Giorgio Asproni e sa die de sa Sardigna. Il ricordo del grande Bittese in un discorso del 1979 di Armando Corona, al tempo presidente del Consiglio regionale, di Gianfranco Murtas

L’articolo contiene il testo del discorso asproniano tenuto da Armandino Corona nel 1979 (era presidente del Consiglio regionale) e scritto a sei mani da Gianfranco Murtas, Nino Ruju e Vindice Ribichesu.

Non so quale parentela ideale o politica, sia pure in senso lato, possa avere l’assessore Giuseppe Dessena con Giorgio Asproni. Forse nessuna, lo ritengo probabile. Nessuna come da nessuna parte dell’arco politico mi pare oggi salga, con ragione e passione, un riferimento alle correnti di pensiero che hanno fatto la cultura e la politica di due secoli pieni nell’occidente europeo, e anche in Sardegna. E però è stato suo merito – merito dell’assessore –, a leggere i comunicati stampa diffusi dalla Regione, l’aver dedicato l’edizione di quest’anno di sa die de sa Sardigna a Giorgio Asproni.

Quanti riconoscimenti per Giorgio Asproni in questi anni! Merito di molti, tanto più dopo la pubblicazione integrale del suo monumentale Diario politico, ad iniziativa della facoltà di Scienze Politiche di Cagliari, e degli studi di numerosi storici, accademici e no. Fra i maggiori, con Bruno Josto Anedda – scopritore dei 76 quaderni e di molto altro nella casa del conte Enrico Dolfin (ora i manoscritti sono custoditi dall’Istituto Etnografico della Sardegna – l’ISRE –, a Nuoro) – Tito Orrù, Carlino Sole, Maria Corona Corrias.

Mi riservo di proporre a breve una bibliografia asproniana “remota”, antecedente cioè al boom degli studi degli anni ’70-80 e successivi, per dar conto anche della fatica e insieme della generosità di chi intuì per tempo, nonostante mancassero i faldoni documentari acquisiti poi, il valore di lucida anticipazione della missione politica e parlamentare del Bittese, canonico dalla schiena dritta, repubblicano mazziniano (dopo iniziali simpatie giobertiane) e massone.

Chi scavò fu allora soprattutto un militante dell’idea, che accompagnò naturalmente allo slancio sentimentale il rigore della ricerca, della lettura, della interpretazione, della classificazione. Diverso è oggi, quando una certa generica melassa ha universalizzato, non per la virtù vera, però, Giorgio Asproni. Non potendo vantare anticipatori di tanto prestigio, e da parte di certa sinistra di cromosomi comunisti e da parte di ambienti cattolici (i cosiddetti riformatori!) o liberal-moderati (magari forzisti), il nome del deputato che fu per tanti anni fra i leader dell’opposizione ai governi centralisti di Torino, Firenze e Roma, è richiamato per dar nobiltà a discorsi e conferenze.

Nel novembre 1979, celebrandosi a Nuoro, con l’organizzazione dello stesso ISRE, dell’Associazione Mazziniana Italiana e della facoltà di Scienze Politiche di Cagliari, il primo convegno nazionale di studi su Giorgio Asproni, cui offerse la sua prolusione il sen. Giovanni Spadolini, risorgimentista della maggior scuola italiana, portò il suo saluto anche l’on. Armando Corona, al tempo presidente del Consiglio regionale della Sardegna.

Egli chiese a me, allora giovane ancora in formazione e neppure più tesserato al PRI, di fornirgli una base su cui elaborare poi il suo testo, consegnato agli atti, pubblicati nel 1983 a cura dello stesso ISRE. Sul mio semilavorato intervennero poi gli amici Nino Ruju, allora capo di gabinetto del presidente nonché segretario regionale repubblicano, e Vindice Ribichesu, prodirettore dell’ufficio stampa del Consiglio. Fu dunque un lavoro cooperativo di risorse diverse, e fu testimonianza corale nostra – amici e collaboratori del presidente dell’Assemblea legislativa sarda – di fede negli ideali che un secolo prima, e più d’un secolo prima, avevano avuto in Giorgio Asproni un maestro. Lui nella scuola di Giuseppe Mazzini, lui nella colleganza intellettuale e politica con Carlo Cattaneo, lui nella consentaneità patriottica con Giuseppe Garibaldi. Mazzini e Cattaneo s’erano già spenti, in quel 1876 che fu l’anno in cui Asproni si consegnò alla storia. Garibaldi gli sarebbe sopravvissuto per altri sei anni e, pur malato, pur costretto alle grucce, non mancò di recarsi all’abitazione del compagno di tante battaglie per onorarne la salma.

Ecco di seguito l’intervento dell’on. Armando Corona, da lui letto al convegno nuorese.

 

Statista e profeta, un sardo nella battaglia politica per la democrazia

Consentitemi, preliminarmente, un’annotazione di carattere personale: quando, nel triste giorno del funerale di Ugo La Malfa, assistevo a quella grande manifestazione popolare che soverchiava il pur commosso rituale ufficiale, il mio pensiero è andato alle cronache di quel 1° maggio 1876 quando si svolsero i funerali di stato di Giorgio Asproni. Ancora il 1° maggio non era stata proclamata festa internazionale dei lavoratori, la breccia di Porta Pia era, si può dire, ancora fumante e, per la Chiesa, bruciante; la sinistra era andata al governo soltanto da pochi mesi e non si era certo consolidata al potere. Eppure la commozione e la partecipazione furono unanimi: non soltanto per quest’uomo onesto, che era stato sempre all’opposizione, furono decretati i funerali di stato che erano stati concessi dal Parlamento soltanto per due Presidenti del Consiglio, Cavour e Rattazzi, ma si ebbe anche una manifestazione popolare di ampiezza superiore ad ogni aspettativa. Non si erano mai viste intorno al feretro di un uomo che era prete (e che per sempre rimase prete anche quando fu sospeso «a divinis»), tante bandiere rosse e tante bandiere verdi. Erano le bandiere delle associazioni operaie mazziniane, della Massoneria, dei circoli repubblicani e del libero pensiero, i fazzoletti rossi dei garibaldini. Furono quei funerali la più grande manifestazione pubblica della sinistra italiana che Roma, capitale d’Italia, avesse visto fino ad allora.

Evidentemente – pensavo in quell’occasione – il popolo ha dei suoi strumenti particolari – che vanno al di là delle mediazioni dei mezzi di informazione, delle strutture di partito – per giudicare il valore di certi uomini e comprendere, d’istinto, che essi hanno costituito e costituiranno per le generazioni future un punto di riferimento preciso, un crinale nella storia, piccola o grande, delle comunità e delle sue organizzazioni.

Desidero sottolineare come il giudizio popolare immediato su alcuni uomini che acquistano il valore di simbolo vada spesso al di là della grandezza e della potenza delle organizzazioni alle quali appartengono o del ruolo di governo o di opposizione che hanno in vita ricoperto.

È ben vero che, talvolta, l’egemonia del potere dominante cerca di rimuovere dal ricordo stesso della gente, dalla sua «memoria storica», personaggi e fatti che possono risultare scomodi. È quanto è accaduto a Giorgio Asproni, questo prete cattolico, repubblicano, autonomista e federalista, massone e per giunta sardo che mai ha rinnegato le sue radici anche quando era immerso nella più vasta e cosmopolita cultura dell’Europa del suo tempo.

Deve essere stato così appassionatamente sardo e così intensamente antipiemontese se Jessie Meriton White, allora fidanzata e poi moglie di Alberto Mario, quando questa (fervente repubblicana, organizzatrice di meeting mazziniani a Londra) fu dall’Asproni accompagnata alla stazione di Torino da dove doveva partire, confidò all’amico sardo di disprezzare questa città dove non aveva trovato «né anima né sentimento» e che avrebbe preferito «le mille volte» di andare in Sardegna.

Ricordo questo episodio non certo per portare il discorso sulla bozzettistica, ma per sottolineare questa intima coerenza, anche nei rapporti privati e personali, del personaggio che è stato invece talvolta descritto come incoerente e contradditorio.

Ricordo, ad esempio, il suo intervento sul primo tentativo di introdurre il divorzio in Italia. «Incomincio dal dichiarare – esordì Asproni – che il sentimento di religione non si comanda né si impone» e subito dopo: «Ed essendo che io son cattolico e son prete, protestando in primo luogo contro chi crede che la religione cattolica è nemica del legittimo esame di tutto ciò che non è elevato alla sacra sfera di vero dogma ecclesiastico; in questo grado di indiscutibile verità è collocato il principio: essendo il matrimonio uno dei sette sacramenti. Ma non è vietata la controversia; né la diversità delle opinioni sopra ciò che costituisce il civile contratto; la materia, la forma di questo sacramento. Protesterò contro le insensate esorbitanze degli altri che pretendono di fare della Chiesa la padrona degli Stati e delle Nazioni. La Chiesa non ha bisogno delle potenze della terra, sussiste e sussisterà sempre da sé, e sarà libera, più grande e più venerata a misura che sarà più separata e più emancipata dallo Stato». La Camera rispose con grida di «Bravo! Bene!».

Io credo che una figura come quella di Asproni debba essere rivisitata oggi senza chiusure mentali e senza preconcetti dogmatici, superando le emarginazioni che del personaggio hanno fatto spesso le storie ufficiali. Ciò per capire meglio il nostro passato e per trarre insegnamento per il nostro presente e, soprattutto, per il nostro futuro.

Infatti le tre grandi questioni – quella nazionale (e quindi della struttura dello Stato), quella cattolica e quella sarda – che nella sua intensa vita pubblica Giorgio Asproni ebbe modo di affrontare, e di sviluppare, recandovi un apporto originale, all’interno del vasto dibattito intellettuale e politico dell’Italia del Risorgimento, sono state giustamente poste al centro, in questi anni di ricerca bibliografica ed archivio sui testioriginali. Ciò anche per colmare le lacune che le omissioni delle storie ufficiali avevano lasciate.

Il diario politico 1855-1876, innanzitutto; ma anche gli atti parlamentari (e Giorgio Asproni fu deputato prima al parlamento subalpino e poi in quello nazionale per ben 27 anni!); gli oltre mille articoli pubblicati sulla stampa del tempo, e non ancora completamente catalogati; e il carteggio privato, non meno rivelatore della sua personalità e della sua attività concreta, sono state poste al centro, dicevo, dello studio appassionato di chi, storico e storiografo, forse prima ancora dell’intuizione del grande valore intellettuale e politico del personaggio ha provato per Asproni un sentimento di istintiva simpatia umana, e ne ha voluto perciò scavare fino in fondo il carattere e l’opera.

Meritorio in questo senso è stato l’intervento della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Cagliari. Egregio lo studio che dell’Asproni e dell’ambiente nel quale egli è vissuto, quello sardo e barbaricino prima, quello nazionale poi, hanno condotto soprattutto i chiarissimi professori Tito Orrù e Carlino Sole. Ammirevole – mi sia consentito – l’iniziale e determinante contributo del compianto amico Bruno Josto Anedda, collaboratore della Facoltà di Scienze Politiche, il primo e vero scopritore, col ritrovamento dell’imponente «Diario politico», del grande sardo.

Lascio doverosamente agli storici di professione – e ve ne sono di illustri molti qui convenuti – l’esposizione dei dati biografici più salienti ed il giudizio, documentato ed autorevole, sulla statura dell’uomo e sullo spessore della sua azione.

A me in questa sede interessa guardare ad alcuni tratti solamente della personalità asproniana, che per me sono esemplari, un modello anche per noi politici d’oggi; ed all’attualità di taluni dei temi di maggior rilievo dall’Asproni trattati con l’attenzione, l’acume e la passione che gli erano tipici, temi che vertevano soprattutto sul campo istituzionale (e ben sappiamo quanto questi argomenti siano centrali ancora oggi nel dibattito politico e culturale.

Certo allora, quando Asproni viveva e combatteva per l’affermazione dei suoi ideali democratici, repubblicani, autonomistici, laicisti, l’Italia era ben diversa da quella che quel primo Risorgimento, un secolo di storia, il secondo Risorgimento (la Resistenza degli anni ’43-45), e trent’anni di confronto nella libertà, hanno realizzato e che oggi conosciamo.

Quell’Italia non era democratica, nel senso che il sistema politico, elettorale e parlamentare escludeva le grandi masse, impediva la partecipazione popolare alla formazione della volontà comune; quell’Italia non era repubblicana, ma invece monarchica, sotto Casa Savoia, mai aliena da quegli abusi istituzionali sempre denunciati dal deputato bittese; quell’Italia non era autonomista, anzi l’istanza regionalista – e tanto più quella federalista – era estremamente minoritaria, e neppure condivisa dall’intera sinistra; quell’Italia viveva ancora la lacerazione del suo rapporto conflittuale con la Chiesa cattolica e, almeno fino al 1870, con lo stesso Stato pontificio,fino a quel fatidico XX settembre, il giorno nel quale l’Asproni – pur vecchio e stanco – lui prete, volle salire sul campanile di Palazzo Vecchio, nella Firenze ancora capitale d’Italia, per issarvi il tricolore.

Certa retorica agiografica, che naturalmente, essendo lontana dalla verità storica, non ha alcun valore culturale, potrebbe tendere a far assumere alle lucide intuizioni dell’Asproni indebite dimensioni.

Ciò detto, però, non è meno vero che l’Asproni anticipò molte conclusioni cui il movimento democratico e la democrazia italiana nel suo complesso – e sappiamo quanto sia articolata ideologicamente questa nostra democrazia, ove confluiscono correnti di pensiero ancora assenti o appena in formazione a quel tempo, dalla socialista alla cattolica alla comunista – sono pervenute in tempi recenti.

Repubblica e parlamento: ecco due termini quasi inscindibili nella visione democratica di Giorgio Asproni. Dobbiamo oggi rilevare che in tutte le forze politiche sta sviluppandosi una nuova consapevolezza: quella della necessità di riscoprire – come usa dirsi – la centralità del parlamento.

Certo non esistono istituzioni date una volta per tutte. Così lo stesso parlamento oggi non può che avere un’identità ed una funzione per alcuni versi differenti da quelle di un secolo fa. E non solo per la maggior ricchezza e vivacità che l’ingresso di forze popolari di grande impegno ideologico e politico ha naturalmente portato nelle assemblee. Diverso è il rapporto con le altre magistrature dello Stato, con l’esecutivo, ma soprattutto con la realtà democratica, in larga misura espressa dalle istituzioni rappresentative, locali e regionali, ormai consolidatesi. Le regioni, le autonomie regionali, che sono politiche e non meramente amministrative.

«Opinione mia è quella che alle isole convenga un governo proprio con amministrazione propria e indipendente, salvo sempre il vincolo colla madre Italia che sarà rappresentato da un governo e da un parlamento nazionale a Roma», così scrisse l’Asproni nel 1854, nei suo testamento spirituale, quando accorso a Genova colpita da una grave epidemia colerica, per portarvi Il proprio soccorso, temette di contrarre anch’egli il morbo.

Ecco rivelato anche il suo coraggio umano e civico. Mazziniano, anche in questo, l’Asproni, la vita intese come missione, e così la politica, cui partecipò oltre ogni contingente utilitarismo. Rifiutò, in ossequio alla propria pregiudiziale repubblicana che ogni giorno nutriva con la rabbia per gli abusi monarchici, con l’insofferenza verso l’arcaicità del sistema politico del suo tempo e, rifiutò, quando gli venne proposto – a Torino come a Palermo – l’incarico ministeriale: «né posti, né portafogli, né comodi sotto un re».

Così parlava sì il grande uomo politico, il democratico, l’intellettuale, ma così parlava anche il vecchio prete, laureato in filosofia, teologia e diritto canonico, sempre sostenitore della separazione fra temporale e spirituale, il quale – pur vivendo momenti di acuta tensione con l’Istituzione ecclesiastica, fino alla soglia della scomunica – conservò sempre, in «scrinio pectoris», la «fede dei padri», com’egli stesso disse.

Ebbe modo, nella sua lunga e prestigiosa vita parlamentare di manifestare il proprio impegnò laicista: così nella legislazione riguardante il matrimonio civile che ho già ricordato, o l’esproprio dei conventi, o l’abolizione del foro ecclesiastico. «Canonico sì, ed anche avvocato, ma non col camice capitolare veniva in parlamento, sibbene col mandato del Circolo popolare di Nuoro, dove la sarda democrazia erasi prodigiosamente infiltrata nelle vene di un prete e nei tendini di un curiale … Uomo incrollabile, fra tanto lusso di apostasie, non si è disdetto mai»: così di lui testimoniò nel1876, ilBrofferio.

Ecco l’intellettuale moderno, l’ecclesiastico liberale e riformatore, il politico ed il parlamentare realista e combattivo. Ecco il suo stile, una figura rispettata capace di strappare l’ammirazione agli stessi avversari che, alla pari dei suoi amici più cari, parteciparono al lutto ufficiale che, per tre giorni, il parlamento volle dichiarare per la morte del deputato dell’opposizione, ma né capo dell’opposizione né capo di un partito. Tale era la stima e la considerazione da cui era circondato.

Qualità esemplari, dicevo all’inizio. Un modello per la classe politica d’oggi. Un senso dello Stato – pur vissuto da oppositore allo Stato elitario e monarchico – integro, alieno da patteggiamenti o compromessi di sorta, apertamente rivelato nella polemica ad esempio con la Chiesa della quale pure si dichiarava figlio, ma che non di meno osservava dovesse operare sulle coscienze invece che nelle istituzioni profane.

La chiarezza della visione asproniana – dell’Asproni insieme prete e politico – riguardo ai rapporti fra le due sponde del Tevere, fra le due Rome, secondo la classica terminologia spadoliniana, ne fanno per certi versi un anticipatore degli approdi cui giungerà, cent’anni dopo, il Concilio Vaticano II – giusto cent’anni dopo il «Sillabo» di Pio IX -, non meno che delle acquisizioni costituzionali comuni ormai, come fatto di cultura politica, non solo alle forze di derivazione risorgimentale, ma allo stesso partito di ispirazione cristiana.

Non c’era qui solo una capacità straordinaria di lettura della «storia che veniva», una virtù profetica ultra-umana; c’era invece da parte del sacerdote, un saper scavare – fino a trovare una verità che consola lo spirito ed appaga la fatica della ricerca -, un saper scavare in se stesso e nelle ragioni essenziali che – fuori del tempo – sono il fondamento della rivelazione cristiana e della Chiesa, e che non possono dunque, salvo volerle corrompere, mischiarsi colle ragioni profane della politica. Ed insieme, da parte del politico, la consapevolezza profonda che l’autonomia statuale, la difesa dello Stato laico, non-ideologico, era la sola via possibile per consentire e garantire lo sviluppo della democrazia e delle libertà civili per tutti i cittadini.

 

 

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