdozio. Ciò – va ripetuto anche questo –  in un periodo che si dirà del “consenso” al regime di dittatura tanto spesso subito e però altrettanto spesso lodato, anche da vescovi e monsignori variamente graduati, come difensore della fede.

Si tratta, nel primo caso, di quanto zampilla da ben nove quaderni manoscritti che registrano le attività più varie che impegnarono le due o tre centinaia di studenti, ma più specificamente i filosofi (cioè i liceali, naturalmente tutti in talare). Si fissano gli episodi di condivisione come le gite ecologiche «fra cardi e rovi» e quelle nei paesi della zona, da Santulussurgiu a Scano Montiferro, in montagna verso Monte Ortigu o al mare verso Santa Caterina… Con lo svago l’impegno culturale, com’è il «saggio di Logica minor» dei ragazzi del primo corso, davanti a tutti i professori, al podestà ed al can. Deriu, o come sono le accademie scientifiche e quelle gratulatorie, una volta per festeggiare, in un certo 19 marzo, tutti i Giuseppe, un’altra per dare onore al cardinale Bisleti che compie i primi cinquant’anni di messa o al cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri (quello della firma dei Patti con il cavalier Benito Mussolini… a suo tempo convenientemente celebrati in seminario) in visita a Cuglieri… Nel novero anche le esercitazioni di oratoria sacra «in cappella, in camerata o a refettorio», una volta di don Francesco Spanedda – futuro vescovo di Bosa, padre conciliare e arcivescovo di Oristano – 18enne, un’altra di don Gesuino Martis – futuro canonista e giudice – 19enne…

Sono registrate anche le visite di numerose personalità religiose e civili, vescovi e cardinali: fra essi Fossati, tornato in Sardegna da Torino con molte e grate memorie nuoresi e sassaresi, ed esperti (come lo storico Damiano Filia), santi (come padre Manzella), ecc.  E’ registrato evidentemente il pellegrinaggio a Roma, dal papa, nell’estate 1929, sono registrati i rapporti intrattenuti a vario titolo con la comunità civile di Cuglieri, così come i momenti in cui – con i discorsi o le recite in lingua sarda o le conferenzine sulle tradizioni popolari – al centro si pongono i tesori della identità regionale: italiani e sardi, sardi e italiani, italiani perché sardi.

Nel secondo caso, trattandosi di redattori più grandi e perciò più maturi, le registrazioni appaiono anche di riflessione e non soltanto di cronaca. I successi dell’imperialismo fascista sono accolti con interesse ed anche entusiasmo da superiori e chierici: è il tempo del dono alla patria dell’oro o dell’argento di casa (chi ce l’ha, ma tutti o quasi una catenina o un anello ce li hanno), è il tempo della occupazione di Axun ed Adua, della vittoria in Amba Alagi, di Addis Abeba italiana… Una volta – ricordano le registrazioni – padre Quirico morì davanti a tutti, dopo aver inneggiato al fascismo, per aver inneggiato con troppa foga alla virtù della dittatura. Nei quaderni anche le cronache dei funerali.

Si affacciano, in quelle pagine, le annotazioni (invero dilatate ben oltre il 1936, direi almeno fino al 1942) che investono la guerra di Spagna – saranno ospiti del seminario alcuni padri gesuiti spagnoli fuggiti dal loro paese e rifugiatisi in Italia, in Sardegna, proprio a Cuglieri, ed anche per insegnare – ma investono pure aspetti più strettamente inerenti la vita religiosa: la camerata dei diaconi raccoglie 770 lire devolute alle missioni, le conferenze vanno in successione e così le visite di prestigio: il maestro Tebaldini parla del canto gregoriano e anche del Palestrina, monsignor Ranzani parla dell’India (dov’è amministratore apostolico) e monsignor Arborio Mella di Sant’Elia conversa sull’aneddotica privata di tre pontefici, il colonnello Becciu relaziona sulla guerra in Abissinia, il professor Gedda sull’associazionismo cattolico… Visite di molto onore sono quelle del cardinale Boetto, arcivescovo di Genova, del fisiologo professor Scremin, ecc.

E’ annotata – fra gli eventi di maggior onore – la tappa cuglieritana della salma di San Salvatore da Horta, appena canonizzato; da Cagliari salgono per dire delle loro esperienze di cappellani militari don Paolo Carta e don Giuseppe Lepori…

Come già i filosofi/liceali anche i teologi si esercitano in qualche particolare studio identitario, fra storia e lingua, così anche – offrendosi alla parrocchia come supporto nell’attività catechistica, o visitando famiglie e aziende – nei rapporti con la comunità locale fuori dalle mura del fortilizio.

Alle fonti diaristiche (di mano degli studenti) sommatesi a quelle rettorali, se n’aggiunge un’altra fondamentale, costituita dalle collezioni del periodico L’Eco del Regionale, del quale ho più sopra accennato e che resisterà fino al 1968. Il notiziario concorre anch’esso a delineare tempi e modi di sviluppo dell’esperienza scolastica, o scolastico/accademica e disciplinare cuglieritana; aiuta, con le sue varie rubriche – “Diario” e “Cronaca”, “Cronache e rilievi di casa nostra” e “Diorama scolastico”, “Vita sarda” e “Quadrante”, “Vita del seminario”, “Giorno per giorno” e “Telegiornale” (testatine che si presentano in successione dal 1949 al 1960) – a dare forma e consistenza all’ordinario e allo straordinario che hanno teatro – sempre lo stesso per 44 anni – ma attori sempre diversi, appunto quel migliaio di chierici e, nelle varie composizioni d’équipe, forse duecento fra superiori e docenti.

Accanto ai servizi o ai trafiletti di cronaca paiono meritevoli di speciale richiamo gli articoli di riflessione e poi anche quelli che, fornendo notizie delle attività, costituiscono un vero e proprio esercizio di scrittura giornalistica per i ventenni i quali, pur destinati all’altare o al confessionale, dovranno accompagnare ed irrobustire il ministero con una pratica sociale orientata e, insieme, flessibile. Dovranno saper inserire e anche spalmare, con duttilità, le virtù proprie e feconde del loro sacerdozio. Naturalmente entreranno in questo le personali sensibilità, caratterizzate chi in una propensione prettamente sacramentaria, chi in una preferenziale opzione pedagogica (e magari oratoria), chi ancora in una proclività piuttosto missionaria ed omnibus, chi ancora, se si vuole, in una disposizione intellettuale e politica lato sensu. Tanto più dopo il Concilio – andrebbe detto questo, o questa è la mia convinzione – si modella una certa tipologia di clero, nella varietà degli approcci al ministero s’intende, che nell’autonomia affermata dei ruoli religiosi rispetto alle antiche arrendevolezze e complicità con il potere, non teme di prendere posizione su questioni d’interesse generale, civile dunque, e politico. Nella logica dell’umanesimo integrale.

Cabizzosu, in quest’altro capitolo della sua complessa ricognizione, fornisce prove innumerevoli degli affacci giornalistici dei chierici cuglieritani, affacci talvolta destinati a farsi professione vera e propria di lato o come strumento del ministero in diocesi, nella collaborazione offerta e perfino nella direzione assunta dei fogli diocesani. Per conoscenza personale, e affetto e speciale riguardo, esemplificherei con Angelo Pittau e Petronio Floris: negli anni di vigilia della loro ordinazione essi, già vitali animatori di diverse accademie, firmeranno vari articoli sul piano di Rinascita – talvolta in accompagno alle visite degli esponenti della Regione Sarda – favorendo così conoscenze, slanci progettuali e riflessioni critiche su quel provvedimento di legge nazionale attuativo dello statuto d’autonomia, lungamente preparato e insieme foriero di un largo dibattito pubblico. Ho citato due nomi tanto cari ricordandoli, proprio in associazione, per lungo tempo, nella gerenza, direzione/condirezione del mensile villacidrese (ma a diffusione regionale) Confronto negli anni ’70-‘90. Ancora oggi don Floris, parroco della cattedrale di Ales, è il responsabile di Nuovo Cammino.

Chiunque voglia davvero entrare in profondità nell’universo cuglieritano – o risvegliando ricordi o sondando per la prima volta una realtà di Chiesa prima soltanto orecchiata – non può non trarre copiosi e preziosi elementi di conoscenza e interpretativi dai repertori di L’Eco del Regionale riesposti, per aggregati tematici e lungo ben trenta pagine, da Tonino Cabizzosu nel suo lavoro. Richiamo qui di seguito i titoli dei paragrafi che da soli aiutano a comprendere, antelettura, i percorsi esplorativi dello studioso: “Cronistoria della vita seminaristica e accademica”, “Collaborazione del clero diocesano e del laicato cattolico”, “Per una coscienza missionaria nei chierici. Attività del Circolo Missionario”, “Attività con gli ex alunni (ALAS e ALAGS)”, “La Lega di perseveranza”, “Realizzazione grandi opere” (elencati e dettagliati: organo elettronico, il Colle del Calvario, il monumento regionale al Sacro Cuore sul monte Bardosu inaugurato nel giugno 1961 dal cardinale Bea), “La Congregazione Mariana”, “Il Circolo di Azione Cattolica”.

Nei repertori del periodico (così come nei “diari”) chi davvero interessato potrà trovare i materiali biografici – storie personali e storie associative – di una popolazione che pur con tutti i limiti umani e ecclesiali (e clericali), ma certamente nella tensione al bene, e nel bene realizzato, ha favorito lo sviluppo spirituale e civile della Sardegna lungo il passo di alcune generazioni.

Lo stesso Cabizzosu – ne accennavo prima – in più d’una occasione, trattando dei suoi “eroi”, si è soffermato, forse anche con il tipico “indugio del professore”, a scartabellare pagelle e annuari. Così è stato quando ha dovuto lavorare ai profili individuali – cito qui soltanto due casi perché presenti in volume autonomo – di don Salvatore Casu, dell’archidiocesi di Cagliari, e di don Giuseppe Ruiu, della diocesi di Ozieri: il primo studente negli anni ’30, il secondo negli anni ’40/’50. Ed è lì, infatti, un… profluvio di voti, fra classi liceali e corsi accademici, nelle materie curricolari: ebraico, greco biblico, ascetica, dogmatica, patrologia, sacra eloquenza, arte sacra e archeologia cristiana, questioni orientali, salmi… naturalmente dopo le sgroppate in italiano e filosofia, fisica e matematica, scienze e storia. Pari attenzione riserva, né poteva essere diversamente, al cursus studiorum  di don Gesuino Mulas, anch’egli diocesano di Ozieri (cf. Salvatore Casu, una vita per la Chiesa, Cagliari, 2015 e Giuseppe Ruju, un parroco-scrittore per l’identità sarda, Cagliari, 2012, nonché il già citato, e tanto discusso, Diario Mulas. Un sacerdote sardo tra crisi e rinnovamento conciliare, Cagliari, Zonza Editori, 2001).

Un seminario fabbrica anche di vescovi: monsignor Angelo Palmas

Naturalmente, a scorrere gli elenchi degli studenti – ve ne sono in diverse pubblicazioni, fra le prime citerei Sardinia Sacra dell’edizione 1929 e anche dell’edizione 1937 – si rileverebbe con qualche facilità la presenza in essi anche di futuri vescovi, insomma dei nominativi di coloro (ovviamente sardi) che a partire dal 1948 (monsignor Antonio Tedde primo in classifica) avrebbero avuto la responsabilità pastorale delle diocesi isolane.

Mi piace collocare nel contesto anche don Angelo Palmas, nativo di Villanova Monteleone (diocesi di Alghero), classe 1914 – che sarà ordinato vescovo (con titolo canonico di arcivescovo titolare di Vibiana, in Tunisia) da Paolo VI nel giugno 1964 e inviato allora come delegato apostolico in Vietnam e Cambogia, territori in pieno sconvolgimento bellico.

Compare, don Palmas, fra gli studenti cuglieritani il cui nome è riportato nelle tabelle del corso filosofico e poi di quello teologico: baccelliere filosofo nel 1932, baccelliere teologo nel 1936 (i dati riesposti da Cabizzosu si fermano a quell’anno, ma don Palmas proseguirà con la licenza in filosofia e il dottorato in teologia, e a Roma, successivamente, anche in diritto canonico cum laude). Ordinato prete nel 1938 da monsignor d’Errico, alunno della Pontificia Accademica Ecclesiastica, entrò nel servizio diplomatico della Santa Sede assumendo vari incarichi in successione: dapprima nella Segreteria di Stato, poi nelle nunziature apostoliche in Belgio, Svizzera, Libano.

Fatto prelato (gratificato del famoso e non ancora obsoleto titolo di monsignore) con graduazioni tutte canoniche fra il 1947 ed il 1959, e vescovo, come detto, nel 1964, sarebbe passato nel 1969 alla nunziatura di Colombia (negoziando un concordato di quel paese con la Santa Sede) e nel 1975 e per tre lustri in Canada. Concluse la sua carriera ecclesiastica, ormai anziano, in un ufficio della curia centrale romana (fra gli altri uffici di distinzione citerei la ponenza nella causa di beatificazione del napoletano padre Vittorio De Marino “il barnabita medico amico dei poveri”.

Attivissimo sempre: negli anni vietnamiti consacrò numerosi vescovi per incarico papale (fra essi anche Francois Xavier Nguyen Van Thuan, a lungo crudelmente perseguitato dal regime comunista di Hanoi e imprigionato per tredici anni, destinato, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, al meritatissimo cardinalato e alla meritatissima presidenza del pontificio Consiglio di Giustizia e Pace; deceduto nel 2002 è oggi venerabile candidato ad una prossima beatificazione).

Fra 1964 e 1965 monsignor Palmas ebbe modo di partecipare alle ultime due sessioni conciliari, e sarebbe interessante approfondire la tipologia dei suoi contributi, al momento non ancora esplorati.

Focus Sanna, focus Porcu

Ho accennato sopra, quasi per rappresentanza territoriale, a due presbiteri che in epoca recente hanno dato alle stampe le loro memorie, ivi incluse quelle cuglieritane. Don Salvatore Sanna, solarussese in cinquantennale parrocato ad Isili, ha pubblicato nel 2013, per i tipi delle Grafiche Ghiani di Monastir, Don Salvatore Sanna. Ricordi autobiografici. Don Antonio Porcu, quartucciaio parroco/rettore in ultimo, e per 26 anni (dal 1984 al 2010) della basilica minore di Sant’Elena, a Quartu, ha invece pubblicato, nello stesso anno, dalle Grafiche Presscolor, Vita da prete.

Credo che l’estrapolazione della parte cuglieritana, vivacissima nella cronaca, valga a farci entrare ancora e meglio, in perfetta integrazione con i resoconti propostici da Tonino Cabizzosu compulsando le carte d’archivio e l’emeroteca, nelle calde e partecipate atmosfere – tanto più se calate in tempi calamitosi – della vita di seminario.

Scrive don Sanna, dopo aver riferito di aver studiato alle medie dai comboniani prima a Carraia (Lucca), poi a Padova ed a Brescia, ed attribuendo all’Opera delle Vocazioni oristanesi, sostenuta dal benemerito arcivescovo Giuseppe Cogoni, il supporto necessario alle spese della sua iscrizione al Regionale: «Nel Seminario ho vissuto gli anni più belli della mia vita per quanto riguarda lo studio e la formazione culturale e spirituale, più brutta a causa della guerra! Il cibo era scarso. Eravamo più di 300 seminaristi e tutti affamati come lupi! Aspettavamo l’ora della “passeggiata” per mettere qualcosa nello stomaco: si andava a rubare nelle vigne per racimolare i pochi e piccoli grappoli d’uva, negli uliveti per cogliere le olive secche non raccolte dagli agricoltori!

«Quasi ogni sera il Rettore ci rimproverava per i furti fatti da noi, si lamentava delle denuncie che i proprietari di Cuglieri gli presentavano. Le vacanze erano lunghe: sei mesi, l’anno scolastico corto: sei mesi! Un ricordo semitragico di un’estate: avevamo avuto l’ordine di ritornare a casa nel mese di Giugno o forse alla fine di Maggio. In due decidemmo di andare a piedi da Cuglieri a Zeddiani e Solarussa; a Zeddiani Don Zireddu, a Solarussa io. 40 Km! Avevamo già percorso metà strada quando ci raggiunsero due carabinieri che cercavano un evaso… dovemmo parlare a lungo con loro per convincerli che eravamo due poveri seminaristi affamati e così potemmo continuare il nostro viaggio, in carretta, per gli ultimi 15 Km., guidata dal padre di Don Zireddu, che ci era venuto incontro, informato dal figlio. Un viaggio stancante, perché la strada era accidentata e quindi ci sballottava assai. Da Zeddiani a Solarussa, altri 7 Km., sempre in carretta!…

«Ricordare il rientro in Seminario è triste, soprattutto ricordare cosa ci dava da mangiare il Seminario: cibo scarso per noi ventenni, spesso senza sapore: il primo consisteva in un piatto di brodaglia, acqua bollita e due cucchiai di pasta. Ci riempivamo la pancia di brodaglia e al tempo delle ciliegie completavamo il pranzo con 12-15 ciliegie! Le 12 ciliegie erano la pietanza!… davamo l’assalto alle valigie piene di pane e prosciutto mandate da Desulo dai familiari a Don Francesco Zanda. Tutti i familiari, quando venivano a trovarci, ci portavano provviste. I familiari dei chierici di Desulo li aspettavamo perché ci portavano prosciutto, formaggio e altro…

«La fame ci faceva soffrire e ciò era anche a scapito dello studio. La disciplina era pesante, la fame era grande e ci mortificava, il freddo si faceva sentire fino a diventare insopportabile. Ricordo che ci fecero sottoporre ad un controllo medico: il 90% risultò tisico. Ricordo anche che in quel periodo a casa mi fecero un cappotto di orbace pesantissimo, di un colore indefinibile! Nessuna vergogna!

«Un fatto storico e personale dovetti registrare nel III anno di Teologia: il prof. Schiaffino, gesuita, professore di morale, ci spiegò a scuola l’importanza delle offerte da dare per la celebrazione della Messa: erano necessarie. Io mi opposi decisamente, non mi sembrava giusto che si fissasse un prezzo per le Messe ma sostenevo le offerte libere; il professore si irritò parecchio ma io insistevo a oltranza! Si offese il professore e mi mise una insufficienza, un 5, voto che confermò nella pagella a fine anno, rimandandomi a Settembre!!

«Un’altra avventura, ancora negli anni di Teologia. Durante le vacanze il direttore della fabbrica di sigarette di Cagliari fu trasferito a Solarussa, anche la fabbrica con lui. Il buon direttore, lo ricordo benissimo, mi chiamava a casa sua e mi offriva pacchi di sigarette. Mi diceva: “So che non fuma ma le possono servire”. Infatti mi servivano. C’erano dei compagni che fumavano, io davo loro le sigarette e loro mi davano risme di carta. Poi questo commercio fu scoperto dal vice direttore che mi chiamò, mi rimproverò e mi assegnò per 2 giorni alla prigione nella camera isolata n. 18. Il disonesto commercio fu scoperto a “Funtana s’ozu”. Funzionava lo spionaggio!… La seconda volta che meritai un giorno di reclusione nella camera 18 fu quando diedi un calcio al pallone, capitatomi per caso tra i piedi nel cortile centrale del Seminario…».

Se il grosso dei flash di memoria di don Sanna fissa le scene dei primi anni ’40 – anni di guerra cioè – quello di don Porcu è collocabile invece nei secondi anni ’40 – anni di pace dunque – ed è perfettamente parallelo, direi, a quello che proporrà monsignor Pier Giuliano Tiddia che della “nidiata” del 1943 faceva anch’egli parte. Ecco don Porcu:

«Arrivammo a Cuglieri, a notte inoltrata, con un camion dell’esercito. Era il mese di ottobre del 1943. Si fece sosta a Oristano per prendere i seminaristi di quella zona. Non si poté seguire il percorso più facile, che costeggia il mare, perché i tedeschi in ritirata avevano fatto crollare il ponte di Riola. L’autista allungò il percorso attraversando Bonarcado, Santulussurgiu e, quindi, Cuglieri. L’indomani mattina mi trovai in un ambiente enorme. Tutto era gigantesco: porticati, sale, saloni, cortili, la cappella. E con me molti compagni, provenienti da tutte le diocesi della Sardegna. La mia classe, la prima liceo, era composta da 63 giovani su un totale di trecento seminaristi distribuiti tra le tre classi del liceo e i quattro corsi di teologia. C’era poco da annoiarsi, anche se Cuglieri era lontanissima dai grandi centri dell’Isola.

«Ero entrato in un altro mondo con tante novità. Una tra tutte: i superiori ti davano del lei. Ogni classe aveva i propri ambienti. Solamente cappella e refettorio erano in comune, oltre i campi da gioco, usati a turno. Le classi erano completamente autonome. Le guidava un prefetto scelto tra gli studenti di teologia e non si poteva assolutamente comunicare con le altre classi. Purtroppo non si poteva giocare a calcio. Durante una partita un seminarista, a causa di un incidente di gioco, aveva subito l’abbassamento di un rene. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, il modo per giustificare la contrarietà dei superiori a una pratica sportiva, il calcio, che determinava un tifo eccessivo e, talvolta sopra le righe, in una comunità dove l’equilibrio nei rapporti personali era fondamentale regola di convivenza. Si giocava a pallavolo con il calendario che includeva tutte e sette le classi…

«Non aver fatto la quinta ginnasiale comportava una preparazione culturale lacunosa in alcune parti, che si faceva sentire in un sistema di studi basato sull’uso del latino: nei libri, scritti nella lingua di Cicerone, nelle lezioni e perfino nelle interrogazioni. La materia che mi procurava maggiori problemi era la filosofia…

«La vita di pietà, alimentata dalle riflessioni dei superiori, in particolare dal padre spirituale, padre Pietro Striglioni, mi dava serenità. Tutto era bello e facile. Sentivo la presenza di Gesù tanto vicina. Dopo la cena c’era la possibilità di recarci in cappella per pregare. Alla sinistra del presbiterio c’era il simulacro dell’Immacolata. Ogni sera sentivo il bisogno di sostare davanti alla statua della Madonna. Ma questo momento idilliaco durò appena un anno, poi subentrò l’aridità. Tutto mi sembrava spiritualmente faticoso: pregare, concentrarmi, entusiasmarmi per la vita sacramentale. In quel periodo il padre spirituale e altri superiori mi aiutarono a non drammatizzare la situazione e a ricercare e ritrovare una fede più matura.

«Il seminario di Cuglieri ancorché un’isola felice per la sua lontananza dagli altri centri abitanti e da importanti strade di comunicazione, per l’attenzione degli abitanti del posto a non rovinare il clima quasi di ritiro spirituale che circondava il seminario, dal punto di vista culturale aveva necessità di aprirsi all’esterno… I visitatori d’ufficio erano i vescovi. Venivano sia singolarmente, per incontrare i loro chierici, sia in gruppo per riunirsi nella conferenza episcopale sarda. Tra gli ospiti prestigiosi ricordo con piacere il professor Giorgio La Pira, non ancora sindaco di Firenze; Carlo Carretto tra i leader dei giovani di Azione Cattolica; mons. Paolo Carta, allora cappellano militare. Tutti affascinanti conversatori… Questi momenti cultural-catechetici mi aiutavano a confermarmi nella scelta del sacerdozio. Mons. Carta raccontava le sue iniziative apostoliche ed emotivamente le sue storie di vita religiosa mi trascinavano al punto che mi immedesimavo in esse, pensando al mio futuro impegno.

«Terminata la guerra i problemi del mondo cattolico si orientavano sulla necessità di vincere il comunismo. In quegli anni, cambiavano i personaggi visitatori: venivano a parlarci uomini politici da Cagliari e da Sassari e Nuoro. Nel 1948, ero in seconda teologia, i superiori ci mandarono a casa per le elezioni politiche. Anche noi futuri preti dovevamo dare una mano ai Comitati Civici, braccio cattolico della Democrazia Cristiana, contro il “Fronte popolare” social-comunista.

«In quell’anno a Cuglieri ero delegato delle missioni. Era in programma, in seminario, la mostra missionaria. Il padre Angelo Perego, assistente, mi chiese di esporre la mostra nei locali dell’Università di Cagliari. Mi assicurai il permesso del presidente della Fuci e con un camion trasportai il materiale nella sede degli Universitari cattolici presso l’Università. Trovai accoglienza e grande disponibilità… Il presidente della Fuci era Paolo De Magistris… La mostra, che fu un successo, rimase aperta per quindici giorni.

«Partecipai anche ad un contraddittorio tra il padre Josto Sanna, professore di filosofia nel seminario di Cuglieri e grande studioso del marxismo… e l’intellettuale e politico comunista Sebastiano Dessanay. Il confronto-scontro si tenne nel salone del circolo di AC della parrocchia di Selargius…

«Nel 1949, all’età di 82 anni, morì mons. Ernesto Maria Piovella… Il 1° agosto di quello stesso anno fu nominato arcivescovo di Cagliari mons. Paolo Botto, della diocesi di Chiavari… Mons. Botto, ordinato vescovo il 2 ottobre nella cattedrale di Chiavari, fece l’ingresso solenne in città domenica 23 ottobre…».

Così don Antonio Porcu dopo don Salvatore Sanna. Uno spoglio mirato della stampa interna del seminario (o dei “diari”) forse potrebbe, chissà, ricondurre alla loro firma anche qualche contributo non ex post, come questi qui richiamati, ma in itinere… Sarebbe interessante.

D’obbligo sarebbe dire che se non sono “massa” i trecento liceisti/filosofi/teologi in continuo flusso e graduale avvicendamento, così da arrivare ai complessivi mille più volte citati, ancor meno potrebbero ritenersi tali – se ne converrà – rettori, superiori e docenti.

A cinquantuno di loro (scrissero anch’essi su L’Eco del Regionale, taluno anticipando anche propri studi particolari in vista di pubblicazione) Cabizzosu riserva uno spazio biografico essenziale, bastevole dunque almeno a delineare le singole personalità, molte delle quali di vera e propria eccellenza, entrate nel servizio del seminario. Nomi come quelli del biblista Francesco Sole e dei fratelli Boschi – qui citati Egidio il musicista e letterato ed Alfredo il moralista – ma anche, fra i giovani, Giuseppe Ferraro o Umberto Burroni, sono nella memoria remota e in quella recente cuglieritana (e taluno anche cagliaritana). Nel gran novero una citazione speciale la meriterebbero, con Angelo Gambella («animatore pastorale e sociale»), i sardi Angelo Aramu («la personalità più grande che fosse a Cuglieri») e il Giuseppe Era (siniscolese «padre spirituale e bibliotecario»), e – ultimo ma non ultimo – Vincenzo Volpe, infermiere e autista, fratello laico «giullare di Dio» secondo la definizione che ne diede, allorché morì prematuramente nel 1964, il confratello Egidio Boschi.

Altri focus, i preti senza più ministero

Ma se L’Eco del Regionale e i vari “diari” sono il grande contenitore delle cronache pubbliche e private del tempo che fu, e se molto può ricavarsi, in quanto alle testimonianze, ancora calde e sentimentali, descrittive e anche discretamente ironiche – lusso concesso dall’età conquistata! –, in attesa di avere fra le mani l’annunciato terzo volume della trilogia cuglieritana, io credo che uno spazio del tutto speciale lo meriti la memorialistica critica venutaci in questi ultimi anni da presbiteri che, nel tempo, hanno lasciato il ministero e realizzato la propria umanità e anche la sequela cristiana in ambiti e secondo modalità le più varie, fra famiglia e lavoro o impegno civile.

E’ credibile che Cabizzosu si riservi di recuperare testimonianze anche da quei fratelli preziosi testimoni di altri carismi, ma intanto mi è sembrato utile – prima di andare alle conclusioni – soffermarmi, pur brevemente, su alcuni dei diversi titoli presenti nella letteratura specifica. E in primo luogo mi parrebbe meritevole di citazione La fatica di vivere. Il mistero del proprio destino, il libro-memoriale di Salvatore Fiori – nascita e battesimo a Pozzomaggiore nel 1912, prete “operativo” dal 1937 al 1970, in benedizione dal nostro 1993 –, pubblicato postumo dalla Grafica del Parteolla nel 1995. Sono una decina di pagine bellissime, queste del presbitero anticipatore, in Sardegna, dell’opinione ecclesiale che riporta il celibato dei sacerdoti alla facoltatività, cioè alla libera scelta dell’interessato.

Nella ricostruzione delle vicende mai banali e invece sempre problematiche (e dialettiche con i superiori) da lui vissute a Cuglieri – dopo un apprendistato adolescenziale di sette anni al PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) –, don Fiori riserva una pagina e più anche alla sua personale sensibilità/convinzione circa la materia celibataria così come non aveva mancato – forse lui per molti, anche se certissimamente non per tutti – di esplicitarla con assoluta franchezza in quei mediani anni ’30 in cui frequentava il quadriennio teologico. Scrive, richiamando anche alcuni passaggi del suo notissimo Il celibato dei preti come libera scelta, Milano, Mursia, 1969:

«Quando si trattò di decidere se accedere non ricordo più se al suddiaconato o al diaconato… e dovevo fare la promessa e giuramento di restare celibe per tutta la vita, la cosa non mi andò giù tanto facilmente. Discussi per ore e per giorni con Padre Carta [Pietro, direttore spirituale]. La mia idea fissa era una sola… “Ecco, ragionavo con Padre Carta, se la Chiesa, per poter accedere al sacerdozio, mi dice che devo accettare liberamente il celibato perpetuo, in apparenza sembra che io scelga liberamente, ma nella realtà mi viene imposto… E questa lei, caro Padre Carta, la chiama libera scelta del celibato?”. E ancora argomentavo “se domani, per la salvezza della mia anima, non ce la facessi più a vivere la verginità fisica, ma volessi ugualmente fare il vero sacerdote di Cristo nel sacramento del matrimonio, perché la Chiesa dovrebbe vietarmi di esercitare il sacramento del sacerdozio? Ma allora non è vero che i sacramenti sono in pari misura stati di grazia, complementari e non in conflitto tra loro”.

«Padre Carta continuava a insistere sull’importanza della libera scelta del sacrificio della carne per servire tutti nello spirito, e io gli rispondevo che si può ugualmente servire Dio coi due sacramenti, e spesso meglio che con uno solo, il sacerdozio, scelto e vissuto non liberamente e non serenamente. La conclusione fu la seguente: “Se vuoi farti missionario appena esci di qui, devi accettare il celibato e poi vedrai che in Missione avrai da pensare a cose più importanti di una donna”. E mi convinse che per fare bene il missionario ad gentes era necessario essere libero da ogni impegno familiare e temporale, per vivere, come dice Gesù, “liberi come gli uccelli dell’aria”.

«Il pensiero di Padre Carta mi piacque, anche perché lo ammiravo per la dignitosa semplicità e umiltà con cui mi ascoltava. E così feci “il passo”: accettai il celibato e, dopo un anno, nonostante il voto contrario di Padre Bozzola, divenni sacerdote».

(Alle vicende di vita di don Fiori riserva un bel volume anche Red. M. Campi: Un prete sardo. Esperienze di vita (1932-1970), Milano, Jaca Book, 1972. Le… complicazioni cuglieritane zampillano più sobriamente qui, perché al centro di tutto è l’attività sociale di un presbitero che, proprio come scelta esistenziale, da subito e interamente si è dato, dalla sua ordinazione in quel di Bortigali, al servizio del proletariato operaio dell’Argentiera e dei poveri sociali di Sassari: operando da missionario, secondo l’antico sogno, ma in Sardegna).

Al Regionale nella sua imponenza fisica e nella sua struttura disciplinare e… ideologica rimandano alcune severe (e nitidissime) pagine anche di Quando un prete lascia, con la gente, come la gente pubblicato da Guido Floris nel 2006 per i tipi della AEDO Libri, Edizioni Frorias (l’etichetta di Franco Madau). L’autore – origini in Uras ma prima formazione nel Sulcis minerario, classe 1940, prima messa nel 1967 e parrocato a Villarios, rinuncia al ministero nel 1993, il mestiere di cooperatore agricolo portato avanti per lunghi anni – dà personalità propria e un’appartenenza a codici valoriali anche all’impianto materiale ed è questo il suo singolare ma brillante incipit a riflessioni che sono poi l’esito di rielaborazioni profonde e degne di socializzazione. Scrive Floris:

«Il Seminario era stato concepito e realizzato come un mondo a sé. Grande, solenne, distaccato dalle altre case. Tutto lì era immenso: scale, corridoi, camerate, studi. Se la geografia e il luogo fisico danno la dimensione all’uomo, il Seminario dava la sensazione di non essere in casa propria e imponeva gesti, modo di incedere, diversità dei rapporti. Le mura non parlavano, ma imponevano il silenzio e impedivano ogni disarmonia… I pilastri del Regolamento facevano perno su: Pietà… Silenzio… Spirito di sacrificio… Studio… Carità…».

Ricorda, don Floris, gli esercizi spirituali: «Quattro meditazioni giornaliere, silenzio assoluto in tutti i luoghi», ricorda l’impossibilità di «prendere cibo o bevande al di fuori dei pasti, cantare canzoni “secolari”, zufolare, fumare… curare il proprio corpo. La corrispondenza in partenza e in arrivo passava al vaglio del superiore», ricorda la «preventiva autorizzazione del professore» per l’accesso alla biblioteca o alla consultazione dei testi, ricorda il divieto – e siamo ormai negli anni del Concilio e del dopoConcilio – di introdurre libri e giornali e i limiti alla fruizione televisiva: «telegiornali, sport e rubriche religiose»; ricorda anche l’estrema declinazione della carità: «Chi notava qualche difetto o mancanza che poteva recare danno agli altri era obbligato a darne avviso al superiore. Il rapporto con gli studenti di classi diverse era tassativamente vietato».

Di più: «Ragazzi che stavano insieme, ma che non si conoscevano, non si parlavano. Semplicemente convivevamo. Una educazione individualistica che abituava a diffidare del compagno e a scambiare, spesso, la delazione con la “correzione fraterna”». Negato il “pisolino” post prandium, per evitare il «demonio meridiano» («quando il corpo è sazio, lo spirito è debole e viene assalito da tentazioni a sfondo sessuale», secondo la dottrina attribuita a qualche responsabile della disciplina): «Ci si riposava sul tavolino da studio con la testa appoggiata sulle braccia. La scomodità non dava adito a fantasticherie di sorta».

La prassi d’infermeria era nel dominio di fratel Volpe: «A lui ci si rivolgeva per iniezioni a base di vitamine o di calcio: gli ematomi erano una cosa normale». E per l’igiene personale un andare per calendario: «Anche la doccia aveva il suo spazio di sacrificio. Il seminario era dotato di venti docce con caldaia centralizzata che distribuiva l’acqua calda in modo non uniforme con la conseguenza che i più vicini a quella uscivano scorticati, quelli più lontani gelati. Si faceva una volta alla settimana, il giovedì, indipendentemente dalle necessità: chi giocava a calcio il venerdì doveva aspettare sei giorni o affrontare, di nascosto, una doccia fredda oppure rinunciare alla cena e infilarsi nel bagno dei superiori».

Piuttosto problematico anche il rimedio al dolore fisico: «Era come se il corpo fosse semplicemente contenitore dello spirito. Un corpo che andava mortificato, puntualmente tenuto a freno per allontanare ogni forma di compiacimento e tentazione…».

La riflessione generale e riassuntiva è negativa: «Se per personalità intendiamo l’insieme dei modi di essere, di fare, di conoscere che garantiscono stabilità, continuità, coerenza nelle relazioni tra l’individuo e il mondo, devo dire che l’educazione ricevuta è stata di segno opposto. L’educazione nel Seminario ha privilegiato una stabilità fittizia, costruita senza una riflessione personale capace di contribuire in modo attivo al nostro divenire selezionando gli ambienti e provando a trasformarli. Una stabilità tenuta in piedi da bilanciamenti fatti di paura e di regole che garantivano a priori la realizzazione del prete. Io ho accettato le regole del Seminario ma in modo critico. Non ero un ribelle ma ho avuto modo di misurare la coscienza del mio essere con l’ambiente esterno».

Un faro di luce veniva – ad alleggerire il pesante e a dare gusto alla fatica – dal professor Furreddu, speleologo, sismologo e meteorologo: con lui – confessa Floris – «godevo di una libertà di movimento che i miei compagni non avevano. Ho girato la Sardegna in tante spedizioni speleologiche. Avevo l’accesso alla radio, collocata nella stazione meteorologica, che mi faceva comunicare con l’esterno. Insomma avevo un contatto con il mondo fatto di persone, cose e luoghi che entravano a far parte della mia vita e con le quali mi misuravo. Esperienze che mi hanno arricchito… Altra cosa è stato rimanere se stessi, avere la medesima predisposizione ad agire in modo personale e autentico e non trovare spazi e opportunità. Per molti miei compagni il “dopo” è stato difficile e traumatico».

Anche Ex prete. Dirlo a mia figlia, firmato da Angelo Ledda ed uscito per i tipi della AEDO Libri, Edizioni Frorias un anno prima del testo di Floris, è un libro-testimonianza, e di testimonianza critica, da una terra di confine. Teuladino classe 1943, ordinato nel 1968 e fatto parroco di Tratalias nella diocesi di Iglesias, per tre lustri nella trincea della Chiesa popolare, un sacerdozio in progressivo sfarinamento (dal punto di vista puramente canonico e ministeriale) dal 1983 al 1990, formalmente cessato nel 1990, don Ledda – professore delle scuole superiori – ha offerto all’opinione non soltanto ecclesiale ma anche civile un’infinità di spunti meditativi davvero di qualità sulla formazione clericale come nel concreto viene, o è stata, strutturata dall’istituzione Chiesa, dalla sua gerarchia e dai suoi statuti. Il libro è bellissimo dalla prima all’ultima pagina, tanto concettuoso quanto chiaro nella esposizione, tanto sincero nel racconto autobiografico quanto largo nella rappresentazione, sempre onesta e serena, di uomini, luoghi e tempi che sono, o sono stati, premessa e insieme risultato di molta parte del nostro complessivo vissuto sociale, sardo e novecentesco.

Le pagine dedicate a Cuglieri – apparse, all’inizio, inquadrate soltanto nella “parte terza” – coprono indirettamente tutto il libro, perché centrale nelle argomentazioni dell’autore è il contestato imprinting formativo del prete, che evidentemente ha riflessi diretti e immediati e continui nella vita privata e intima di chi al sacerdozio cattolico si è indirizzato e riflessi mediati comunque fortissimi sulla comunità a lui affidata.

Soltanto per un richiamo… più interno, che mi parrebbe anche doveroso, a quest’opera, chiamala pure di letteratura memorialistica, della quale la Chiesa sarda è debitrice al talento elaborativo di Angelo Ledda – ma ci sarà qualcuno, qualche catechista o vescovo o religioso/religiosa o prete o quidam che si sarà fatto avanti e scappellato? –, mi permetto di rimbalzarne qualche riga, qualcuna descrittiva (gli anni 1960-1968 sono soprattutto quelli del Concilio e del postConcilio), qualche altra riflessiva:

«In quegli anni [il Regionale] ospitava oltre trecento giovani, divisi in otto camerate, una per ogni classe di studio: tre di liceo, una propedeutica agli studi teologici, quattro di teologia… Le aule scolastiche e quelle addette allo studio potevano accogliere anche sessanta persone ciascuna, e ogni classe-camerata occupava un settore che manteneva per l’intero anno scolastico. I dormitori erano distribuiti su due piani, suddivisi in sezioni riservate a ciascuna camerata. Il refettorio era enorme, così pure la cappella e l’aula magna… Il ritrovarsi a vivere tutta la giornata, fianco a fianco, con sardi che provenivano dal cagliaritano, dal nuorese, dall’Ogliastra, dalla provincia di Sassari col Logudoro e la Gallura, dal campidano di Oristano col Marghine e il Bosano, richiamava la realtà di una Sardegna sì diversificata, ma nello stesso rimarcava la sua unità etnica e culturale…

«Per spirito goliardico e orgoglio di appartenenza era sorta la consuetudine spontanea di dare un nome alla propria classe-camerata, fin dall’inizio del primo anno. Lo spunto poteva essere preso da una circostanza di attualità o da qualsiasi altra eventualità particolare e divertente. Una camerata, per esempio, si era battezzata “Pigiama” perché in quell’anno era stato reso obbligatorio l’uso di andare a dormire col pigiama. Altri nomi in quegli anni erano: Tabonga, Olimpica, Atomica…

«… lo sport, e l’esercizio fisico in generale, … accresce le capacità di resistenza alla fatica e alla sofferenza, fortifica l’indole e, nello sport di squadra, promuove la socializzazione e rivela anche molte tendenze caratteriali. Rappresenta soprattutto una valvola di sfogo all’esuberanza dell’età, facilitando il controllo di altre pulsioni istintive “peccaminose”. Nella promozione delle attività sportive in Seminario esisteva anche un obiettivo propedeutico. Il futuro sacerdote, a sua volta, in molti casi, sarebbe diventato un promotore e coordinatore di tali iniziative in parrocchia o in oratorio.

«Venivano organizzati tutti gli anni dei veri e propri campionati di calcio tra camerate… S’ingaggiavano in campo vere e proprie “battaglie” sportive, sostenute dal tifo dei compagni e seguite da scene di esultanza collettiva in caso di vittoria. Ovviamente si restava delusi e mortificati nel caso contrario, anche se quasi tutti, chi più chi meno, si rassegnavano presto considerando la relativa importanza della cosa….

«… le olimpiadi interne. Si svolgevano tutti gli anni, nella settimana di carnevale. Gli “atleti” partecipavano a nome della propria camerata. Ai primi tre classificati di ogni gara venivano assegnati dei punteggi. Si aggiudicava le olimpiadi la camerata col totale più alto… non era infrequente, per dare maggior importanza alla vicenda, che l’assegnazione del premio fosse affidata ad un Vescovo o a qualche personaggio politico nostro (democristiano) di rilievo…

«Importanza rilevante avevano la formazione musicale e il canto sacro… Nella cantoria della grande cappella c’era un buon organo a canne affidato al chierico che aveva ricevuto ufficialmente la mansione di organista. La responsabilità invece della schola cantorum ricadeva su un insegnante. In occasione delle feste e delle ricorrenze liturgiche più importanti, il coro del Seminario eseguiva il miglior repertorio della musica sacra, e disponeva anche di buone voci soliste… Alla formazione spirituale contribuiva anche la semplicità profonda e toccante del canto gregoriano, presente nella maggior parte delle funzioni liturgiche quotidiane e domenicali. Ogni domenica pomeriggio, un grandioso coro composto da centinaia di voci virili cantava i Vespri nella spaziosa cappella…

«Anche il chierico… coglieva tutte le occasioni favorevoli per fare dell’umorismo… Alcuni superiori costituivano un costante spunto d’imitazione divertente da parte di chi era più bravo a fare questo… Per noi liceali di quegli anni, un professore in particolare rappresentava l’oggetto divertente delle nostre chiacchierate… ma anche occasione di trattenute e soffocate risate nelle ore di lezione… Il primo giorno di lezione entrò in aula a testa bassa e con passo spedito, raggiunse la cattedra dove poggiò quattro o cinque libri. Sempre a testa bassa e in piedi intonò la preghiera d’inizio della lezione. Al termine sedette e, senza guardare in faccia nessuno e senza nessun preambolo, attaccò la spiegazione della lezione…

«C’era poi un altro professore, alto e massiccio, esuberante anche nella personalità, molto preparato nella sua disciplina, che era la letteratura italiana ed europea. Singolare era l’abitudine di recarsi tutti i giorni, immediatamente prima del pranzo, nella porcilaia situata nel parco attorno al Seminario, e scambiare “due chiacchiere” con i suini, come amava dire.

«Padre Angelo Perego era un docente di Teologia Dogmatica, brillante, gioviale e socievole. Da lui, per la prima volta, sentii un concetto teologico-morale che amava ripetere spesso… Affermava che l’inferno era un castigo terribile e che Dio condannava solo in seguito a scelte di vita gravemente peccaminose, non tanto per fatti occasionali dovuti a debolezza e fragilità umana temporanea. Tuttavia, in un’altra occasione assai importante, non si era dimostrato altrettanto di manica larga. Era redattore della Civiltà Cattolica… aveva pubblicato in questa una recensione fortemente negativa e dai toni polemici del libro di don Lorenzo Milani Esperienze pastorali. Qualche mese dopo il Sant’Uffizio ne ordinò il ritiro, dichiarando “inopportuno” il testo del priore di Barbiana.

«Tra i Padri c’era anche chi amava restare più a contatto con i chierici e sapeva inserirsi con naturalezza e semplicità. Padre Umberto Wernst aveva la struttura fisica e il cognome che rivelano le sue ascendenze anglosassoni. Si presentava nei tempi dedicati alla distrazione, al sollievo e nelle occasioni in cui nelle camerate si festeggiava, e magari spuntava qualche dolce sardo e una bottiglia di vernaccia e di malvasia. Parlava pochissimo e ascoltava tanto, con partecipazione… Alla sua presenza si poteva parlare pressoché di tutto, anche criticare e canzonare altri suoi colleghi…

«… nel 1961, proprio in un ambiente chiuso da una “cortina dogmatica”, partecipai alla prima e unica marcia di protesta della mia vita. Si svolse dopo il pasto serale delle otto e prima di recarci in cappella per la recita di Compieta. Lo slogan urlato attraverso gli ampi e austeri porticati interni era: “Pastasciutta!”. I visi dei componenti il corteo dei manifestanti in tonaca erano sorridenti ma decisi, anche se appariva evidente l’intento goliardico dell’iniziativa, partita dai piani alti dei “talebani”… Dall’inizio dell’anno, eravamo ormai a gennaio, a tavola non compariva la pastasciutta, sostituita da una minestra piuttosto liquida e dal sapore ineffabile. Qualcuno aveva espresso le doglianze per l’inconveniente dovuto, rivelò il superiore, ad un guasto della cucina. I tempi di ripristino si erano allungati eccessivamente ed ecco l’idea, venuta a pochi, ma condivisa e realizzata da un folto gruppo, della sfilata di protesta, rumorosa, anche se semiseria…

«Anche la qualità della cucina e il cibo potevano diventare spunto per ironiche battute di spirito. Le polpette da un professore, padre Nesle, erano state rinominate “misteri”, perché era impossibile stabilirne gli ingredienti utilizzati… Il roast-beef, spesso e volentieri, era asciutto e poco tenero, per cui il termine inglese fu sostituito col nostrano “tacchetto”, intendendo quel ritaglio di pelle che il calzolaio appone nel tacco della scarpa. In Seminario si rideva spesso e si cercavano le occasioni e i tempi propizi per farlo. Senza questa valvola di sfogo la vita di un giovane, in un contesto formativo così circoscritto e intenso, estremamente responsabilizzante e gravoso, sarebbe stata per molti assai più pesante e prossima al collasso dell’equilibrio nervoso». E così via, quadro dopo quadro, impressionismo vivido restituito a un realismo cinematografico. Ma poi, nella… ideologia? Ecco ancora qualche rapidissimo flash.

Il sacerdozio fra dottrina e ideologia

«Prima dell’inizio di ogni anno scolastico, che avveniva il primo ottobre, si svolgevano gli Esercizi Spirituali. Nel Seminario diocesano la loro durata era di tre giorni, nei Pontifici erano invece previsti almeno cinque, a Cuglieri si allungavano per sei giorni… erano sei giorni in cui “ripassavamo”, facendo anche gli opportuni approfondimenti e adattamenti all’età più sviluppata, quanto c’era stato insegnato fin dalla più tenera età.

«Il tutto iniziava all’imbrunire di una giornata autunnale, in cappella, con le meste e severe note gregoriane del “Veni Creator Spiritus”: si stava entrando in un tunnel buio e solitario dal quale si sarebbe usciti dopo circa una settimana di immersione in pensieri per lo più di rinuncia, di sacrificio, di responsabilità, di pene, di castighi, di pericoli mortali da evitare, di purificazione… Si partiva dai grandi temi biblici della creazione dell’universo e della terra, dove Dio colloca l’uomo. Avviene l’incidente del peccato di superbia e di ribellione. L’uomo viene punito e condannato al lavoro, alla sofferenza e alla morte. Ma Dio, alla pienezza dei tempi, manderà sulla terra il suo Figlio che, assumendo la natura umana e caricando su di Sé tutti i peccati, attraverso il sacrificio di Se stesso riconcilierà l’uomo con Dio e restituirà all’uomo la felicità perduta.

«Gesù fonda la Chiesa, della quale Egli è il Capo e lo Spirito Santo la guida. La affida agli apostoli e ai vescovi loro successori, guidati in terra dal Papa, successore di Pietro… I Vescovi governano e guidano direttamente la propria Diocesi e hanno anche il dovere di individuare altri uomini che Gesù Cristo sceglie affinché dedichino tutta la vita alla Chiesa e quindi diffondano la salvezza. Sono i semplici sacerdoti… Il Vescovo trasmette loro, tramite il Sacramento dell’Ordine, il “carattere sacerdotale” indelebile, perciò eterno.

«La dignità del sacerdote è la più alta che si possa immaginare per un uomo… La Madonna ha generato Cristo una sola volta, il sacerdote compie questa azione tutte le volte che celebra la Santa Messa… il sacerdote è “alter Christus”. Tutte le volte che celebra la Santa Messa rinnova il Sacrificio Sacerdotale di Cristo… Compie così il miracolo continuo di far scendere Dio in terra e distribuirlo alle anime assetate di Grazia. A lui Gesù affida le anime che sono quanto di più prezioso ha creato e che sono costate il suo sangue. Dio conosce in anticipo le anime che si salveranno tramite l’attività di quel determinato sacerdote, ma sa anche quante di esse andranno perdute a causa dei ministri indegni e infedeli. La missione sacerdotale innalza un ponte tra la terra e il Cielo…

«Il sacerdote, che ha risposto con gioia alla chiamata divina, dedicato tutta la sua vita e tutte le sue capacità alla salvezza delle anime, rinunciato ai piaceri materiali, abbracciato con gioia il celibato osservando la castità può presentarsi in qualsiasi momento all’appuntamento con la morte. A questa seguirà l’incontro con Gesù, “iustus iudex”, che gli proporrà: “entra nel gaudio del tuo Signore”. Non così accadrà al sacerdote tiepido, affezionato alle comodità e ai conforti della vita mondana e alle cose terrene… Potrebbe non sentirsi dire “vieni servo buono e fedele”, ma un più severo “rendi conto della tua amministrazione”. Per lui gli ultimi momenti della vita e l’approssimarsi della morte saranno momenti d’indescrivibile sofferenza e angoscia…

«Argomento fondamentale e quasi centrale nei lentissimi giorni degli Esercizi Spirituali era la castità e il celibato del chierico e del futuro sacerdote… Le virtù sono tante e tutte preziosissime davanti a Dio, eppure la castità, la purezza, da parte dei cultori dell’ascetica e dei santi, ha meritato l’appellativo di “bella virtù”. Il modello del sacerdote è Gesù Cristo, che è rimasto vergine e non si è sposato. Il celibato rende più somiglianti al modello e la verginità è uno stato superiore a quello matrimoniale… san Giovanni è il discepolo prediletto di Gesù perché non sposato e vergine. Il sacerdote deve rinunciare ad un amore terreno perché il suo cuore deve essere indiviso… La moglie e i figli inoltre porterebbero via molto del suo tempo che dovrà invece essere completamente dedicato alla salvezza delle anime. La famiglia del prete sarà la parrocchia.

«La lussuria è una delle armi più efficaci che il maligno usa per distruggere le vocazioni al sacerdozio… I santi dovettero affrontare battaglie terribili contro questo tipo di tentazioni…».

E ancora: «Il sacerdote, il giorno della sua ordinazione, fa anche un’altra importante promessa, quella dell’obbedienza al Vescovo ordinante, ai suoi successori e alla Chiesa Gerarchica. I desideri, e soprattutto gli ordini del superiore, sono espressione inequivocabile di quanto, di volta in volta, Dio ci chiede di fare. Si tratta di una fune verticale che scende dal Cielo e che giunge fino a terra azionata da chi ha un ruolo gerarchico. Il Papa interpreta il volere divino, a Lui devono subordinazione i vescovi, che ricevono l’obbedienza totale dai loro sacerdoti. Al sacerdote stanno sottomessi i fedeli nelle cose che riguardano Dio e la Chiesa.

«L’obbedienza è più meritoria di fronte a Dio se fatta senza incertezze e tergiversazioni… I peggiori eretici furono travolti dalla presunzione intellettuale e non vollero sottomettere il proprio pensiero alla guida illuminata dallo Spirito che assiste principalmente la Chiesa e il suo Capo… Se Lutero, umilmente, si fosse rimesso alla somma dottrina del Magistero, non sarebbe stato il primo responsabile di quella disastrosa separazione di molti cristiani dall’unica vera Chiesa di Dio…».

Qualche conclusione

Indubbiamente l’impegno corale della équipe docente e dei superiori fu quello di combinare, nella loro offerta d’esempio, la cappella alla cattedra, la spiritualità alla dottrina. Un capitolo apposito, breve e concentratissimo, da rilievo alle modalità seguite dai padri, degni eredi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, per affermare nella vita ordinaria del Regionale il binomio inscindibile «preghiera e studio», dando corso in vari momenti dell’anno alla pratica tutta ignaziana degli esercizi spirituali: così in apertura di anno scolastico, così in quaresima. Per non dire poi che ogni mese un ritiro era programmato con prediche di uno dei padri spirituali o di qualche ospite di speciale competenza. La disciplina spirituale dei chierici, pur essi destinati al mondo e non alla perpetua reclusione monastica, costituiva insieme un rinforzo del carattere ed un consolidamento della base vocazionale, per non dire che talvolta, e più di talvolta, essa rappresentava una vera e propria cartina di tornasole di una vocazione ballerina, illusoria e da ricondurre ad altro che al sacerdozio cattolico.

Osserva giustamente, Cabizzosu, che a Cuglieri anche la «fedeltà agli insegnamenti del papa acquistava… un sapore particolare: la gratitudine scaturiva dal fatto che l’istituto era stato costruito per volere di Pio XI il quale, attraverso la S. Congregazione dei Seminari, ne sosteneva ogni necessità». Andrebbe peraltro aggiunto che una tale allineamento, invero sentimentale prima ancora che dottrinale, costituì una divisa che conobbe qualche variazione nel corso del tempo, tanto più nella

e soprattutto dopo la stagione conciliare, per una crescente tendenza – segno di maturità dei tempi nuovi – a sottoporre a critica il rapporto carisma/istituzione o dì pure profezia/gerarchia.

Tutto ancora contenuto, va da sé, rispetto ai tempi che sarebbero venuti in quel di Cagliari – si pensi già soltanto al noto volantinaggio nelle chiese (1972) per chiedere alla Chiesa di sostenere la lotta per la casa dei ceti più umili del capoluogo –, tanto più quando l’agenda pubblica avrebbe posto ai vertici dell’attenzione la questione del divorzio e della maternità/paternità responsabili (e del diritto di famiglia complessivamente), insomma le questioni dei diritti civili accanto a quella dei diritti sociali: materia – quella dei diritti civili – sulla quale si sarebbe consumato un crescente gap fra gli uomini dell’establishment clericale, non ecclesiale, e l’opinione diffusa (sol che si ricordi quella autentica e imperdonabile bestemmia che è stato, nel silenzio generale, il rifiuto dei funerali religiosi a Welby da parte di un vescovo… di rango come il cardinale Ruini).

Meriteranno speciali attenzioni, da parte del lettore le pagine conclusive del libro nelle quali Cabizzosu trae il consuntivo cuglieritano, come dice lui stesso, «sotto diverse angolature: storica, sociologica, statistica, antropologica, spirituale, umanistica, filosofica e teologica». Opportunamente, e direi anche inevitabilmente, egli rielabora le complessità del Regionale da un osservatorio che è quello suo e nostro attuale, di noi ancora presenti e attivi nel secondo decennio del nuovo secolo e nuovo millennio, giusto novant’anni dopo che la progettualità cuglieritana prese forma divenendo esperienza. Tutte le categorie – cominciando da quella vocazionale, o da quella disciplinare – recano oggi altri contenuti, perché, per dirne una, è passato don Milani e tutti noi oggi sappiamo che l’obbedienza «non è più una virtù». Sappiamo, per dirla con Paolo VI, che il mondo ha bisogno più di esempi che di maestri, che cioè si è maestri nella vita più che nei pressi di una qualsiasi cattedra. Un tale inquadramento, sia chiaro, aggiunge e non toglie autorevolezza alla cattedra e ai maestri di scienza ma stabilisce, per ciascuno, le ragioni della sua autorevolezza.

Vede, Cabizzosu, tutti i meriti e insieme tutti i limiti dell’esperienza di Cuglieri, il suo potenziale e i suoi condizionamenti, in tempi di dittatura e di censura, che erano anche di autocensura, e anche in tempi democrazia postbellica, quando i guelfi si dettero l’obiettivo della conquista sovente smodata dalla cosa pubblica, laica per definizione. Vede l’intuizione brillante di una sede formativa unitaria per superare i subprovincialismi diocesani, in chiave di maturazione della riflessione comunitaria regionale – passaggio ineludibile verso la mondialità (e a rischio però anche, e quindi da vigilare, di una certa omologazione) – e in chiave di esempio per il superamento delle ristrettezze mentali presenti nella società cosiddetta civile, cioè nella popolazione, e fonti di rivalità od ostilità fra territorio e territorio, perfino fra paese e paese… Riflette anche, a tal riguardo, sul bisogno crescente di concertazione delle linee pastorali fra i diversi presuli della regione ecclesiastica sarda (come sarebbe stato un giorno, quello del Concilio Plenario Sardo dei vescovi Alberti e Tiddia, anche meglio definito con la unificazione crescente degli uffici di servizio fra le varie diocesi). Riconosce lo spessore culturale delle équipe docenti e in generale dell’offerta formativa, la tensione al miglioramento continuo del tenore degli studi, il necessario rigore selettivo dei candidati agli studi e poi anche agli ordini minori e maggiori, la magia spirituale che porterà ben 110 studenti cuglieritani a scegliere una vita religiosa e/o missionaria. Elenca anche quelli che ritiene i maggiori limiti del quarantennio, al di là del conformismo profascista e poi prodemocristiano di cui ho detto (ma che forse vedo io più dell’autore): fra essi certamente è l’isolamento geografico, invero paradossale nel momento che si era faticato tanto a individuare un punto baricentrico al quale far confluire gli studenti dalle undici diocesi ed ospitare annualmente, tutti quanti insieme e per lavorare insieme, i vescovi. Rileva, Cabizzosu, una certa ambivalenza nei regolamenti, nelle sfere di competenza e nella interlocuzione dei soggetti istituzionali coinvolti, dalla Congregazione curiale – autentico dominus della partita – all’episcopato – di fatto gregario dei voleri romani –, alla Compagnia (responsabile diretta oltreché del seminario anche della facoltà di teologia e, fino al 1934, anche di quella di filosofia). Il modello unico di sacerdote prefigurato fin dall’inizio, «fedele al pontefice e al proprio vescovo» trovò alimento in una «metodologia improntata sullo stile gesuitico della disciplina», dunque con una «visione della vita come ascesi, come lotta in cui non bisogna perdere alcuna battaglia»; esso si calò quasi come uno stampo tanto sui liceisti quanto sui teologi, il che significò livellare, nella pressione e nella risposta (o nell’attesa di risposta) studenti di ben diverso gradino anagrafico. Per non dire poi della logica strettamente collegiale che improntò il seminario, secondo una cultura o una sensibilità oggi superata (la stessa che andava, sul modello militare delle caserme, fra… reggimento e battaglione, compagnia, pattuglia e squadra), badando essa ad una formazione interiore – sono parole dell’autore – «più monastica e “regolare” che diocesana».

Piuttosto marginale, rileva ancora l’autore, la sensibilità alla identità sarda, alla lingua neoromanza dei sardi, alla storia ed alle tradizioni dell’Isola. Ricorda, con malcelato (e assolutamente condiviso) disappunto, come l’articolo 139 del regolamento del 1940 proibisse agli studenti di parlare tra loro in sardo. Nella produzione dell’autore sono diversi gli scritti che fanno riferimento alla lingua sarda come strumento di evangelizzazione, tanto più nel tempo che fu. La questione, riproposta negli ultimi decenni, dopo la lunga notte delle avversioni (anche e soprattutto di matrice fascista), appare assai complessa, mischiando nella contesa delle varie opinioni, livelli diversi, quelli del canto sacro, quelli dell’oratoria e quelli della liturgia (fino alla formula della consacrazione), essa stessa graduabile nel giudizio delle compatibilità. Purtroppo la sacrosanta battaglia per la lingua sarda è stata depotenziata nel corso del tempo, perché imprigionata – questa è la mia personale opinione – dai suoi stessi banditori, o da alcuni settori di promozione, entro antistoriche pregiudiziali nazionalitarie e indipendentiste, senza storia e senza avvenire; sicché il contenuto della campagna da positivo si è fatto negativo in quanto rimodellato artificiosamente come strumento di smontaggio della repubblica democratica (e delle autonomie, spesso mal governate), repubblica troppo faticosamente costruita per essere smantellata, senza poi che i nuovi muratori abbiano l’autorevolezza etico-civile e politica dei vecchi, fra cui non mancarono i sardi.

Chiudo io proponendo o riproponendo, con tutta sobrietà, una questione tante volte affacciata negli scambi amicali con il professor Cabizzosu, titolare di Storia della Chiesa nella facoltà del Sacro Cuore: pare (gravemente) sottovalutata dai vescovi oggi (e anche dieci e vent’anni fa) la presenza fra gli ordinandi di giovani chierici affascinati dalle “anticaglie”, come le chiama il professor Melloni, del lefebvrismo. E sono forse ottanta, forse cento, in tutta l’Isola – tanto più nelle archidiocesi di Sassari e di Cagliari – i preti che mostrano estraneità alle luci giovannee e paoline del Concilio Vaticano II, che vanno per la deposta liturgia celebrata e non concelebrata, spalle all’assemblea (scaduta al rango di pubblico, o di gregge passivo), nella lingua che fu universale ma oggi non più. Propensi più allo spettacolo, alla rappresentazione che alla sostanza vitale della compartecipazione, presidente e assemblea, al sacrificio e al convito insieme.

Che fanno i superiori del Regionale e, con loro, i docenti della facoltà Teologica? Dovranno pur farsi sentire, con tutta l’autorevolezza del loro ufficio, con i vescovi, i quali non sono i padroni della Chiesa, ma che tanto e tanto spesso, per quieto vivere e per segnare numeri crescenti nella tabella delle statistiche, non guardano alla capacità di discernimento storico o di polarizzazione sui “segni del tempo” di molti giovani candidati al sacerdozio cattolico. Con la conseguenza dello sbando delle comunità e, dramma nel dramma, dell’accelerazione dello scisma silenzioso, dell’abbandono cioè d’ogni pratica e frequenza.

Il Regionale ha vissuto, in epoca relativamente recente, i rischi di smantellamento, o di riduzione a compagine di serie B per volontà dello stesso presidente della CES, nel silenzio assordante dei confratelli vescovi (o, se questi hanno parlato, al “popolo di Dio” non hanno riferito nulla). Dovrebbero ricordarsi le lettere accorate, e tanto accorate quanto documentate, inoltrate sia alla Curia romana sia e soprattutto all’episcopato sardo, nel 2005 e nel 2010, da una personalità d’eccellenza sotto tutti i profili – tutti i profili – come don Efisio Spettu. Lettere che restano nella storia, come nella storia rimane l’ignavia dei riceventi. Non è mai saggio ignorare le questioni che pur danno disagio, perché dividono. Ma non si vive di unità di facciata, si vive di diversità comunionale: quella che ha scoperto o riscoperto il Concilio Vaticano II financo applicandola al campo largo dell’ecumenismo.

***

Ecco, qui di seguito, le due testimonianze che raccolsi a suo tempo da don Ottavio Cauli e don Pier Giuliano Tiddia.

Don Ottavio Cauli: «La patristica, il gregoriano e la pallavolo»

«Gli esami, a fine anno scolastico, li facevamo ovviamente in seminario. A Cuglieri si andava, a giugno, per l’esame di ammissione dalla quinta ginnasio al primo anno di liceo. Si era ammessi al liceo o non si era ammessi. Noi di Cagliari eravamo in diciannove, quando siamo andati al regionale di Cuglieri. Siamo stati tutti promossi, però al sacerdozio siamo arrivati in quattro: io, monsignor Casu, monsignor Valenti e don Abis. Quando siamo stati ordinati, però, c’era con noi anche un salesiano che era laureato in ingegneria, Giuseppe Cadoni di Villacidro. Poi c’erano due francescani, dei quali ne sopravvive uno, padre Gerolamo Pinna, che mi ha fatto gli auguri ‘il giorno dell’Assunta, perché anche lui era stato ordinato il giorno dell’Assunta, e si trova ora al convento di Ittiri.

«A Cuglieri c’è stato l’impatto con le altre diocesi, perché non ci conoscevamo. Io dico questo: se il seminario regionale ha un merito indiscutibile, è quello di aver unito il nord e il sud della Sardegna, perché prima l’isola era divisa in un capo di sopra e in un capo di sotto, con scontri storici… Si ricorda la famosa querelle per il primato, nel ’600, fra Cagliari e Sassari, ma era tutta roba di vescovi spagnoli, affetti dal loro spagnolismo… Di primati ora il codice canonico non ne parla neppure, soltanto del papa si dice che è primate d’Italia, ma lui è primate di tutto il mondo…

«Conoscendoci, fra noi tutti, ragazzoni oltre i 18 anni, si sono fatte tante amicizie, sono caduti tanti pregiudizi, ci siamo conosciuti a vicenda e quindi questo è stato un grande bene per la Chiesa sarda. Anche perché, poi, tutti gli anni si riunivano a Cuglieri i vescovi dell’isola: c’era già il germe di quella che si chiama Conferenza Episcopale Sarda. Tutti gli anni venivano per una settimana a Cuglieri: c’era il giorno del ritiro, poi discutevano dei problemi pastorali comuni a tutte le diocesi, ciascuno riceveva i suoi chierici, anche per conoscerli un po’ meglio. La Santa Sede, quando ha costituito questi seminari regionali, ha estromesso i vescovi dalla loro gestione. I gesuiti dovevano rendere conto solo alla Congregazione dei seminari e delle università, non ai vescovi. Se un vescovo veniva a Cuglieri, per poter parlare con i suoi chierici doveva chiedere il permesso al padre rettore.

«L’idea stessa del seminario maggiore regionale è stata un bene. Perché sono scomparse le due antiche facoltà di teologia di Cagliari e di Sassari, che a livello catechistico potevano reggere, non a livello scientifico però. Basta dire questo: il Migne, la patrologia greca, è un’opera immensa, perché sono più di trecento volumi in folio, in cui sono contenuti tutti gli scritti della patristica greca e della patristica latina, fino al 1400 circa. Nella facoltà teologica di Cagliari, non c’era il Migne. A Sassari, pure sede di facoltà teologica, c’era il Migne. La biblioteca del seminario regionale la si è fatta tutta con gli apporti diocesani. Il Migne che c’era, e che c’è tuttora, fu regalato dalla diocesi di Alghero, che ne aveva due copie.

«La biblioteca di Cuglieri, dicevo, è nata dai contributi di tutti i seminari diocesani della Sardegna, ma Cagliari, la diocesi più grande dell’isola, non aveva dato nulla della sua biblioteca… Cosa che pochi sanno, Cagliari aveva il fondo bibliotecario di Giovanni Maria Dettori, che era stato professore di teologia all’università di Torino. Siccome era di tendenze giansenistiche o rigoristiche, i gesuiti fecero di tutto per cacciarlo via, senza riuscirci. E lui, al momento della morte, lasciò la sua biblioteca al seminario di Cagliari. Vorrei sapere quanti alunni del liceo Dettori sanno che Dettori era un prete, professore di teologia all’università di Superga…

«Io a qualche ragazzo ho detto: “Quando fai la tesina, falla sulla biblioteca della facoltà teologica”, per vedere da dove provengono i libri che spesso sono libri di grande valore anche dal punto di vista scientifico, per esempio, per i Concilii. C’è l’opera classica, il Mansi, che era l’arcivescovo di Lucca del XVIII secolo: aveva raccolto in 24 volumi in folio i testi di tutti i Concilii ecumenici, di tutti i Concilii particolari, dei Sinodi diocesani, ecc. In Sardegna mi risulta ce ne sia una copia soltanto a Castelsardo, nella biblioteca del Capitolo di Ampurias. I canonici quello non l’hanno dato a Cuglieri…

«Molte biblioteche pubbliche o ecclesiastiche venivano dai conventi incamerati dal demanio, dai comuni, il secolo scorso. A Cuglieri, per esempio, c’era il convento dei serviti, il convento dei cappuccini. La loro biblioteca, che era passata al comune, il comune l’ha poi regalata al seminario.

«Da parte dei gesuiti c’era una certa supponenza nei riguardi del clero anziano, perché lo vedevano ignorante. Io, per l’esperienza che ho avuto di sacerdoti, – sia diocesani che religiosi, cioè di frati – non condivido quel loro giudizio. Per esempio, dottor Paderi – il mio parroco di Orroli – era un uomo di Chiesa di grande cultura per suoi tempi, laureato in teologia, anche se era una teologetta… L’ultimo laureato di Cagliari fu monsignor Dino Locci, perché nel ’34 uscì la Deus Scientiarum Dominus di Pio XI, che aboliva tutte queste facoltà ed aveva allora eretto, nell’Italia meridionale specialmente, questi grandi seminari regionali, che ebbero il merito di riunire anche culturalmente il clero che andava formandosi. Erano una quindicina questi seminari regionali. Solo a Cuglieri eravamo circa trecento giovanotti. C’era un cospicuo corpo insegnante, c’era il personale di servizio, i,camerieri, ecc. Che andavano pagati, e la Santa Sede come ha potuto se n’è scaricata… Se non ricordo male le famiglie dovevano contribuire con 1.500 lire all’anno, in quel tempo…

«A Cuglieri, a differenza che a Cagliari, cioè à differenza del nostro Tridentino, eravamo molto segregati. Infatti uno dei motivi per cui il cardinal Baggio, al tempo in cui era nostro arcivescovo, d’intesa con la Santa Sede, ha trasferito la sede da Cuglieri a Cagliari, è stato proprio questo. Ce lo ha raccontato lui stesso: “In questo paese sperduto non c’è una sede universitaria, dunque che si porti a Cagliari o si porti a Sassari è secondario, l’importante è che il seminario non resti così separato e lontano”.

«Purtroppo a Cagliari non c’era nessuna struttura adatta ad accogliere un seminario regionale. La Santa Sede lo aveva chiesto a monsignor Botto, il quale aveva risposto: “Se del seminario regionale date la direzione al clero diocesano, si può trovare un posto, altrimenti non c’è”. Non è che avesse molto torto, perché i gesuiti hanno grandi meriti per gli aspetti educativi, questo è indubitabile, però un prete diocesano, conoscendo la materia che ha in mano e coloro a cui essa è destinata, dà una diversa formazione. Oggi infatti.il seminario regionale è affidato al clero diocesano: il rettore maggiore è Spettu, gli assistenti che seguono i ragazzi sono pure del clero diocesano, tutti molto preparati.

Professori di liceo

«Il liceo l’ho fatto senza sforzo, arrivavo a Natale e avevo già tradotto tutti i testi di greco e dilatino, poi vivevo di rendita… Il primo anno avevo tradotto dal greco le Trachinie di Sofocle ed il Prometeo di Eschilo. Eschilo è molto duro, molto difficile. Uno di quei professorini spagnoli ci aveva chiesto una volta: “Di greco che cosa traducete? “. Io gli avevo risposto: “Il Prometeo incatenato”. Ed ecco che lui si mette a declamare ritmicamente un coro dell’Eschilo: “Oh sole, oh sole ti invoco…”. Si chiamava padre Francesco D’Assisi Solà. L’altro invece, quello che ho avuto come professore di psicologia ed etica, poi professore di fisica, era padre Levin, che successivamente è uscito dalla Compagnia. Parlava l’italiano meglio di noi.

«Tenendo presente quello che dicevo prima, lo spirito di emulazione tra le varie diocesi ci ha aiutato molto, perché tutti desideravamo tenere alta la bandiera. C’era, fra noi, un forte spirito di corpo, senza fanatismi però. C’era si sentiva: tu sei di Sassari, io sono di Cagliari. Mi ricordo che avevo detto a papà: “Questi caposopresi ci dicono maurreddus, ma si può sapere perché?”. Lui mi aveva risposto che maurreddu in sardo si riferisce alla zona che storicamente era la più esposta ai maurreddi, cioè ai saraceni,… “oppuru giaurm”. Si parla della Cabilia, dell’Algeria, no? La Cabilia identifica i paesi dell’interno, il villico, o “giaurru”. Ho scoperto che questa è una parola o araba, o turca, certo usata dai turchi, “giaurru” vuoi dire miscredente. Ci ridevamo su queste cose qui, anche perché eravamo ragazzi ormai già grandi.

«All’inizio facevamo delle partite di calcio animatissime, poi avevano abolito il calcio. Perché? Perché giocavamo con la veste talare, e c’erano ragazzi però che usavano i calzoni corti, quindi si scoprivano le gambe, e i gesuiti insistevano molto su questo fatto delle amicizie particolari. Così, però, si otteneva forse proprio l’effetto contrario, anche perché l’adolescenza, più che la gioventù, è la vita affettiva che scoppia, no? Quindi, se non si sta attenti si possono dirigere gli affetti in posizione sbagliata. Era esagerata questa insistenza sullo stare in guardia dalle amicizie particolari…, finiva che uno, innocente, si chiedeva che cosa fossero queste amicizie particolari… Comunque non mi risulta si siano, mai verificati episodi deprecabili.

«Finita l’era del calcio, si è diviso il campo centrale dove giocavamo e si sono ottenuti due campi di pallavolo. E siccome io ero alto, uno dei più alti, ho fatto la mia figura. Ciascuno giocava con la propria classe, per esempio la prima liceo sfidava la seconda.

«A Cuglieri c’erano tre camerate di liceo e quattro di teologia. Ogni camerata comprendeva fra i 30 e 35 alunni. Mentre la prima liceo era abbastanza numerosa – forse erano anche 35 o 37 ragazzi -, la seconda e la terza erano più snelle. Ogni tanto succedeva che qualcuno andasse via.

«In liceo io avevo come professore di italiano padre Egidio Boschi. In prima e seconda avevo avuto, però, il padre Girolamo Sessarego, genovese, preparatissimo. Ho fatto tutta la Divina Commedia: il primo anno l’Inferno, il secondo il Purgatorio… Bisognava sentire i commenti di quest’uomo. Io fino a qualche anno fa ricordavo canti interi dell’Inferno, perché mi piaceva molto, oltretutto perché l’avevamo in casa, proprio la prima edizione, dell’Ottocento, con le illustrazioni di Gustavo Doré. Purtroppo quando siamo venuti a Cagliari, abbiamo perso tutto, un nipote di mia sorella, alla quale papà aveva lasciato la casa, ci ha fuliau tottu, ha bruciato tutto, perché cose vecchie, cose che non servivano… Era una rarità, mi pare che le hanno ristampate in questi anni scorsi, in copia anastatica.

«Poi, il terzo anno, ebbi padre Boschi, con il quale avevo fatto il Paradiso. Dilatino, avevo lo stesso padre Sessarego, il primo e il secondo anno. Nel terzo anno, invece, padre Greppi, che era fatto per tutto fuorché… per l’insegnamento. Mi ricordo che avevamo una bella antologia latina, nella quale erano riportati alcuni epigrammi di Marziale, un distico: chi era console quando è stato fatto questo vino della campagna? Risposta: “Nullus erat”, io avevo risposto che non c’era console perché ancora non esistevano i consoli, lui diceva di no, non poteva essere vacante perché l’elezione del console era finita un anno prima e quindi entrava in carica dopo un anno. Come predicatore, organizzatore degli uomini era invece impareggiabile. Proveniva dal Piemonte, era della provincia torinese.

«Di greco avevamo quello che era professore di Sacra Scrittura ai corsi teologici, cioè monsignor Francesco Sole, che aveva la licenza in Sacra Scrittura, non la laurea ma la licenza che era equiparata alla laurea, che maneggiava il greco. Era quello che sceglieva Il Prometeo incatenato e le Trachinie… Il terzo anno di liceo abbiamo poi tradotto opere di San Giovanni Crisostomo, che era un grande scrittore, anche di greco, era il greco classico. C’era quel libro con le lettere alla diaconessa Olimpia, che ricordo con piacere, perché q*uel santo vescovo scriveva dall’esilio a questa diaconessa, a questa signora, diciamo, con le espressioni più tenere, più affettuose, un po’ come San Francesco di Sales con Santa Francesca Chantal.

«Di scienze, il primo anno avevo avuto padre Lanz, che è stato un sant’uomo, ma in quanto a preparazione o pratica non ne aveva proprio. ed in seguito – in seconda e in terza – questo padre Francesco D’Assisi Solà, di Barcellona, e padre Levin. Scienze era una materia globale, c’era – dentro matematica, algebra, trigonometria, logaritmi, botanica, zoologia, fisica con tutte le sue parti…

«Per quanto riguarda la musica, io sono stato fortunatissimo perché ho imparato il gregoriano. Tutti i giorni, dal lunedì al sabato, veniva un chierico già esperto col quale imparavamo i canti, tutti in gregoriano puro, della domenica seguente. La domenica e nelle grandi feste c’era la messa polifonica. Questo professore di musica aveva messo su una schola cantorum molto attiva, molto vivace, con messe di grande peso, la messa solenne di Beethoven, di Palestrina…

«Al ginnasio si faceva canto, perché ci insegnavano canto pratico, ecco, ma non teoria. A Cuglieri si studiava anche la teoria, si studiavano le note gregoriane, ecc., ed alla fine del quarto anno di teologia si faceva un esame specifico sul canto gregoriano, anche se non rientrava nelle materie curricolari. Dicevano: “Mi legga questo”, oppure: “Mi canti questo”… Io ho svolto il corso magistrale, ho il diploma, e mi avevano fatto cantare, all’esame di musica, proprio l’introito della Pentecoste: “Spiritus Domini replevit orbem terrarum, alleluia…”. Ho due cassette dei benedettini di Silos, in Spagna, ci sono tutti questi pezzi più conosciuti di canto gregoriano.

«Certo è che se uno era stonato bisognava che s’intonasse. Sì, uno poteva essere stonato, pazienza, era un problema ma la Chiesa latina non ne ha mai fatto una grave questione… Invece nelle Chiese orientali il prete deve avere una bella presenza e una bella voce. Bisogna vederli nella liturgia russa, tutti bei giovani, quelli che fanno il servizio al patriarca… Erano come gli ussari dello zar. Giovani con le barbe bionde, le treccioline in testa, con belle voci. Una volta ho assistito, proprio a Mosca, il giorno dell’Assunzione, a un pontificale solenne del Patriarca Pimen, quello che c’era prima dell’attuale Alessio. Ho assistito a tutto il pontificale. Nelle chiese orientali non ci sono né sedie né banchi, tutti stanno in piedi, perché Cristo è risorto in piedi, quello è il significato.

«Ero andato con una signora di Sassari, che però da tanti anni risiede a Milano, la signora Manno, e con due ingegneri ebrei, sono voluti venire anche loro alla messa. Dovevamo lasciare Mosca al mattino, la domenica del 15 agosto, e invece all’ultimo momento, quando avevamo già tutti i bagagli pronti, ci hanno detto del rinvio della partenza alla sera. Allora il solito problema: cosa facciamo? Io ho detto che me ne sarei andato alla cattedrale patriarcale ad assistere alla messa. I due ingegneri e la signora erano voluti venire con me, così abbiamo raggiunto tutti quanti la cattedrale patriarcale. Il patriarca è l’autorità più alta di tutta la Russia, a differenza del metropolita che ha la sua diocesi… A Mosca hanno ricostruito la cattedrale del Salvatore, vicino al Cremlino. Due anni per ricostruirla, Eltsin ne ha fatto un regalo al patriarca. Stalin l’aveva fatta abbattere perché dai campanili si vedeva l’interno del Cremlino, non lo tollerava, l’ha fatta abbattere e ci ha fatto una piscina…

«Dopo il pontificale, quando siamo usciti, i due ebrei mi hanno detto: “Don Ottavio, se non si offende dobbiamo dirle una cosa: ieri sera al Bolscioi abbiamo assistito a un balletto profano, oggi in questa chiesa abbiamo assistito a un balletto sacro”. Dal punto di vista artistico l’esempio era proprio calzante, perché è stato tutto proprio così esatto, la musica, la liturgia che è molto bella. Loro non usano strumenti, però hai l’impressione che la schola, che non si vede, faccia le funzioni dell’organo. Hai sentito qualche volta su basciu, questo coro di Bitti, o quelli di Orgosolo? C’è un basso continuo che si dovrebbe fare all’organo, in tempi in cui l’organo non esisteva si usava questo.

«Quand’ero in quarta elementare, la maestra, che mi voleva molto bene dato che conosceva anche papà, la mamma ecc. – perché allora le insegnanti in paese vivevano, e non scappavano come fanno oggi – mi regalò un bell’atlante che era appartenuto a suo fratello che era capitano di marina, un atlante in tedesco, mi appassionavano tutte queste carte del mondo, e mi è venuto il gusto di viaggiare, oppure di comprendere certi termini… Oggi se qualche ragazzo sente alla televisione che l’epicentro del terremoto, o del maremoto, è stato vicino alle isole Azzorre… “Me lo sai dire cosa è l’epicentro?”. Dal greco io ho capito cosa significava; la pressione, …, iperbolico… Questa maestra mi aveva poi regalato anche un portfolio, cioè un volume con fotografie di città di tutto il mondo, e poiché avevo il desiderio di andare a vedere questi posti, io ringrazio Dio perché mi ha dato il modo di… onorare l’atlante».

Don Pier Giuliano Tiddia: «Allora, adolescente, al liceo di Cuglieri»

«L’esame di licenza ginnasiale a Santulussurgiu, dove i salesiani avevano un collegio ed avevano trasferito il ginnasio in alcuni locali vicini presi in affitto, che poi avrebbero lasciato negli anni ’80, non fu particolarmente esigente, data anche la situazione generale di emergenza. Le interrogazioni riguardarono tutte le materie; non c’era scritto, l’esame fu solamente orale, secondo le regole stabilite dal ministero…

«C’erano stati diversi sacerdoti che mi avevano detto «tu sei fatto per il sacerdozio», vedevano la mia frequenza regolare, quotidiana, in chiesa, il servizio all’altare… Ma la decisone ultima, che fu anche un momento di commozione interiore, la presi all’indomani dell’esame di Santulussurgiu. Mi parve di sentire una voce interiore più forte e più chiara. Ne parlai subito a casa. Andare in seminario? Accettarono tutti volentieri, e così nei mesi da maggio a settembre – e parlo del settembre dell’armistizio, e quindi della fine della guerra in Sardegna – mi disposi a quella svolta totale nella mia vita.

«Fui in contatto costante con il mio parroco monsignor Tronci, che a sua volta interessò il seminario diocesano, allora diretto da monsignor Giuseppe Orrù. Furono avviate tutte le pratiche perché fossi presentato al seminario di Cuglieri. Preciso che il seminario arcivescovile di Cagliari, quello di via Università, era chiuso in conseguenza dei danni di guerra che lo resero inagibile per due o tre anni. Ma anche il seminario di Cuglieri, dove ero destinato per frequentare il triennio di liceo, soffriva dell’emergenza dei tempi, non tanto per esser stato danneggiato, quanto per essere a corto di approvvigionamenti. Infatti l’anno scolastico iniziò a novembre inoltrato, mentre di norma si partiva ai primi di ottobre.

«La vestizione, che era il primo atto di questo nuovo corso della mia vita, la feci nel mio paese, a Sarroch: misi la sottana nera, e così mi inoltrai per Cuglieri. Fu un viaggio avventuroso. Il punto di incontro fra tutti i seminaristi che venivano dalle varie parti della Sardegna era stato fissato ad Oristano, e là arrivavano tutti o con il treno o con mezzi propri. Io ci arrivai con il treno, partendo da Cagliari, accompagnato da mia madre. Andai subito a salutare l’arcivescovo, che era monsignor Giuseppe Cogoni – di origini cagliaritane, di Pirri precisamente –, che conosceva la mia famiglia. E quindi partii a bordo di un camion militare fino a Cuglieri…

«Era una bella esperienza che iniziava fra le difficoltà. Avevo 14 anni e qualche mese soltanto, ero attento a quello che avevo attorno. I militari ci misero a disposizione una serie di camion, quelli coperti con la tenda. Percorremmo diversi chilometri di strada sterrata. Durante il viaggio facemmo conoscenza e amicizia fra noi ragazzi. Dal Cagliaritano partimmo quell’anno in tredici, includendo nel numero anche coloro che poi non diventarono sacerdoti. Quelli che arrivarono fino in fondo, di quel gruppo, sono Lauro Pinna, purtroppo deceduto prematuramente, Ivan Marras di Muravera, scomparso nel 2001, Dante Usai di Orroli, Antonio Porcu di Quartucciu, Lauro Nurra di Cagliari e Gino Porrazzo – deceduto nel 1956 – il quale, già docente statale, era venuto a Cuglieri per frequentare l’ultimo anno. Ma naturalmente mi rimane un caro ricordo anche degli altri, come Efisio Piredda di Pula, Franco Cocco di Samatzai, Raffaele Bodano di Quartu…

«Lasciavamo la nostra casa per un ambiente sì accogliente, ma a cui ci si doveva abituare. Il pasto, rispetto a quello di casa, certamente era scadente. D’altra parte noi eravamo ben 250 studenti, e se aggiungiamo tutto il personale e i superiori, toccavamo quasi le 300 persone, e dar da mangiare tutti i giorni, e tre volte al giorno, a trecento persone nel 1943 non era davvero facile!

«Il rettore era padre Carlo Bozzola, il suo vice era padre Silvio Taras. In prima liceo – la classe era di ben 60 alunni – e negli anni successivi ebbi come professore di lettere italiane padre Egidio Boschi, di latino e greco padre Luigi Gallicet, di storia padre Camillo De Grandi, di filosofia padre Josto Sanna – uno dei pochissimi docenti sardi –, di matematica e scienze padre Federico Scheffter, che a noi che temevamo istintivamente la matematica ispirava i versi «Federico, egli è un uomo come noi…». Della direzione spirituale era incaricato padre Nicola Della Casa.

«Come risulta chiaro ed ho accennato, la presenza continentale nel corpo docente era soverchiante. Così sarebbe stato anche nelle classi di teologia. Il corso scolastico era infatti costituito dal triennio di filosofia – in sostanza le classi liceali – e dal quadriennio di teologia che si concludeva di norma con la licenza. Con un ulteriore anno di studi si poteva conseguire anche la laurea in teologia.

«Avevo compiuto da qualche mese i 14 anni, me ne sarei andato via a 21. Sono anni cruciali nella vita di qualsiasi persona, quelli, estremamente formativi. L’esperienza comunitaria aiuta nella vita adulta, di responsabilità. Aggiungo che la maggior parte dei miei compagni aveva fatto già vita di seminario, provenendo veramente pressoché tutti dal seminario minore della propria diocesi. Essi più di me erano abituati alle dinamiche comunitarie, alla disciplina. Ma anch’io mi calai abbastanza naturalmente e senza grandi sforzi in questa situazione.

«Dati i tempi, una esperienza difficile che abbiamo fatto tutti subito è stata quella della scarsità del cibo. Non è una cosa da poco per gli adolescenti, questa… C’erano stati dei rifornimenti da parte della Santa Sede prima della chiusura delle frontiere, subito dopo l’armistizio; e i rifornimenti della Santa Sede erano quasi soltanto sacchi di riso, per cui tutto l’anno siamo andati avanti col riso: riso che era portato nel fondo dei piatti a pranzo e a cena, e poi era a volontà liquido, in minestra che non era certo brodo di carne… A colazione ci davano una mezza pagnotta, un’altra mezza a pranzo ed un’altra mezza ancora a cena, e poi basta.

«In queste difficoltà un aiuto ci veniva dalle famiglie che ogni tanto arrivavano a Cuglieri con qualche fornitura. Ma un aiuto più frequente ci veniva dato, fortunatamente, dai compagni nuoresi, i quali erano riforniti più facilmente da casa loro: i genitori e i fratelli prendevano un cavallo, caricavano su le bisacce, e ci portavano quel tipo di pane che si conserva a lungo.

«C’era la dispensa, che era un’aula per classe, dove ciascuno metteva in una valigia, di quelle valigie non certo di lusso di quel tempo, le riserve costituite appunto da questo pane che si poteva conservare, da formaggio e cose simili. Ricordo anche che una volta da casa mia portarono delle gallette militari perché da noi a Cagliari era sconosciuto quel pane di lunga conservazione, il pane secco…

«Prima che sul profitto l’austerità si riflesse proprio sullo stato fisico, pur senza drammatizzare. La fame così incombente e continua incise sul nostro organismo come mancanza di grassi. La conseguenza immediata erano i geloni, le dita spaccate… A Cuglieri poi, non avevamo il riscaldamento, non c’era proprio nessun riscaldamento, e l’inverno l’abbiamo patito. Così abbiamo tirato il primo anno. Questa era la prima impressione, la fame… Ma il resto era tutto positivo: la novità della scuola che ci impegnava, il collegamento di amicizia fra di noi ragazzi che si mostrava soprattutto nello sport.

«A pallavolo, prendendo spunto dalla storia chiamavamo la nostra squadra Burschenscaft… Burschenscaft era una corporazione studentesca tedesca fondata dopo il congresso di Vienna del 1815, che aveva finalità goliardiche e politiche. Facevamo veri e propri campionati. Giocavamo il giovedì, che era giorno di vacanza. Quel giorno si faceva solo un’ora di scuola. C’era questo campionato di pallavolo che ci coinvolgeva pressoché tutti, dai quattordici a venti e più anni quali erano le età delle varie classi, fra liceo e teologia. C’era anche la possibilità del tennis, riservata però a coloro che erano riusciti a recuperare la racchetta, ed erano pochi, dati i tempi…

«Era giusto così. Ogni classe aveva il proprio campo di gioco. C’era poi il cortile centrale che serviva per le gare di campionato. Facevamo movimento ogni giorno, tanto più alla ricreazione che si svolgeva nel dopopranzo. Giocavamo sempre a pallavolo, era una necessità ma anche una passione. Eccetto i giorni della pioggia, quando si doveva rinunciare.

«A mezza sera avevamo la passeggiata fuori dal seminario. Dopo l’ora pomeridiana di scuola dalle 15 alle 16 –, che seguiva al pranzo e al dopopranzo, durante il quale spesso si dormicchiava appoggiati al tavolino, c’era un’ora di passeggio, con mete diverse. Attraversavamo il paese, oppure uscivamo per qualche zona di campagna…. Il giovedì la durata del passeggio era raddoppiata. Alle 17 finiva il piacere e tornavamo al dovere. Riprendeva lo studio.

«Lo studio era sorvegliato. In ogni classe c’erano il prefetto e il viceprefetto, che poi erano due studenti delle classi superiori di teologia. Dovevamo studiare in silenzio, e per uscire dall’aula di studio ci voleva il permesso, che doveva essere motivato, per esempio: «devo andare dal rettore»…

«Per quanto riguardava i professori, c’erano i bigliettini: «chiedo di essere ricevuto dal professor tale». Quando poteva, il professore chiamava e riceveva chi gli aveva chiesto colloquio. Da questo punto di vista della burocrazia era più semplice farsi ricevere dal rettore, o dal suo vice, o ancora dal padre spirituale. Con loro non c’era bisogno di preavviso. Certamente erano chiarimenti sul programma, anche in vista delle interrogazioni e poi dell’esame annuale, che avveniva classe per classe, con tutti gli scritti e tutti gli orali.

«Le mie votazioni erano abbastanza buone. Sia negli anni di liceo che, più tardi, di teologia simpatizzai soprattutto per le materie razionali: filosofia – meglio filosofia scolastica, non solo storia della filosofia – e poi teologia. Sì, il profitto era abbastanza buono. Anche se, evidentemente, un giovane che frequenta la prima teologia dopo aver frequentato il liceo, come anche avviene oggi, non può essere un teologo specializzato. Peraltro nessuno ce lo chiedeva.

«La formazione spirituale seguiva questi ritmi: ogni giorno avevamo la messa, anzi la meditazione e la messa. Nel dopopranzo c’era la visita al SS. Sacramento, in cappella, e di sera il rosario. La domenica sera aggiungevamo la recita dei vespri. In generale, complessivamente, dedicavamo ai doveri spirituali un’oretta la mattina e un’altra oretta fra pomeriggio e sera. Avevamo quindi, periodicamente, le conferenze spirituali, questo soprattutto negli anni del liceo.

«Con qualche periodicità c’erano le visite dei vescovi, che naturalmente si intrattenevano in particolare ciascuno con i propri seminaristi. A Cuglieri i vescovi erano soliti incontrarsi fra loro una volta all’anno, in Quaresima, e anche quella era una occasione per vederli da parte nostra. Inoltre venivano anche se invitati per qualche speciale celebrazione: così per le ordinazioni, iniziando dagli ordini minori fino al diaconato, il che avveniva due volte all’anno, prima di Natale ed in Quaresima. Facevano a turno, per quanto possibile. Naturalmente il più assiduo era il vescovo di Bosa, dato che Cuglieri era ed è nel territorio della diocesi di Bosa [Alghero-Bosa].

«Abbastanza assiduo era anche l’arcivescovo di Oristano Giuseppe Cogoni, almeno finché fu in salute, dato che morì nel 1947. Egli si interessò molto del seminario anche dal punto di vista dei rifornimenti, organizzando collette in tutta la Sardegna. Qualche volta salì da Cagliari anche monsignor Piovella, che era già molto anziano e anche malato.

«Gli incontri con i familiari avvenivano, quando possibile, di norma il giovedì e la domenica, e poi, per situazioni straordinarie, quando venivano richiesti e accordati dai superiori. Duravano un’ora circa, il tempo del parlatorio. Date le distanze dalle sedi di provenienza – per esempio Cagliari – bisognava calcolare anche i tempi di viaggio all’andata e al ritorno, per cui non si poteva restare a lungo. D’altra parte Cuglieri era un paese piccolo e anche abbastanza decentrato, e non è che offrisse alberghi per una permanenza maggiore…

«Nell’autunno 1946 iniziai teologia, dopo l’esame di terza liceo, peraltro uguale a quelli degli altri due anni precedenti: tutti gli orali e tutti gli scritti. Adesso naturalmente cambiavano le materie, e anche, da un certo punto di vista, l’ambiente. Ci spostammo infatti in un’altra parte del grande caseggiato.

«Anche i professori erano quasi tutti nuovi. Padre Angelo Perego insegnava teologia fondamentale, negli anni successivi, invece, dogmatica. C’era poi padre Carlo Bozzola, che intanto, nel 1947, aveva lasciato il rettorato a padre Crescentino Greppi proveniente dalla chiesa di San Michele di Cagliari, Sacra Scrittura la insegnava canonico Francesco Sole, teologia morale l’avevano padre Angelo Schiaffino e padre Egidio Boschi, storia ecclesiastica ancora padre Camillo De Grandi, diritto canonico padre Francesco Maria Marchesi e anche dottor Gesuino Martis.

«A Cuglieri si imparava a studiare, il metodo era indubbiamente buono, poteva migliorare ma era buono. Lo si è accusato di non essere sufficientemente inculturato nella realtà sarda: è vero, i professori venivano quasi tutti da altre regioni. Però l’insegnamento era impartito secondo la maturità dogmatica quale la Chiesa poteva offrire in quel tempo. Aggiungo che quando andai a Roma a studiare al Laterano, dopo aver concluso i quattro anni di teologia e prima dell’ordinazione sacerdotale, non trovai nessuna difficoltà nell’inserirmi, mentre quelli che venivano da altri seminari d’Italia dovevano fare l’esame di ammissione alla facoltà di diritto. Questo potrebbe dimostrare che l’impianto di studi da noi era adeguato.

«Quello era un ambiente riservato, super-disciplinato, ma insieme apriva alla vita comune, dando ai giovani la possibilità di realizzare varie attività gradite, di avere conforti e svaghi; lo stile di povertà del tempo esortava alla rinuncia insegnando la validità dei proverbi popolari: chi si contenta gode; il troppo storpia. Può sembrare poco, a me sembra molto.

«Gli abbandoni. Debbo dire che molte volte queste partenze erano preceduta da confidenze tipo «non me la sento di andare avanti», mentre altre volte, a parte le confidenze, ci si accorgeva di un certo disagio, di una crisi… Intanto però va precisato che c’erano due tipi di uscite: c’era chi usciva durante l’anno, e chi non ritornava dopo le vacanze estive. Le prime magari erano più clamorose, anche se più o meno annunciate come ho detto, le altre si mettevano nel conto, tanto più se conseguenti a una certa disaffezione… Comunque, di norma, non c’era una sorpresa assoluta. Nel giro dei miei compagni non ricordo episodi particolarmente importanti da questo punto di vista.

«Piuttosto debbo dire che non mancavano, per i compagni che lasciavano, delle conseguenze concrete, e noi ne eravamo coscienti: chi frequentava il liceo a Cuglieri era fuori da un inquadramento scolastico, e cioè chi abbandonava doveva poi sistemare le sue cose dal punto di vista scolastico, perché il titolo era carente per lo Stato. E quindi doveva sostenere da privatista gli esami per conseguire un titolo ritenuto necessario ad un certo tipo di lavoro. Anche se è vero che in quegli anni, a differenza di oggi, era più facile inserirsi in attività che non richiedevano un titolo specifico…

«D’estate, da metà luglio a fine settembre, si tornava a casa per le vacanze, io a Sarroch. Mi dividevo fra casa e parrocchia, molto tempo lo dedicavo alla parrocchia e anche agli amici e ai ragazzi del paese, organizzando in particolare le andate al mare e le partite di calcio. Molti ragazzi – e io ero poco più grande di loro, avevo 18-20 anni allora – non potevano andare al mare perché i genitori non si fidavano. Potevano invece farlo con noi, perché dei seminaristi ci si fidava. La nostra zona balneare era a 2-3 chilometri dal paese, dove adesso è la raffineria. La sera, invece, si giocherellava a calcio in piazza di Chiesa.

«Una volta, o forse più di una volta, si organizzò anche una specie di campionato estivo, rione contro rione, oppure studenti contro lavoratori. Naturalmente, nelle partite studenti-lavoratori, più della metà degli studenti erano preti o seminaristi, a cominciare dal parroco che intanto, dopo il 1944, era don Giovanni Serra. Giocavamo dopo le funzioni la domenica, il campo sportivo non c’era allora, le partite vere e proprie le giocavamo nelle aie comunali, agibili dopo la raccolta del grano. Ricordo moltissimi di quei compagni di squadra od avversari: Rino ed Ireneo Meloni, Pasquale Lorrai, Giovanni Nappi, Mario e Saverio Murgia…

«Immediatamente dopo la fine della guerra, lanciammo il calcio in paese. Giovavamo quasi regolarmente, c’era un buon afflusso di pubblico a tifare per le squadre. I Tiddia eravamo sette, Mario era del gruppo, ma non era il primo, almeno dal punto di vista anagrafico, perché ce n’erano di più anziani di lui. Eravamo tutti di famiglia, una bella rete di fratelli e cugini… Si trattava di un diversivo estivo, che serviva a legarci di più, a creare il gruppo giovani che portò avanti un suo messaggio, e infatti ancora oggi quando ci incontriamo a Sarroch, noi che ormai siamo tutti avanti con gli anni, ricordiamo quell’avventura del calcio, che fu anche l’inizio per la squadra che oggi c’è in paese…

«A Sarroch c’era allora un pienone di vocazioni, e diversi siamo diventati sacerdoti: prima di me c’era stato Lauro Pinna, che morì in un incidente d’auto nel 1972, quand’era parroco di Senorbì, a soli 47 anni, e che ho ricordato in un libricino biografico. Poi Mosè Piroddi, che fu parroco a Villa San Pietro e attualmente vive a Sarroch, ordinato nel 1952. Poi ancora Gavino Pala, parroco di San Carlo Borromeo a Cagliari, ordinato nel 1955. E anche un frate cappuccino, sorto in quell’ambiente e deceduto qualche anno fa. Passò poi al clero diocesano e andò parroco – don Nino Pinna era il suo nome – nel Sarrabus. Naturalmente gli altri, pur se non diventati sacerdoti, hanno vissuto la loro vita cristiana…

«Monsignor Botto giunse a Cagliari nell’autunno 1949, proprio quando io iniziavo l’ultimo anno di teologia. Il giorno del suo ingresso a Cagliari fu invitato dal padre rettore a visitare Cuglieri, e venne poi volentieri a conoscerci. Fui presente, a Cagliari, il giorno del suo arrivo. Ascoltai la sua parola con attenzione e ammirazione, era un discorso vivo e vivace. Certo la sua voce e la sua immagine contrastavano nettamente con la voce pacata e ormai stanca e la figura dell’anziano monsignor Piovella, sempre più malato e decadente.

«Appena entrato nelle sue funzioni, monsignor Botto, che era stato a lungo rettore di seminario lui stesso, a Chiavari, e dunque se ne intendeva, mostrò subito la sua esigenza disciplinare e di serietà nell’ambito degli studi e della formazione del clero. Giustamente, credo.

«L’ordinazione gliela chiesi io la prima volta che venne a Cuglieri. Allora non avevo ancora 21 anni. Lui mi disse: «pazienta, devi aspettare».

«Nel luglio 1950 conclusi il quarto anno di teologia con l’esame di licenza, presentando un lavoro su “L’infallibilità del Papa in Luca 22, 31-32”.  Pochi mesi dopo – forse erano i primi giorni di settembre –, quando cioè andammo a Roma per l’anno santo, l’arcivescovo mi chiamò da parte e mi disse che l’anno seguente mi avrebbe ordinato sacerdote.

«Intanto io ero interessato a continuare a Cuglieri per la laurea, ne avevo anche parlato con il professore, precisamene con padre Bozzola. L’arcivescovo però mi disse: «no, desidero che tu vada a Roma a studiare diritto canonico». E naturalmente gli risposi di sì. Mi aveva anche già cercato il collegio, era il Nepomuceno, in via Concordia 1, dalla parte di San Giovanni in Laterano, quartiere Appio. E appunto cominciai a studiare, già alla fine di quel 1950, a Roma.

«Per l’ordinazione dovetti aspettare circa un anno e mezzo. Mi riferisco adesso soltanto all’ordinazione sacerdotale, perché alla fine del quarto anno di teologia presi il suddiaconato, poi l’anno seguente a giugno presi il diaconato e il 16 dicembre, sempre del 1951, il presibiterato.

«La tonsura mi fu proposta dal padre rettore che era ancora padre Bozzola il quale, siccome era annunciata una visita di monsignor Piovella alla fine del 1946, mi disse: «penso che l’arcivescovo sarà contento di darti la tonsura», e naturalmente fui d’accordissimo, anzi felicissimo. Sennonché monsignor Piovella si sentì poco bene e non venne, quindi la tonsura fu trasferita al 1° gennaio 1947 nella cappella del seminario di Cuglieri, e mi fu conferita da monsignor Nicolò Frazioli vescovo di Bosa, che era lì vicino. Venne infatti, quel giorno, monsignor Frazioli, e oltre alle tonsure conferì anche vari ordini minori fino al suddiaconato, e anche qualche diaconato. Così iniziai il cammino ecclesiale. Ero in prima teologia. Invece i quattro ordini minori, prima ostiariato e lettorato, poi esorcistato e accolitato, mi furono conferiti tutti e quattro nella cappella dell’episcopio di Cagliari da monsignor Piovella, due per volta: il 28 giugno del 1947 ed il 28 giugno del 1948 rispettivamente, allorché iniziavo la seconda e la terza teologia. Dovrei aggiungere che il 28 giugno significava la vigilia della festa di San Pietro.

«Per ricevere il suddiaconato, che richiedeva un impegno stabile legato al celibato, bisognava avere almeno 21 anni. Quindi dovetti aspettare qualcosa. Lo ricevetti, ultimo degli ordini minori, alla fine del quarto anno di teologia, appunto al compimento dell’età minima. Fu il 16 luglio 1950, pochi giorni dopo la licenza in teologia. Lo ebbi dallo stesso monsignor Botto, nella cattedrale di Cagliari.

«Per il diaconato dovetti attendere un altro anno, sempre per ragioni di età. Fu ancora monsignor Botto ad ordinarmi diacono, in cattedrale, il 29 giugno 1951. Allora studiavo già da un anno a Roma.

«La cerimonia fu fissata appena ottenni dalla competente congregazione vaticana la dispensa per l’età. Il massimo di dispensa allora era di un anno e mezzo rispetto all’età minima dei 24 anni. Ottenutala bisognava che compissi 22 anni e mezzo. Io li compivo il 13 dicembre 1951, e quindi l’ordinazione venne fissata il 16 dicembre 1951 in Sarroch. Sennonché capitò una difficoltà imprevista: ci fu l’alluvione, e anche la nostra chiesa parrocchiale di Santa Vittoria subì danni, si dovette puntellarla, ecc. E allora l’interrogativo che ci si pose era: in chiesa chi ci sta? Bisognava pensare di spostare la cerimonia fuori della chiesa e, trattandosi di dicembre, bisogna sperare che facesse bel tempo. Una bella scommessa. Ma fortunatamente quel giorno fece bel tempo, e sia l’ordinazione che la prima messa, l’indomani, avvennero in piazza di Chiesa. Non ci fu nessun problema per i presenti. Fu montato un palco, mi pare proprio non ci fossero altoparlanti. Allora non c’era, di fatto, questo servizio… Peraltro monsignor Botto aveva voce, e così si procedette, io cercai di aggiustarmi, la piazza era raccolta. Purtroppo non ho documenti fotografici, né sonori, di quell’avvenimento. Conservo invece alcune fotografie, ovviamente in bianco e nero, della mia prima messa, che celebrai il giorno dopo nella stessa piazza di Chiesa a Sarroch. Le scattò padre Crescentino Greppi, rettore di Cuglieri, che era un amante dell’arte fotografica…

Un ritorno ma per chiudere e aprire altrove, anno 1971

«Capitò che monsignor Dino Locci, mite e saggio parroco della cattedrale da quasi trent’anni, fosse colpito da infarto. Il cardinale Baggio decise quindi di togliergli il peso della parrocchia dandolo a me molto più giovane e in forza. In seminario mi sostituì con don Giovanni Cara, che tornava dalla missione in Brasile. Quell’anno sarebbe dovuto venire a Cagliari il seminario regionale, dopo la decisione dei padri gesuiti di concludere la loro esperienza iniziata nel 1927 a Cuglieri… Un annetto dopo fu nominato rettore del seminario diocesano don Dante Usai.

« Intanto già nel 1970, essendo io ancora rettore dell’arcivescovile, accogliemmo i liceisti che erano usciti da Cuglieri, ma non solo i nostri, anche quelli di altre sette diocesi, mentre il seminario minore di Sassari aveva dato accoglienza a quelli delle tre diocesi del nord Sardegna. Era iniziata la smobilitazione del Regionale ed erano anche iniziati non pochi problemi per noi. Dovemmo ristrutturare alcuni ambienti nel pur grande caseggiato – ma ancora molto affollato – di San Michele, trasformando alcuni studi in camerette per 4-6 alunni con piccoli banchi per lo studio. Dal punto di vista scolastico eravamo a posto, con il rango di scuola parificata.

«La dispersione fu problema dei teologi. Nel febbraio del 1971 essi erano ancora a Cuglieri. Ma in quel mese il cardinale Baggio ricevette una lettera del rettore del Regionale che lo informava della decisione dei gesuiti di dimettersi dal loro incarico. Il cardinale volle andare personalmente, e subito, a Cuglieri. Il che è anche segno di riguardo e signorilità da parte sua, perché avrebbe benissimo potuto convocare a Cagliari il rettore. Mi chiese di accompagnarlo e volle che assistessi al suo colloquio con il rettore. Eravamo in tre nello studio. I gesuiti non se la sentivano più di proseguire. Una situazione di difficoltà si era creata anche nei rapporti con la Conferenza Episcopale Sarda. Bisogna tener presente che ormai siamo nel passaggio dall’ordinamento accademico preconciliare a quello postconciliare. Intendo dire: prima del Vaticano II il gran cancelliere della facoltà teologica era il prefetto della Congregazione dei Seminari; dopo il Concilio il gran cancelliere, quindi l’autorità di riferimento, era il presidente della Conferenza Episcopale Sarda. Un fatto non da poco, basti pensare ai finanziamenti. Prima provvedeva la Santa Sede, ora doveva provvedere il sistema delle diocesi sarde…

«Ricorderei, per quanto personalmente mi riguarda, che nell’anno 1981-82, essendo vescovo ausiliare di Cagliari, avrei avuto dalla CES l’incarico di pro-rettore del Regionale…».

 

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