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Incontro con Guido Portoghese: «Garibaldi e Lussu, Berlinguer e anche l’Aldo Moro della svolta progressista nei miei riferimenti ideali», di Gianfranco Murtas

Posted By cubeddu On 11 marzo 2016 @ 16:02 In Blog,Città e comuni della Sardegna,Persone,Politica sarda,Storia della Sardegna,Trasporti | Comments Disabled

Viaggio fra le icone etico-civili e politiche di ieri e oggi di uno dei protagonisti della vita municipale di questi ultimi anni: dall’avo nobile-cavaliere assassino del viceré Camarassa a don Mario Cugusi storico parroco della Marina, da Angelo Pigurina scoperto dal professor Tito Orrù fra le camicie rosse sardo-uruguagie al professor Carlo Aymerich relatore della sua tesi di laurea nel 1999, da Ottone Bacaredda a (nientemeno) don Giovanni Bosco… Nel mezzo, studio e professione, politica ed associazionismo, teatro e sport.

Caro Salvatore,

da molto tempo, trent’anni ormai, convivo, per ragioni di studio mirato, con il mito esigente di Ottone Bacaredda e godo – per quanto l’analista possa farsi coinvolgere nella materia al suo esame – del tanto civico e sociale che il mito porta, alla fine, nel reale. e aggiungo di non avvertire per pesante condizionamento le suggestioni che quella remota esperienza politico-amministrativa pur mi impone, oltre la stretta storicizzazione del prim’attore e della sua opera. Anzi, recuperando l’icona affacciata in qualche mio scritto di cinque anni fa, al tempo delle scorse elezioni comunali cioè, mi è capitato di seguire la consigliatura civica ormai in scadenza (2011-2016) rivivendola in qualche misura secondo i parametri di novità che entrarono nella storia municipale di centoventi e passa anni fa (dall’autunno 1889): per i numerosi esordienti nell’assemblea comunale che quasi mi pareva di risentire come, in un remake possibile e assolutamente dignitoso, i protagonisti del partito della Casa Nuova bacareddiana. Quel partito che per lunghi anni, dopo il crac bancario del 1887 la cui responsabilità morale fu attribuita, giustamente o no, a Francesco Cocco Ortu, sottrasse il controllo municipale alla fazione di quest’ultimo (a lui lasciando piuttosto la leadership nel Consiglio provinciale allora di estremo rilievo tanto più nel campo della spesa e della influenza territoriale).

Mancano purtroppo le biografie particolari di quegli uomini che con Ottone Bacaredda spinsero per la modernizzazione di Cagliari nel passaggio fra Ottocento e Novecento. E peraltro, accompagnando diversi giovani laureandi per le loro tesi sulla Sardegna e il suo capoluogo in quella transizione epocale – la belle époque prolungata fin oltre la grande guerra! –, mi è parso, dalle raccolte dei materiali documentari, di maturare in progress, di quella platea amministrativa, una conoscenza anche umana, o prima di tutto umana, utile a comprenderne i passi compiuti nella rappresentanza e anche nella giunta.

Ecco qui. E’ lecito vedere nella maggioranza consiliare che ha amministrato Cagliari in questi ultimi cinque anni una specie di reviviscenza, per le idealità programmatorie e lo sguardo lungo, per lo scrupolo verso il bilancio e la efficienza ripristinata degli uffici (non di tutti però), del partito della Casa Nuova?

Mi son detto di sì. Poteva e doveva essere un caso di scuola. Sicché mi sono avventurato, consapevole dei limiti. Immaginando di poter incontrare e intervistare uno dei molti coprotagonisti dell’età bacareddiana – protagonisti del nuovo, portatori di specifiche competenze professionali e di senso morale – ho saltato il secolo e raccolto su carta i contenuti di uno scambio, cordiale e amichevole, con uno degli esponenti di maggior peso della uscente rappresentanza. Mi riferisco a Guido Portoghese, che più spesso – in aula e in commissione, ma anche nel dibattito pubblico e sulla stampa – ha mostrato sensibilità partecipativa.

Nessuna propensione a un utile elettoralistico di parte (anche perché io non voto e non posso votare il PD renziano e tanto meno il sindaco uscente e riproposto Zedda, che con Bacaredda non manifesta proprio alcuna parentela ideale). Nessuna strumentalità, una testimonianza, soltanto una testimonianza. Te la mando. Se credi opportuno pubblicarla, te la offro nella sua interezza.

Abbracci, Gianfranco Murtas


L’INTERVISTA

 

«A distanza di oltre vent’anni dalla introduzione del sistema maggioritario, che ha coinciso con il riassetto radicale dell’intero arco politico, ancora si sente dire di questo o quel leader o militante “è un ex-comunista”, “è un ex-socialista”, “è un ex-democristiano”, ecc. Ecco, io mi sento soltanto un “democratico”. Sono arrivato al Partito Democratico come ulivista, l’Ulivo di Prodi – che era uno schieramento largo di centro-sinistra – è stato il brodo di coltura del PD, e la mia prima militanza politica è stata nell’Ulivo evolutosi poi nel PD».

Vorrei dar conto, con un tono piano e quasi di familiarità, di alcuni incontri avuti nei giorni scorsi con uno dei consiglieri comunali che, forse anche a motivo della materia di cui si è principalmente (non esclusivamente) occupato nel corso della consigliatura municipale ora agli sgoccioli – intendo la viabilità e il trasporto pubblico – ha avuto modo di mettere in evidenza attitudini amministrative più che apprezzabili. E sempre con cordiale signorilità. Intendo Guido Portoghese, ingegnere cagliaritano appassionato alla storia non meno che al presente della sua e mia città.

Non tanto di trasporti ho avuto, negli anni, possibilità e ragioni di confronto e scambio con lui, se non occasionalmente. Hanno vinto altri temi e – dico per me – il gusto dell’approccio e poi degli approfondimenti condivisi su questa o quest’altra materia – direi generalmente l’evoluzione civica di Cagliari dal tempo di Bacaredda agli anni più recenti – mi è sembrato, da parte di Portoghese, sopraffino. Ed è cosa che mi ha pienamente conquistato. Di qui la testimonianza attraverso questa ricostruzione, o simulazione, delle nostre conversazioni. Aggiungo: scambi dialettici che mai hanno corso il rischio di volgere a conclusioni interessate e preconfezionate, alla fine conformiste, anche perché io ho storia politica diversa (sempre fra le minoranze estreme), e per nulla convergente, da quella che il Partito Democratico mi sembra vada tessendo oggi, con potenza maggioritaria, al governo, in Parlamento, nella Regione, in molte istituzioni rappresentative.

Discutendo globlocal

Tutto è iniziato tre anni fa, discutendo con lui (e con Enrico Lobina) le benemerenze sociali e culturali del mio amico don Mario Cugusi, storico parroco della Marina, tali da ottenergli – da parte dei consiglieri comunali di ogni parte politica (non del sindaco Zedda, incapace perfino di capire quanto gli si era proposto e rimasto imprigionato in un’intesa, di pura formalità e di nessun valore, con l’arcivescovo Mani allora uscente) – un pubblico riconoscimento. Questo accadde nella serata del 6 giugno 2013, nell’aula consiliare e Portoghese fu (con Lobina) il protagonista dell’avvenimento, al quale diedi la mia partecipazione con l’intervento d’apertura.

Gli incontri sono poi proseguiti, combinando nella discussione, in una miscela sapida e sempre piacevole, le anime religiosa e laica della città lungo i passaggi della sua storia (tanto più da Bacaredda in qua): sicché infinite volte si sono affacciati nei nostri dibattiti… a due, o a tre o dieci, il mito cagliaritano di Giordano Bruno e la cittadinanza onoraria conferita al rettore maggiore dei salesiani don Artime (così l’11 ottobre 2014, e l’opera di Portoghese è stata assolutamente determinante per la buona riuscita anche di questa iniziativa), la presenza democratica dei “ghibellini” cagliaritani come Felice Mathieu nelle amministrazioni civiche fra Ottocento e Novecento e la semina pedagogica dei vincenziani – santi… concorrenti dei salesiani – lungo un secolo intero, tanto più nella cittadella di Villanova. E nel mezzo, naturalmente, quant’altro emergeva anche dall’attualità come motivo per messe a punto in spaccati diacronici, dall’associazionismo civico alle modalità di partecipazione popolare in un sistema pur saldamente ancorato ai canoni della democrazia rappresentativa. Così anche, aggiungerei, alla controversa nozione della unità costituzionale della repubblica (quella nata dalla resistenza antifascista e dal sangue generoso di tanti italiani) in rapporto a presenti e diffuse – sia pure (fortunatamente, secondo il mio sentire) marginali – pulsioni “separatiste”. Preciso: pulsioni teoremiche e puri velleitarismi catalogati fra corsare approssimazioni, nel disordine concettuale comprensivo di opzioni diverse e anche opposte: dal dogma dell’autodeterminazione all’autonomia politica, dal federalismo all’indipendentismo (economico-istituzionale?), al nazionalitarismo (etnico-razziale?). Il tutto in tempi di crescenti problematiche circa le pratiche modalità dell’integrazione europea, in tempi di permanenti complicazioni nella più prossima area balcanica (in cui il “particulare” nazionalista ed etnico-religioso ha prodotto infinite tragedie), in tempi di irrisolte ed anzi autogeneranti (e inevitabilmente luttuose) tensioni rivoluzionarie e controrivoluzionarie, lungo tutta la fascia dell’Africa mediterranea e del medio Oriente, da quello ebraico/palestinese quello turco, curdo ed armeno… Per non dire dei pericoli crescenti e annichilenti della seconda linea terroristica del peggior fondamentalismo islamico. E considerando naturalmente come dato acquisito il volume massivo delle correnti migratorie dal mondo povero e stremato dalla progressiva desertificazione o dalla guerra civile verso l’Occidente. Un contesto assolutamente critico nel quale dunque si situa il presente e il futuro anche della nostra terra, nella solidarietà oppure, al contrario, nella refrattarietà ai maggiori riferimenti statuali della scena continentale.

Ci sarebbe da tremare a pensare alla pochezza della classe dirigente sarda, del tutto omologa a quella nazionale italiana, chiamata ad affrontare con la dignità statuale il caos delle borse internazionali e quello degli equilibri militari. Una politica che guardi alla Sardegna e ai suoi bisogni fuori dal sistema di relazioni che, solo, e in un quadro nazionale italiano ed europeo, può darle soggettività e risposta, porterebbe ad annessioni di potenze capitalistiche – non svizzere però, cinesi piuttosto – e ad esposizioni terroristiche senza misura. Fuori dall’orizzonte dei nazionalitari-indipendentisti anche gli interessi prioritari – i cosiddetti valori universali della politica con la P maiuscola –,fuori le grandi questioni oggetto di faticosa legislazione ancora in corso: mi riferisco alla bioetica, al testamento biologico e all’eutanasia, mi riferisco alle nuove forme familiari che sembrano ancora dividere verticalmente la società e il ceto politico e parlamentare ed isolare una Chiesa che va ancora più per dottrina datata che per testimonianza hic et nunc.

E’ stata una delle materie che, anche per la stretta attualità del dibattito civile, o etico-civile, e politico ho voluto trattare con Portoghese. Chiare le sue posizioni:

«Io sono per il riconoscimento dei diritti delle persone, dunque dei cittadini che sono tutti portatori di una uguale dignità, come recita la nostra costituzione, e sono per le tutele delle coppie unite da sentimenti forti – le coppie di fatto –, quali che siano i sessi, e per le tutele delle famiglie che da quelle coppie derivano. Il nostro è uno stato laico ed uno stato democratico, non uno stato ideologico. La legislazione deve regolamentare la realtà sociale in modo tale che il vantaggio di alcuno non comprima il diritto di un altro. Quando noi ci poniamo davanti ai casi concreti, anzi alle persone concrete, in carne ed ossa, con i loro problemi concreti, non possiamo – come stato repubblicano, come legislatori – dare una risposta ideologica. Lo stato deve rispondere, nel concreto, allo spirito della costituzione repubblicana che delinea una società inclusiva e un ordinamento che sostiene questa inclusività. Capisco che tale impostazione ancora confligga con vecchie mentalità e sensibilità, ma questa nostra società del terzo millennio – dico la nostra società occidentale, europea, italiana, ma pari pulsioni si avvertono in tutti i cinque continenti – ha bisogno della libertà come dell’ossigeno per respirare. Per questo sono senz’altro favorevole anche al testamento biologico. Conosco il caso di Walter Piludu: ho avuto la fortuna di lavorare con lui, diversi anni fa, e lo stimo moltissimo. Vorrei che il desiderio suo e della sua famiglia fosse riconosciuto come un diritto suo personale di decidere del proprio destino, secondo le modalità da lui scelte nella triste e dolorosa realtà che egli condivide con la sua famiglia. Così, ripeto, sugli aspetti della cosiddetta etica familiare: mi sembrano bellissime le famiglie allargate se sono poggiate su affetti veri e profondi. Chi mai avrebbe il diritto di sindacare scelte privatissime che poi, io credo, arricchiscano, non impoveriscano,  per la varietà delle esperienze che comportano, il vissuto sociale… Da bambino ricordo quel certo senso di discriminazione che oggettivamente ci allontanava, quasi portandoci a giudicarli, i figli – miei coetanei – di genitori separati… E non dovrei dimenticare di dire che io sono nato nell’anno del referendum sul divorzio. Allora finì press’a poco 60 a 40. Se lo ripetessimo oggi quel referendum, che risultato avremmo? Forse 90 a 10. Se fra due o tre anni ripetessimo qualche sondaggio sulle proposte di legge all’esame o al voto parlamentare, non dico la società, ma le stesse Camere si pronuncerebbero con molta maggiore rilassatezza e lucidità che non in questi tempi».

Una opinione che, pressoché identica e tutta intera, condivido con Guido Portoghese.

Un avo nel risorgimento della patria

Nel tempo ci hanno coinvolto, come dirò, aspetti vari legati nell’antico addirittura al generale Garibaldi e nel moderno al nostro fiero e amato capitano Lussu. Circa Garibaldi, o meglio circa il suo seguito di valorosi in sud America, la figura particolare di Angelo Pigurina – che parrebbe proprio nel filone degli ascendenti del nostro Portoghese –, circa Lussu la varia complessità (e le contraddizioni) delle sue stagioni di vita, tutte compresenti nella considerazione finale dell’uomo e del politico cui è intitolato il circolo pd cagliaritano del quale proprio Portoghese è il segretario.

In un’epoca che si definisce, con parole scontate e penose, della caduta delle ideologie e dell’omologazione dei colori, quasi di prefigurazione del colore unico, o del pensiero unico, piace, o piace a me che sono un modesto azionista asproniano (se la definizione vale a indicare almeno il campo valoriale di riferimento dell’impegno civile e sociale, e anche politico), è stato – lo confesso – particolarmente gradevole trovare in questo giovane ingegnere, formatosi in un’epoca tanto diversa dalla mia, così vivo interesse quasi  in controtendenza rispetto al disincanto o alle distrazioni dei tempi attuali. Mi dice:

«In quanto a Pigurina – il mio avo, o almeno mi piace considerarlo tale (per quel tanto di garibaldino che mi affascina della nostra storia nazionale) – conosco i racconti familiari e anche quanto ha scritto, proprio negli ultimi suoi anni di vita, il professor Orrù: Angelo Portoghese, come si chiamava, era cagliaritano, classe 1812; fu compagno di Garibaldi nella sommossa di Genova del 1834 (mentre Mazzini l’anno precedente aveva tentato la sommossa nella Savoia, e in quel contesto sarebbe da situare la fine del sassarese Efisio Tola, fucilato a Chambery come aderente alla Giovine Italia). Anche Portoghese fu condannato, ma in contumacia, e raggiunse Garibaldi nelle imprese dell’America latina, fra Brasile e Uruguay. Pochi anni fa, un suo discendente – direi un mio… cugino ritrovato – è venuto in Sardegna per ricostruire l’albero genealogico. Si tratta di un prete, don Fernando Pigurina, residente a Salto, a cinquecento chilometri da Montevideo; è lui che possiede un libro inedito – titolo  “Memorie di mi vida” – che il nostro avo scrisse credo in vecchiaia. Pigurina è la versione carioca di “ricciuto”, ricciuto come le pecorelle…».

Il richiamo, attraverso l’evocazione di Portoghese/Pigurina, del nome del professor Orrù, al quale essenzialmente dobbiamo, dopo Bruno Josto Anedda e con Carlino Sole e Maria Corona Corrias, la riscoperta del genio politico di Giorgio Asproni, porta la discussione sul piano delle nostre comuni radici ideali. Dalla democrazia – che non era né liberalismo né socialismo, ma corrente politica che valorizzava il dato civile-istituzionale prima di quello economico, e valorizzava dunque anche le teorizzazioni autonomiste, regionaliste e federaliste – viene la prima formazione di Lussu. Va ricordato: nella fondazione di Giustizia e Libertà, dopo la fuga da Lipari, Lussu fu vissuto come interprete dell’area democratico-repubblicana (non è documentato ma è affermato che negli anni dell’università e prima di partire per la grande guerra egli avesse addirittura militato fra i giovani repubblicani di Cagliari), ritenendosi invece Rosselli e Tarchiani piuttosto espressione dei filoni socialista  e liberale.

Il liberalsocialismo dei maestri

Portoghese: «Questa matrice ideologica di Lussu la richiama lo stesso Giuseppe Fiori ne “Il cavaliere dei rosso-mori”. Quando abbiamo costituito il circolo intitolato a Emilio Lussu, nel quartiere della Marina (da cui ci siamo poi trasferiti a Villanova in via Tempio), abbiamo anche ripassato, con molte letture, la sua storia. Fiori lo dice chiaramente: all’inizio il movimento di Giustizia e Libertà, nell’emigrazione politica antifascista riunita a Parigi, era affidato a un triumvirato: Carlo Rosselli rappresentava il socialismo liberale non marxista, Alberto Tarchiani (che era un giornalista del “Corriere della Sera” e sarebbe diventato nel secondo dopoguerra un importante diplomatico) rappresentava la corrente liberale, Emilio Lussu invece quella “sardista-repubblicana”. Proprio così. Mi rendo conto che queste distinzioni oggi sono poco percepite da quelli della mia generazione, ma pur senza troppi dottrinarismi io credo che averne conoscenza aiuti senz’altro a capire lo sviluppo della nostra storia. Io avevo dieci anni quando morì Berlinguer, venti quando iniziò l’epoca del maggioritario, con l’affermazione delle nuove formazioni come Forza Italia e Alleanza Nazionale e anche la Lega a destra, il PDS che andava verso la riformulazione dei DS a sinistra. Dunque ho qualche memoria, diciamo adolescenziale, della politica italiana che si muoveva ancora per correnti o culture ideali, anche se nella pratica esse si erano purtroppo avvelenate con gli episodi di malgoverno e tangentopoli…».

Chiedo a Portoghese quale sia stata la sua formazione politica, prima degli attuali incarichi.

Risposta: «La mia famiglia è stata sempre di sinistra. Quando cominciai ad occuparmi di politica, essendo chiamato al voto già alle politiche del 1992 – l’anno del mio 18.mo compleanno – ebbi simpatie radicali. Mi piaceva quel modo controcorrente di far politica di uomini come Pannella, mi piaceva anche un certo movimentismo non strutturato. Avevo seguito proprio da ragazzo, al tempo del liceo, le sue battaglie per i diritti civili, il suo impegno referendario, per la democrazia diretta. Maturando poi seppi guardare meglio a quanto si muoveva nella sinistra. Anche per ragioni anagrafiche non sono mai stato nel Partito Comunista, né potrei definirmi di quella scuola politica in senso stretto. Dopo la fine del PCI, i comunisti si erano riconvertiti nel PDS e dopo ancora nei DS, in cui erano confluiti anche esponenti  progressisti che non avrebbero potuto continuare la lotta politica con le loro formazioni, tagliate fuori dalla nuova legge elettorale. Quindi, avendo già messo a fuoco la mia propensione per l’area progressista, che sarà quella dell’Ulivo, nell’Ulivo giunsi frequentando gli ambienti e i dibattiti ora del PDS ora, mi pare dal 1996, dei DS, ora anche della Margherita. Si trattava di formazioni tutte in divenire, costituivano tutte insieme un laboratorio complesso, mai tranquillo, perché si doveva cercare di costruire il nuovo partendo da diversi “luoghi” culturali che avevano avuto ciascuno una propria tradizione. In fondo il PD di oggi, bene o male, costituisce una ripresa e una evoluzione di quei progetti, direi soprattutto del grande cantiere dell’Ulivo».

E quindi nel campo dell’Ulivo vengono anche i primi impegni pubblici?

«Sì, nel 2006 – giusto dieci anni fa – è venuta l’elezione alla circoscrizione n. 1 del centro storico di Cagliari, che riuniva i quattro quartieri di Castello, Stampace, Marina e Villanova-La Vega con in più anche Bonaria. Io avevo, ed ho, una visione della città che superava quella dei particolarismi territoriali. Ricordo che girando per la campagna elettorale se andavo a Stampace o alla Marina mi si obiettiva che la preferenza l’avrebbero data a un candidato locale, non a uno… straniero di Villanova. Ma non è che per questo mi offendessi, capivo anche questo residuo di orgoglio locale, però credevo e credo ancora che l’impegno civico debba guardare sempre all’intero, o al particolare ma nell’ottica dell’intero territorio urbano. E debbo fare una riflessione positiva a questo riguardo: perché nella più recente esperienza compiuta in Consiglio comunale ho visto, tanto più fra i colleghi delle generazioni più giovani, una maggiore consapevolezza di dover rappresentare tutta Cagliari, non il quartiere o il micro-rione di provenienza. Mi sembra un avanzamento di cultura politica, o almeno di cultura civica, questo. Naturalmente non mancano quelli che si sentono o sono sentiti da certe quote di popolazione, e dunque di elettorato, come “il meglio”, i rappresentanti eccellenti degli interessi parziali. Si tratta di un fenomeno credo residuale, in progressivo esaurimento. Ormai tutto fa sistema: non puoi immaginare una città che sia in parte sacrificata e in parte isola felice. La grande sfida della amministrazione, quale che sia in futuro, è quella di pareggiare le opportunità e gli standard civici delle periferie – penso a Pirri in particolare, ma anche ad altri quartieri – a quel che è il centro commerciale naturale, magari anche il centro del passeggio, di Cagliari… Tanto più vale, questo che dico, se pensiamo che stiamo andando verso la nuova realtà della città metropolitana, verso la grande Cagliari, che sarà città pluricentrica e deve vivere di equilibri interni al suo perimetro».

Una tesi storico-urbanistica

Mi aveva raccontato, una volta, Guido Portoghese della sua carriera accademica. E anche quella volta il discorso era caduto sulle periferie cittadine. Recupero adesso alcuni dei suoi argomenti perché mi facilitano il tentativo di definirne meglio il profilo pubblico.

«Figlio di ingegnere – queste press’a poco le sue parole –, mi iscrissi a ingegneria. E’ stato un corso di studi che ho affrontato di buona lena, a parte qualche difficoltà scontata – magari per geometria, oppure per idraulica con il professor Sambiagio, allievo a sua volta del professor Lazzari che è stato un caposcuola. Con il professor Carlo Aymerich e la professoressa Emanuela Abis ho preparato e discusso la tesi di urbanistica sulla possibile riconversione delle volumetrie dell’ex mobilificio di Marino Cao, nella periferia estrema di Villanova, in direzione di Is Stelladas e quindi di Pirri. Con il piano urbanistico vigente è possibile riconvertire quelle volumetrie industriali in pari cubature residenziali, artigianali e commerciali. Quella della tesi è stata, per me, l’occasione per una immersione nella Cagliari del tempo di Bacaredda (il quale, in ultimo, abitava non lontano da lì, avendo casa nella parte finale della via San Giovanni). L’opificio di Marino Cao era fuori scala, era in posizione estranea a quella preferita dalle aziende industriali/commerciali della città, fra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento. Cioè: non il viale San Pietro – l’attuale viale Trieste, partendo proprio dalla piazza del Carmine e inoltrandosi fin verso Sant’Avendrace – ma l’area opposta, appunto quella di Villanova/Is Stelladas. Dove poi andarono, più o meno inoltrate in direzione dell’hinterland agricolo, anche la Vinalcool (nell’attuale via dei

Il nonno Luigi Portoghese, primo a sinistra, nel Terrapieno durante la nevicata del 1937.

Valenzani) e la Zedda-Piras (nella fine del viale Ciusa, presso il cavalcavia dell’asse mediano). Perché quella scelta? Forse Cao, che aveva acquistato la villa dei Vivaldi Pasqua, credette bene di preservare la vicinanza in una logica di casa-lavoro; oppure perché credette di poter meglio valersi dell’opera dei tanti artigiani con laboratorio a Villanova… – c’erano, e in parte ancora ci sono, falegnami e scultori, ferraioli ecc. Comunque ricordo con molto piacere la gran fatica della preparazione della tesi. Lavorai molto sull’archivio storico dell’Unione Sarda, ricostruii attraverso le inserzioni pubblicitarie che uscivano sul giornale, tanto più quelle del capodanno – mi riferisco specialmente al primo decennio del Novecento – la dislocazione delle attività produttive in città, e anche la prevalenza merceologica di questa o quella zona, l’area commerciale nella dorsale via Manno/largo Carlo Felice (non ancora, in quel tempo, la via Garibaldi)… In buona misura si capisce la Cagliari di oggi ripartendo da quella di ieri, ripassandone le trasformazioni, la sequenza dei riordinamenti urbanistici susseguitisi nell’arco di un secolo, tanto più dal secondo dopoguerra in qua. Sì, mi tornarono molto utili quelle pagine ingiallite dell’Unione Sarda, e naturalmente i dati acquisiti dalla Camera di commercio, tutte quelle visure storiche che avevo richiesto…».

Un più antico ascendente finito al palo

Battute che rilanciano il concetto: la storia ci fornisce chiavi interpretative dell’oggi che noi viviamo.

«Tutte le volte che posso – sono ancora parole di Portoghese – divoro i libri di storia, naturalmente soprattutto della nostra storia sarda. Bellissimo quel romanzo storico di Antonello Angioni sulla congiura di Camarassa del 1668. Era passata una decina d’anni dalla fine della terribile pestilenza che aveva ammazzato mezza Sardegna, fino al miracolo di Sant’Efisio. Il marchese di Cea Giacomo di Castelvì aveva ordito l’assassinio del viceré Camarassa servendosi della complicità di alcuni altri nobili sardi, fra cui gli Aymerich, che s’erano detti anch’essi avversari appunto di quel personaggio troppo spagnolo anche con i nomi: don Manuel Gomez de Los Cobos marchese di Camarassa. Fra essi c’era un don Francisco Portugues che aveva le funzioni di “regio salinario civitatis”. Dopo il delitto, inseguito anche lui dal mandato d’arresto, se n’era fuggito nel nord Sardegna, poi in Liguria, a Villafranca, a Nizza, a Costantinopoli, in Corsica. Tre anni dopo era nuovamente nell’isola, a Liscia di Gallura dove però cadde in un agguato e fu giustiziato brutalmente. La sua testa, e anche quella degli altri congiurati, fu portata a Cagliari e piazzata in vista per diciassette anni nella torre dell’Elefante, ad ammonimento di ogni… testa calda. Storia tremenda… Dunque anche Francisco Portugues e la sua dinastia di cui scrivono anche Francesco Floris e Sergio Serra in “Storia della nobiltà in Sardegna” riferendo di una certa baronia di Posada nel Seicento, dovrebbero essere nell’albero genealogico del quale sono oggi l’ultimo modestissimo frutto. Chissà. Intendiamoci: non cerco benemerenze fra i congiurati antispagnoli di quattrocento anni fa, non cerco distintivi, voglio soltanto dire che forse abbiamo tutti quanti il desiderio di conoscere da dove veniamo: e se non c’è certezza c’è probabilità o verosimiglianza… e, in difetto del meglio, ci accontentiamo. E se mitizziamo sentimentalmente qualche avo… non è certamente cosa che faccia male a nessuno. Invece so più precisamente, per dire dei Portoghese e di Cagliari, delle ultime quattro generazioni, direi borghesi e per niente aristocratiche: non so come, ma ad un certo punto i Portoghese debbono essersi divisi in due grandi filoni, quello che si è poi radicato nel Villaggio Pescatori, attorno a navigli ed attività pescherecce e a commerci ittici, e quello mio, che si impiantò cento anni fa a Villanova-La Vega. Mio bisnonno paterno Raffaele era un impresario edile, che ha costruito molto, negli anni che forse erano ancora di Bacaredda o subito dopo, fra La Vega e Is Stelladas, nelle attuali vie Liguria, Lombardia ecc. Poi è venuto mio nonno Luigi, classe 1912, morto appena quindici anni fa: egli continuò l’attività paterna, ma negli anni ’50, proprio quando l’edilizia aveva ripreso alla grande a Cagliari per ricostruire la città dalle devastazioni dei bombardamenti, preferì ritirarsi, affermando chissà perché che non c’era futuro per l’edilizia! ed entrò nell’organico municipale come tecnico della vigilanza edilizia. Forse era allora sindaco Pietro Leo. Mio padre Pierpaolo  noto Cicci lo ha seguito come dipendente comunale. Per molti anni ha diretto l’ufficio urbanistico. Direi che per me il municipio è un luogo familiare, almeno sul piano ideale. Naturalmente io ci sono arrivato grazie alla conta elettorale, con la democrazia cioè, non con… la lobby ipotetica dei dipendenti comunali».

Storie di famiglia e di città

Cento anni familiari tutti quanti legati sempre al quartiere di Villanova?

«Direi di sì, anche per parte di madre, se è vero che mio nonno nativo di Serrenti, ma marmillese di adozione – Raffaele Onnis (nella  FOTO, a fianco a sinistra, Mogoro, 1923), che era stato appaltatore delle imposte e tesoriere di alcuni comuni intorno d Ales e a Cagliari – si trasferì, nel secondo dopoguerra, a Cagliari, acquistando un vecchio rudere di via Ozieri. Lo rimise su, è diventata casa nostra. E peraltro la vita del quartiere è stata, direi che è ancora, la mia. Sono legatissimo a tutte le manifestazioni popolari e religiose che vedono protagoniste le arciconfraternite della Solitudine e del SS. Crocifisso di San Giacomo con i loro riti della settimana santa e la mobilitazione di decine e decine di cantori. Anzi, fu in un locale di proprietà di mio bisnonno Raffaele Portoghese, in via Giardini per la precisione, che le confraternite iniziarono a provare i loro canti di lutto prima della Pasqua».

L’associazionismo religioso, di cui le confraternite di diritto diocesano o le arci di diritto pontificio, sono la punta avanzata, sembrano saldare l’ieri e l’oggi della città, della sua anima popolare. E’ così?

«E’ senz’altro così, ma è anche di più. L’ho visto proprio in questi anni di rappresentanza in municipio: potrei fare il discorso di organizzazioni come la Confesercenti, ma potrei dire anche delle stesse confraternite che portano avanti dei processi virtuosi di amalgama sociale, danno ai quartieri e alla città nel suo complesso un supplemento morale e sentimentale. In generale io credo molto all’associazionismo. In America la democrazia si fonda sull’associazionismo che lì è storicamente avanzatissimo. Anche da noi, modestamente, nella città che aveva abbattuto le sue mura secolari, soprattutto quelle interne, proprio alla vigilia della lunga sindacatura di Ottone Bacaredda, l’associazionismo funzionò come elemento di rottura degli isolamenti rionali, favorendo la mobilità interna. I soci di questo o quel circolo patriottico o professionale, di questa o quella sezione politica o di questa o quella lega di mestiere o sindacato, di questo o quel sodalizio culturale o sportivo che aveva sede in un certo punto della città, dovevano raggiungere la loro sede sociale attraversando molto spesso tutte le direttrici e anche questo favorì la maturazione di un senso cittadino più complessivo. Il che non significava rinunciare al proprio legittimo orgoglio di quartiere, ma con questo cercava di bilanciarsi. Certamente oggi, nel tempo dell’informatica e dell’web, la situazione è diversa, la percezione delle distanze è tutt’altra che un tempo».

Dai padri della Missione al liceo Pacinotti

Dinamiche economiche e demografiche, mobilità fisica e mobilità sociale. Come vede cambiata la città un consigliere comunale che è da cinque anni impegnato nella rappresentanza ma anche, sul lato dell’assemblea e delle sue commissioni, nel governo della città? E’ possibile ripassare nei grandi scenari raccontando di sé, delle proprie esperienze di vita personale, dalle prime formative?

«Certamente. Se ripenso a me stesso, alla mia biografia, debbo collocarmi nella città degli anni ’70 e dei primi ’80, relativamente alla scuola: le elementari e poi anche le medie – otto anni in tutto – le ho frequentate dai lazzaristi, cioè dai padri vincenziani cosiddetti della Missione, una famiglia religiosa presente a Cagliari da un secolo almeno. Una offerta pedagogica e formativa di primissima qualità, la loro. E’ stata una struttura accogliente, gli insegnanti erano capaci, avevano una cultura larga e al passo con i tempi. Si ammetteva, quando da bambini ci mostravamo troppo irrequieti, qualche scappellotto correttivo e non abusivo. Ricordo fra i molti un piemontese, padre Eugenio Pomato; ricordo anche un diacono che di nome faceva Luigi Ursic, slavo, chiamato da tutti, curiosamente, “padre fratello”: a lui competeva tenere la disciplina nel doposcuola, nelle attività ricreative. Io sono credente, la formazione che ho ricevuto in ambienti religiosi, e la frequentazione di sacerdoti e parrocchie o associazioni è stata molto arricchente. Per mia fortuna non ho vissuto le lacerazioni che in tempi più lontani qualcuno ha sofferto per le intrusioni eccessive degli uomini di Chiesa nelle cose della politica. Posso dire che io non ho conosciuto la forzatura della unità politica dei cattolici, che costituiva una anomalia in Europa. Per fatto puramente generazionale ho conosciuto formazioni politiche in cui laici agnostici e laici credenti più o meno praticanti hanno convissuto benissimo…».

In questo quadro saremmo autorizzati, mi pare, a citare anche il nome di don Cugusi, premiato dal Consiglio comunale ora sono quasi tre anni fa per le fatiche trentennali alla Marina, e anche per i tanti risultati.

«E’ sicuro. Sono un estimatore di don Mario, e molti miei amici della Marina che ne hanno seguito l’attività direi giorno per giorno sono buoni testimoni. Direi che se è vero che il sindaco Zedda non ha voluto assumere in proprio l’iniziativa del riconoscimento civico per i mille meriti “laici” – questo fu chiaro fin dall’inizio, nessuno voleva entrare in questioni o polemiche di Chiesa –, meriti che don Cugusi ha avuto come parroco di Sant’Eulalia, debbo dire che da un certo punto di vista, paradossalmente, la cosa mi ha fatto piacere, perché così ho avuto spazio io insieme con il collega e amico Enrico Lobina: abbiamo raccolto la proposta venuta al Comune e l’abbiamo gestita coinvolgendo tutti i consiglieri di maggioranza e di opposizione. Così come ho fatto poi l’anno successivo per don Angel Fernandez Artime, quando gli amici della famiglia salesiana di Cagliari, soprattutto gli ex allievi con Andrea Giulio Pirastu e altri, mi avevano chiesto di promuovere in Consiglio la delibera del conferimento della cittadinanza onoraria al rettor maggiore. Io sono convinto che, all’interno di un ordinamento laico, assolutamente laico anche a livello municipale, le sensibilità e le sollecitazioni dell’anima religiosa della popolazione consentano un arricchimento di tutti, dico proprio di tutti. Abbiamo fatto bene a concedere quella cittadinanza onoraria al successore di don Bosco per i cento anni di presenza salesiana a Cagliari. Sono contento di aver personalmente sostenuto tanto in commissione quanto in aula quella delibera, e di essere anche intervenuto, con veste ufficiale, il giorno della visita di don Artime in municipio».

Riprendendo il cursus honorum. Cosa c’è stato dopo le medie dai preti della Missione?

«Poi è venuto il liceo scientifico, il Pacinotti, un nome che dice molto. Non soltanto per la storia della scuola, direi per il nome stesso del titolare: Pacinotti fu insegnante di fisica all’università di Cagliari alla fine dell’Ottocento e per una decina d’anni. Fece addirittura famiglia con una nostra concittadina cagliaritana e mantenne rapporti con la città anche dopo il trasferimento a Pisa. Veramente un grande nome delle scienze in Italia, inventore della dinamo. Cinque anni al Pacinotti nella nuova sede di via Liguria. Quindicenne, diciottenne vivevo la vita di tutti i miei coetanei, a cavallo fra anni ’80 e anni ’90. In politica – che allora seguivo naturalmente come poteva un adolescente – quelli erano gli anni di De Mita e di Craxi, di Andreotti, dei democristiani e dei socialisti stretti in un patto di potere ma anche conflittuali fra loro. Erano anche gli anni della crisi del comunismo internazionale e anche italiano, con il protagonismo di Gorbaciov e la caduta del muro di Berlino. Nella società italiana erano gli anni ancora del terrorismo politico, che però andava spegnendosi, e del terrorismo mafioso che invece riprendeva quota, ripenso a Falcone e Borsellino e alla strage del 1992. Si discuteva a scuola di quanto accadeva fuori, evidentemente, ma – dico almeno la mia classe – eravamo anche abbastanza disciplinati e in regola con i doveri dello studio. Ricordo con una particolare gratitudine la professoressa Maria Broccia, che insegnava materie scientifiche, dalla chimica alla biologia, alla geografia astronomica. Era molto severa, ma era ammirevole per la passione che metteva nel far lezione, per la sua capacità formativa. Un altro ricordo di particolare simpatia ce l’ho per il professore di disegno Giancarlo Buffa, molto conosciuto in città anche fuori della scuola: una personalità brillante, era coltissimo ed eclettico. Naturalmente non potrei mancare , facendo adesso l’appello della memoria, di citare il mio compagno di banco: insieme per cinque anni, veniva da Serramanna tutti i giorni col treno, Nicola Curreli. Ci siamo frequentati anche all’università, perché è diventato anche lui ingegnere. Siamo rimasti amici. E’ bellissimo restare amici passando insieme le diverse età della vita, bambini o ragazzi, poi giovanotti universitari, poi professionisti all’esordio, poi nella maturità e nella varietà delle esperienze personali e sociali, magari anche politiche come nel mio caso…».

Essere giovane a Cagliari alla vigilia del terzo millennio

Mi sembra intrigante, non invadente però, chiedere a Portoghese di raccontarmi dei suoi vent’anni, la bella età nell’ultimo decennio del Novecento. Certamente per il fatto in sé, molto per la testimonianza che egli può rendere di una generazione che oggi è largamente rappresentata sui banchi del Consiglio comunale.

«Vent’anni? Pertini parlava di sé come di un quattro volte ventenne, io più modestamente posso oggi parlare di me come di un due volte ventenne. E ripenso a quell’età, che dunque non è così lontana e non ha certamente gli eroismi di cui poteva vantarsi, con piena legittimazione, Sandro Pertini, non tanto con un sentimento di nostalgia perché mi sembra di vivere oggi la continuità di quelle esperienze. Le mie amicizie più salde e profonde sono quelle stesse di allora, certe passioni – letture, cinematografo, gite per siti archeologici, sport, ecc.  – sono anch’esse le stesse di allora, naturalmente filtrate da una maturità diversa. Sono stato un giovane che, per evidente input educativo in casa, si è dato in primo luogo allo studio scolastico o universitario, ma integrando questo impegno con tutte quelle altre attività che in sé erano formative al pari dello studio, dalle frequentazioni personali alle libere letture, allo sport e al divertimento. Le amicizie sopra tutto: ho un fratello, e rapporti fraterni ho conservato dall’adolescenza con Giulio Costa Marras e Gianluca Zedda, per dirne adesso soltanto due ben noti a Cagliari. In continuità con quegli anni, anche se ovviamente con ritmo diverso, è la pratica sportiva. Mi riferisco al tennis – per moltissimi anni ho frequentato i campi del tennis club a Monte Urpinu – e mi riferisco anche al calcetto, al calcio a 5. Con altri amici ho addirittura messo su una squadra che, qualche anno fa, si è segnalata nella serie C regionale. Qualche gloria meritata nei campi di via Newton… Da tifoso ovviamente sono stato sempre con il Cagliari. Sono nato nel mito di Gigi Riva, quattro anni dopo la conquista dello scudetto, due anni prima della rinuncia di Riva a proseguire nell’attività agonistica, dopo quegli infortuni terribili. Crescendo e ascoltando la “favola” della squadra campione d’Italia, leggendo moltissimo, forse tutto, del Cagliari d’oro e vedendo anche tanti VHS, tante registrazioni delle partite di quegli anni, ho imparato a conoscere ed ho ammirato anche i talenti di calciatori come Domenghini e Cera, di uomini che faticavano, sputavano l’anima per contribuire al risultato».

Lo sport è formativo, lo credo anch’io moltissimo. Non soltanto quello praticato – se lo si sa vivere e interpretare per quel che rappresenta, come mix di talento individuale e di coralità ora di squadra ora anche soltanto di sigla – , ma pure quello tifato, per la condivisione di una stessa emozione da vivere sempre in positivo. E’ giusto?

«Il discorso, per quanto mi riguarda, lo imposterei così, riferendomi adesso al calcio: a parte il Cagliari che è un amore fuori controllo, da accettare e basta, io ho sempre ammirato le squadre del bel gioco, dico le squadre proprio pensando al collettivo: così la Juventus di Trapattoni e Platini o quella di Baggio e Del Piero, il Milan di Sacchi e dei tre olandesi Rijkaard – Van Basten – Gullit, l’Inter di Mourinho, e così via. Nel tennis lo stesso, pur se sotto altri aspetti: perché mentre ovviamente c’era da fare tanto di cappello a un fuoriclasse come  Bjorn Borg, la mia ammirazione spontanea era per uno come Mats Vilander, perché l’eccellenza non era data tanto da un talento naturale, che pure c’era, ma soprattutto da un impegno che era da manuale. Così direi di Edberg, di Beker, di McEnroe. Amavo e amo sempre i faticatori, i campioni della fatica, non i prim’attori, diciamo un mediano come Oriali celebrato anche da Ligabue. Perché questo? In questi sportivi vedevo il campione che veniva fuori dalla normalità affinata dalla diligenza, dall’impegno costante e paziente. Persone normali capaci di raggiungere il risultato giocandosi tutte le possibilità: allenamento, allenamento, fatica, pensiero positivo. Praticando anch’io, nel mio piccolo, attività agonistica, cercavo forse un modello, non potendo contare su doti fisiche straordinarie».

Cos’altro entrava negli interessi dei ventenni cagliaritani negli anni ’90?

“Dei ventenni cagliaritani in generale non so, nei miei e dei miei amici entravano le letture senz’altro, e i viaggi: dico i viaggi lontano dalla Sardegna e nel cuore, o nei tanti cuori della Sardegna… Sulle letture direi questo: a casa mia la biblioteca messa su dai miei genitori era invitante, ricca di titoli i più vari, ed io potevo attingere liberamente. Naturalmente sono partito dalla letteratura per ragazzi, facile immaginare Verne, Salgari, Livingston. E poi, certamente per suggestioni anche scolastiche, ho aggiunto qualche classico: Molière e Goldoni con il loro teatro, anche Italo Svevo per dire di un italiano più difficile… I nomi di Molière e Goldoni mi riportano alla passione per la prosa e anche ad una certa attività teatrale che ho curato per diverso tempo – qui siamo però già verso la trentina. Ho frequentato, a Cagliari, un laboratorio teatrale allestito da Massimo Zordan, allievo fra i migliori di Dario Fo. Era un laboratorio comico».

E il cinema?

«La preferenza assoluta è andata sempre, già da ragazzo, a Gian Maria Volonté in qualsiasi ruolo egli abbia ricoperto: comico o drammatico. Era eclettico, un trasformista geniale, dal cattivo di “Per un pugno di dollari” al Moro di “Il caso Moro” ma anche di “Todo Modo”, alle parti di protagonista in “Il caso Mattei” o in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, in “Sacco e Vanzetti”, in cui interpretava la figura di Nicola Sacco, o in “Cristo si è fermato a Eboli”. Sono film quasi tutti girati prima che io nascessi – adesso penso anche all’”Armata Brancaleone” e al suo ruolo di Teofilatto dei Leonzi, oppure a “Uomini contro”, ispirato a “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu… Quindi Volonté, e il Volonté diretto da Elio Petri in particolare, ma anche da Monicelli, da Montaldo, da Francesco Rosi, è stato un mito per me sempre. La cinematografia mi ha sempre appassionato, ho anche una discreta collezione di film in dvd. Conosco abbastanza le produzioni nostre italiane e anche quelle estere. Preferisco registi come Dino Risi e, oggi, Tornatore. Mi piacciono molto le pellicole di Tarantino, quelle dei fratelli Coen, che ormai hanno collezionato un bel po’ di premi Oscar. Aggiungerei, perché è una scoperta più recente, il nome di Emir Kusturica, bosniaco di Sarajevo. Ha diretto o sceneggiato film che sono dei gioielli. Vedere per credere».

Allarghiamo il giro: i viaggi.

«Ho avuto la fortuna di combinare bene le attività in compagnia a quelle che invece ho potuto condurre da solo. Bisogna imparare a star bene anche da soli. I viaggi fuori regione e anche fuori Italia sono quelli che ho sempre fatto con gli amici o con la fidanzata. Non mi sono fatto mancare nulla: la Spagna, la Francia, l’est europeo, credo tutte le capitali slave, da Belgrado a Budapest a Praga, alle coste del mar Nero. Viaggiare aiuta a capire il mondo, a relativizzare se stessi e il proprio territorio, la propria gente, aiuta a vedere il mondo come un sistema di culture ideali e materiali. Prendi la macchina e da Cagliari sei a Porto Torres, da lì con il traghetto sei a Genova e via per le strade di tutto il continente, libero di andare dove vuoi… Invece in Sardegna i miei viaggi sono avvenuti diciamo metà e metà, metà in compagnia – da ragazzo con la famiglia, che mi ha trasmesso questo gusto di andare per paesi dell’interno, per zone rurali, per zone costiere, da grande con la fidanzata o gli amici – e metà da solo, magari alla scoperta di località naturali, boschive o marine, spesso archeologiche. Ho avuto per qualche tempo anche un interesse venatorio, ma la natura l’ho vissuta prevalentemente per le suggestioni archeologiche dei territori. Si sente la magia, un tanto di ancestrale, cioè l’atmosfera che ti ricollega agli antichi, alla storia vissuta nelle ere più lontane dai progenitori. La Sardegna è ancora un tesoro in larga parte inesplorato, secondo me. E dirò una cosa forse politicamente scorretta, ma così la sento: certa disorganizzazione che penalizza indubbiamente l’industria turistica è una fortuna per quelli che coltivano il piacere della ricerca e della scoperta. Arrivano ai luoghi non indirizzati dai cartelli ma per intuito, per speciali sensibilità… Quanti siti sono abbandonati e presentano oggi i segni non dell’intervento dell’ archeologo, ma soltanto del tempo. Certo non è che possiamo lasciare così ruderi e vestigia che so, nuragiche o romane, ma pure è straordinario affaticarsi nella ricerca e nella scoperta… Tutto deve avvenire nella lentezza e nel silenzio della perlustrazione, come un rito religioso. Alcune volte ho coinvolto in queste visite degli amici di fuori: anche per loro è stato tutto magico».

L’esordio professionale e quello politico-amministrativo

Dell’università abbiamo parlato: da lì è venuto il passaggio nel mondo della professione. Difficoltà? «Ovviamente, ma sempre pensiero positivo. Mi sono laureato regolarmente a 25 anni, nel 1999, in ingegneria civile edile. Al solito, esame di stato, iscrizione all’ordine, primi progetti, ecc. Naturalmente sapevo bene che dovevo affinare la mia preparazione dopo la laurea, per questo ho frequentato e conseguito il master in informatica e direzione aziendale presso il CIFRA, cioè il Consorzio per l’Informatica, Formazione e Ricerca avanzata. Sono libero professionista dal 2002. Ho orientato finora il mio studio, che procede valendosi anche di alcuni bravissimi collaboratori e che mi alleggerisce quando le attività consiliari e di commissione mi impegnano più del previsto, sulle progettazioni architettoniche e urbanistiche. Il mio è un lavoro che direi creativo e che appassiona perché ti obbliga alla concretezza, alle scelte realistiche, a tener conto anche del contesto che è come è e non come vorresti che fosse (penso anche alla burocrazia e a certe normative non tutte chiare e coerenti): così vai dalla ricerca del finanziamento alla stesura e alla messa in atto del progetto, al calcolo delle strutture in cemento armato, alla direzione dei lavori, agli adempimenti in materia di sicurezza, all’assistenza dopo la fine dei lavori e al collaudo. Mi sono creato anch’io, naturalmente, un sito internet, e lì mi sono raccontato, anche sul piano professionale, non soltanto su quello politico-amministrativo – campi che non vanno confusi, ognuno ha la sua autonomia, anche se è vero che l’esperienza maturata in un campo torna utile a quella in corso nell’altro… Ho lavorato molto in questi primi dodici-quindici anni di professione, studi, progetti, opere…».

Opere realizzate a Cagliari o dove?

«Anche a Villanova, nel mio quartiere: restauro conservativo di due palazzine storiche. Anche fuori Cagliari, nel medio Campidano, e pure qui studio nella progettazione e passione per il lavoro, ma passione anche come sardo! hanno fatto miscela virtuosa: perché per realizzare un complesso edilizio da adibire a vetrina espositiva di prodotti agroalimentari e artigianali, ho dovuto e voluto combinare tecnologie e materiali tradizionali del luogo: trachite e ladiri, cioè i mattoni di terra cruda che sono cosa nota ai secoli della Sardegna rurale. Citerei anche un lavoro che mi ha impegnato molto in Marmilla, precisamente a Pauli Arbarei: si è trattato di recuperare un antico edificio in pietra portatore di un certo pregio architettonico da rispettare integralmente… Insomma tutto dentro le coordinate della nostra storia. La creatività del professionista messa al servizio di una causa che ha anche una sostanza culturale e morale: salvaguardare il meglio del passato rendendolo attuale e necessario nell’oggi».

Siamo partiti dicendo delle ascendenze ideali, non soltanto di quelle di sangue. Veniamo all’oggi. Sarebbe bello capire quanto formazione ed esperienze di studio e di lavoro si siano rivelate utili nel concreto della pratica politica in Consiglio.

«Quando ho preparato il mio sito mi sono posto il problema se andare per slogan o raccontarmi, sia pure in pillole. Ho scelto la seconda opzione, ed ho scritto testualmente: “Sono stato eletto Consigliere Comunale per il Partito Democratico. Attualmente ricopro il ruolo di Presidente della Commissione Trasporti e sono membro delle Commissioni Urbanistica e Affari Generali. La politica è sempre stata una mia grande passione; fin da ragazzo, infatti, avevo il desiderio di far crescere la mia città progettando qualcosa di importante. Per questo sono diventato un Ingegnere Civile…”. Già da consigliere di circoscrizione – allora ci riunivamo in via San Domenico, era nostro presidente Gianfranco Carboni – mi ero battuto, come presidente della commissione Lavori Pubblici, per la pedonalizzazione di diverse aree cittadine, fra cui la piazza Palazzo a Castello, alcune zone di Villanova, certe strade commerciali del centro. Ho imparato, come hanno imparato anche gli altri colleghi alla loro prima consigliatura, che ogni buona idea deve dialogare, realisticamente, con le regole procedurali, dunque con i tempi tecnici e la fattibilità tecnico-amministrativa… Questo se vogliamo essere efficaci veramente, e non tribuni declamatori… Fare amministrazione significa anche fare esercizio di pazienza. Ma alla fine i risultati vengono. Io credo di aver dato, in questi anni, qualche buon contributo, ed ho trovato sempre attenzione e collaborazione, lealtà e competenza negli uffici a tutti i livelli. Ho partecipato credo utilmente alla definizione del piano di utilizzo della spiaggia del Poetto e del piano particolareggiato del centro storico, alla crescita del servizio di trasporto pubblico sia CTM che MetroCagliari, e all’avvio della sperimentazione del servizio di car sharing, assolutamente una novità per Cagliari. Molte energie, sia perché ci credevo sia perché rientrava anche in certe competenze tecniche che credo di possedere, le ho spese per migliorare la manutenzione di strade e marciapiedi, per recuperare spazi pubblici abbandonati, per riqualificare piazze lasciate all’incuria e invece da convertire in luoghi di sosta accogliente con verde e panchine… Vedremo fra breve belle cose sia in piazza Gramsci che in piazza Garibaldi… Abbiamo avuto la possibilità di ammirare i marciapiedi del largo Carlo Felice o del viale Regina Margherita, la nuova pavimentazione della via Garibaldi, ecc. E nessuno potrebbe negare le difficoltà tecniche che si sono opposte o si oppongono a certi interventi. Naturalmente, oltre alla buona amministrazione del corrente, dobbiamo operare un salto di qualità netto soprattutto nella realizzazione delle infrastrutture di trasporto, combinando fra loro vettori diversi, basti pensare ai collegamenti, attraverso i vagoni della metropolitana di superficie, dall’hinterland – magari dal Policlinico universitario di Monserrato – al porto, o addirittura all’aeroporto, o alle linee ferroviarie che vanno verso il settentrione isolano… Insomma dobbiamo ancora lavorare su questa opera che ha i tratti della infrastruttura strategica a valenza regionale».

Cagliari nuovamente “en marche”

I cantieri sono dappertutto, sono fastidiosi ma danno anche speranze (speriamo non illusioni) di miglioramento. Cambia la città?

«Un’idea concreta di quel che vorremmo realizzare ce lo dà quel che abbiamo fatto. Ho appena fatto un rapido elenco. Potrei riferirmi alla trasformazione radicale dell’area del Poetto. La spiaggia dei centomila, si è detto tante volte. Certamente il Poetto di un tempo – mi riferisco alla spiaggia, alla sabbia – forse non lo riavremo più. A voltar pagina, in peggio, hanno contribuito fattori naturali – come le correnti marine e il vento – e malaccorti interventi dell’uomo, dico anche degli amministratori degli anni ’90 e 2000. Però il riordino, sia fisico che normativo, dei baretti e di tutta l’area viaria che fiancheggia per tutta la sua lunghezza la spiaggia, quello è opera nostra. Naturalmente sappiamo tutti che per le grandi opere i tempi di realizzazione che seguono quelli di progettazione sono tempi lunghi, e sappiamo che ogni amministrazione raccoglie dalla precedente, così come imposta e trasmette a sua volta a chi verrà poi…  Naturalmente non si tratta però neppure di una eredità che si passa e si prende acriticamente. No, si vaglia, si conferma quel che si può e si deve, si modifica e possibilmente si ferma quel che non merita. Noi siamo stati contrari da sempre al cosiddetto tunnel sotto la carreggiata della via Roma – opera velleitaria, costosissima e di difficilissima realizzazione (si sarebbe lavorato dentro l’acqua! e a rischio continuo di stop per probabili ritrovamenti archeologici e di ordigni bellici) –, abbiamo pensato ad altre soluzioni limitative del traffico, ma direi meglio riformulative delle mobilità. La via Roma diventerà effettivamente una grande piazza sul mare, e ad attraversarla – pedoni a parte – saranno soltanto i mezzi di servizio e la linea della metropolitana. Dobbiamo insistere sul trasporto pubblico, la cui efficienza significa miglior qualità della vita di una comunità residente. Oggi il nostro CTM ha raggiunto dignità di eccellenza riconoscibili a livello addirittura europeo! Penso al sistema complessivo, penso però anche a qualche particolarità, a quanto è stato fatto ad esempio con la linea 7 che collega Castello con la Marina e Villanova, alla linea che collega i mercati civici di San Benedetto e Santa Chiara… Dobbiamo puntare sempre più alla mobilità elettrica, quella che fa a meno dei combustibili fossili e va con energia più pulita».

Poteri occulti, una formula che regge ancora?

Troppe volte mi sono occupato di Massoneria e società politica a Cagliari nei tempi remoti postunitari, poi bacareddiani, poi ancora negli anni più prossimi, per non concedermi di trattarne anche con Portoghese in quanto consigliere comunale e presidente di commissione. Glielo dico riassumendo il precorso: uno dei temi che ha appassionato, a mio parere senza speciale merito, certa cronaca locale è stato quello della vera o presunta pressione lobbistica delle logge sull’amministrazione. Vi fu la denuncia di ipotizzati e indebiti assedi, che fu espressione di certe paure riterrei puramente ideologiche del sindaco De Magistris, nell’autunno 1986. Vi fu l’ondata di interviste, in verità con poca cronaca dei fatti, giusto sette anni dopo, quando furono pubblicate le liste degli aderenti alle logge, peraltro pasticciando molto. E ancora dopo furono rilanciate queste stesse liste, sempre più obsolete e senza senso alcuno, per fare spettacolo.  Ma è davvero ipotizzabile che in Sardegna e specialmente a Cagliari la Massoneria costituisca un pericolo pubblico?

«Dobbiamo intenderci, a mio parere, quando trattiamo di questa materia. Oggi anno 2016 tutto il carico di dottrina che entrava nella polemica storica fra clericali e anticlericali è caduta: il nostro è un tempo molto disincantato, dal punto di vista degli interessi culturali-valoriali come erano avvertiti un secolo fa o ancora cinquant’anni fa. La politica lo dimostra ogni giorno, così la vita dei partiti. Dunque resterebbe, a dire di possibili sollecitazioni tentate e subite o non subite dalla pubblica amministrazione o anche dalle istituzioni rappresentative, il dato puramente venale, dell’interesse materiale ed economico. E’ indubbio che, coalizzati o meno, i soggetti della società cosiddetta civile e della società economica, dell’impresa, delle categorie professionali, dell’università, ecc. esercitino pressioni: ma tutto rientra, mi pare, nella dialettica fisiologica di una democrazia che dà spazio a tutti gli attori per quello che sono e che rappresentano. La Massoneria, per quanto tutti ne conosciamo, è un sodalizio per sua natura trasversale  e quindi mi parrebbe difficile capire in quale modo possa dar corpo a un interesse forte unitario. Direi che la Massoneria in quanto tale non è interlocutore né ufficiale né ufficioso della rappresentanza o della amministrazione. I singoli aderenti, proprio  in quanto singoli, sono cittadini come gli altri, e portano le loro ragioni nella stessa misura in cui le portano gli altri cittadini. Se è sport nazionale la dietrologia, faremmo un passo in avanti provocando una più piena trasparenza, nel senso che se interventi amministrativi siano ritenuti sbagliati ai fini dell’interesse generale, gli agenti del controllo – la stampa sul piano civico, l’opposizione sul piano istituzionale – segnalino, denuncino, documentino. Tutto qui. L’interesse generale deve sempre essere sopra tutto».

Tutto qui?

«Cos’altro potrei aggiungere? In una democrazia matura abbiamo pesi e contrappesi, abbiamo la dialettica politica e la minoranza che controlla la maggioranza e la giunta, abbiamo una gamma vastissima di soggetti che, riguardo a un appalto, a una carriera, a un qualsiasi provvedimento di spesa, ecc.  – può dire la sua, presentare ricorsi, bloccare o revocare un atto amministrativo. Non mi riferisco agli aspetti penali, perché lì è affare di magistratura, dico soltanto di quanto può essere lecito ma inopportuno, distante dall’interesse generale.  E allora ecco l’importanza dell’opinione pubblica, dei soggetti che sono portatori di interessi contrastanti e possono richiedere di far luce su passaggi  ritenuti opachi».

La Massoneria ha avuto una bella partecipazione alla vita del Municipio di Cagliari. Ho fatto molte ricerche, ho schedato anche, per memoria storica, i nominativi di oltre trenta fra consiglieri comunali e anche provinciali e assessori nel periodo dei Cocco Ortu e dei Bacaredda che tanto ci appassiona perché segna la modernizzazione di Cagliari. Forse a leggere anche soltanto gli elenchi delle delibere amministrative firmate da questi consiglieri e assessori che pure frequentavano la loggia, io credo avrebbero motivo di compiacersi i discendenti e i sodali più che dispiacersi gli avversari per partito preso.

«Ho letto molti testi che trattano di Cagliari nel passaggio di secolo, al tempo delle amministrazioni prima dei coccortiani poi dei bacareddiani, e dei sindaci come Picinelli,Marcello, Nobilioni, Dessì Deliperi, che guidò l’ultima giunta prima del commissariamento fascista e la prima dopo la caduta del regime fra 1943 e 1944. Capisco bene che una delle chiavi di lettura di quella parte di storia può essere quella ideologica, come potrebbe essere quella strettamente politica, mettiamo socialista – le battaglie per le case operaie e il superamento dello scandalo dei sottani prima della costituzione dello IACP nel 1908 –, o quella del notabilato liberale. Forse il Comune potrebbe fare qualcosa per favorire e diffondere la conoscenza della storia cittadina… Per pura casualità, la consigliatura che inizierà prestissimo con le elezioni già convocate, si concluderà  proprio nell’anno centenario della morte di Ottone Bacaredda, avvenuta appunto nel 1921. Nel cinquantesimo il Comune pubblicò un bel libro affidandolo alla penna di uomini come Francesco Alziator, Giuseppe Della Maria, Paolo De Magistris, Lino Salis e Nicola Valle, ciascuno chiamato ad illustrare un aspetto della ricca personalità di chi fu insieme sindaco e giurista (come avvocato e professore di diritto commerciale all’università) e letterato autore di novelle e testi teatrali. Ecco, si diceva di appartenenze ideologiche secondo le categorie del tempo che fu. In quel team di autori chiamati dal Comune a onorare la memoria di Bacaredda convivevano cattolici e massoni, tolleranti gli uni, tolleranti gli altri. E il libro venutone fuori è bellissimo. Di Bacaredda stesso si disse al tempo che fosse stato iniziato alla Massoneria, forse durante una sua permanenza giovanile in continente. Non so se la cosa risponda al vero, ma certo è che in quanto uomo politico di estrazione liberale egli collaborò, in momenti diversi, con tutta la migliore platea della rappresentanza. Quando poté convergere su alcuni programmi puramente amministrativi collaborò con la parte moderata del Consiglio,anche con Sanjust capo del partito clericale,  in altre circostanze con la parte più avanzata. La città si modernizzò, e in quei trent’anni aumentò del cinquanta per cento la sua popolazione dotandosi dei servizi pubblici propri della modernità».

Condivido molto. E colgo l’occasione per ricordare a Portoghese consigliere comunale e amante della storia civica quanto già vanamente ho segnalato al Municipio tante volte: che la via Francesco Todde, a San Benedetto, onora chi non è esistito, perché si sarebbe dovuto scrivere Giuseppe Todde, rettore dell’università a fine Ottocento. E anche che la datazione 1911 sulla base di pietra che regge il busto di Verdi in piazza Matteotti va corretta anticipandola al 1901, come era prima della guerra ed è documentato dalle fotografie dell’epoca. E altresì che la lapide sul bastione del Balice che avverte dov’era la casa natale di Giuseppe Dessì è illeggibile. Al tempo del sindaco Floris avevo offerto io al Municipio di pagare la tinta per ripassare l’incisione del marmo. La risposta arrivò dopo tre anni: fermo cittadino! provvediamo noi. A proposito: allora avevo anche donato ai cinquanta fra consiglieri e assessori un libro biografico su Cesare Pintus, nel centenario della nascita. Un libro pagato interamente di tasca. Ringraziarono in due: Farris e Comandini.

Rinnovo al Comune, per il tramite del suo consigliere civico, l’invito a qualche pur marginale revisione o almeno integrazione della toponomastica: perché mentre sono celebrati i gerarchi della dittatura e i finanziatori delle squadre manganellatrici, semplicemente non esistono due padri della patria, che pur a Cagliari furono legati: Ugo La Malfa e Giovanni Battista Melis, entrambi galeotti, per antifascismo, a San Vittore nel 1928. Potrebbe non essere una strada, ma una sala di dibattito, una biblioteca, un qualche spazio sociale o culturale, si scelga liberamente…

Un cittadino rappresentante di cittadini

I cinque stelle si danno di frequente la qualifica di movimento di cittadini al servizio dell’interesse dei cittadini. La cosa in sé mi pare buona, e ho visto molte personalità di valore nel loro giro, anche se non credo abbia nessuna qualità politica – politica con la P maiuscola, e meno che meno democratica – il loro capo, un demagogo come demagogo triste e rovinoso, a pensare al suo malgoverno, è stato per lungo tempo il padrone di forza italia al minuscolo. Oggi è il segretario del PD Renzi a guidare il governo, con uno stile che mi sembra sgangherato non meno di quello dei due sopra evocati. Avverto anche un rischio incombente di pensiero unico fra i militanti e nella dirigenza del Partito Democratico. E’ sfiducia ingiustificata?

«I giovani che sono nati in un contesto di “seconda repubblica” non sanno niente, a meno che non si siano messi a studiare per l’esame di storia a scuola o all’università, di cosa siano state le correnti del pensiero politico sulle quali si sono sviluppate le vicende belle o brutte dell’Italia e anche dell’Occidente europeo nel Novecento, non hanno memoria storica del movimento socialista, della sua frammentazione e anche della sua componente comunista che ha resistito fino al 1989, oppure del movimento politico dei cattolici che ha controllato il governo nazionale per mezzo secolo, oppure delle minoranze liberali o radicali, oppure degli azionisti della resistenza e dei mazziniani che avevano conquistato la repubblica un secolo e mezzo la Giovine Italia, sanno soltanto dai documentari televisivi del fascismo che ci portò alla guerra. La mia generazione è stata a scavalco fra “prima e seconda repubblica”, ha i piedi nella storia passata e la testa in questo presente che è tutto pragmatismo.  Io, ho già detto, sono di matrice ulivista, ho fatto politica nel grande laboratorio democratico dell’Ulivo che doveva accompagnare i progressisti di diverse formazioni della “prima repubblica” in una forza organizzata della “seconda”. Questo ha significato, arrivando al PD che è l’erede legittimo dell’Ulivo, la combinazione di uomini portatori di culture diverse, ma insieme con questo ha significato anche la necessità di assumere ruoli importanti di governo – tanto a Roma quanto a livello di Regioni e di grossi comuni – quando forse è mancato il tempo di sedimentare al meglio i vari apporti. Uomini di alto livello e di ammirevole aplomb come Bersani e Letta hanno mancato, purtroppo, i loro obiettivi, il PD ha legittimamente, con le primarie e con le maggioranze interne di partito, affidato a Renzi gli incarichi di vertice. Inciampi e scollegamenti fanno parte della fallibilità umana, e anche del partito in quanto tale. Sarà la storia, forse, a dirci se Renzi e il suo governo siano stati un bene per l’Italia, e a dirci anche se un bene siano stati anche i governi Monti e Letta… Io però ho l’esperienza diretta e quotidiana del PD cagliaritano, e anche l’esperienza diretta e quotidiana del gruppo consiliare del PD nel Comune di Cagliari. E debbo dire che qui il pensiero unico non l’ho trovato, deliberazioni per convenienza, cioè per l’utile egoistico di questo o quello, non ne ho visto. Poi è chiaro le deficienze ci saranno state e ci siano, come ad esempio una mancata correntezza informativa alla pubblica opinione su iniziative di interesse generale. Qualche giorno fa ho letto delle lamentele di negozianti vari della piazza Garibaldi per la interruzione dei lavori, causata da forza maggiore. Bisognava forse spiegare quella forza maggiore, con volantinaggio, parlando magari con l’edicolante o il barista della zona, diffondendo insomma la conoscenza del perché… Aggiungerei peraltro che quando si è promosso, da parte del Comune, un incontro con i cittadini proprio per informarli di questa o quella iniziativa, la risposta è stata debole».

Condivisibili anche queste ultime osservazioni, assai meno – dal mio punto di vista – quelle sui rischi di caduta nel conformismo di potere del Partito Democratico. Non saprei a Cagliari, certo è penoso il ripetizionismo, da parte di ministri e dirigenti del PD, degli slogan lanciati del segretario-presidente. Mi colpisce sempre la Serracchiani, eletta presidente della Regione autonoma del Friuli Venezia Giulia, ma tutti i giorni a Roma per recitare il suo mezzo minuto al TG1. Qui non c’è eleganza democratica.

«Io credo di avere spirito critico, non sono passivo nel recepire ogni indicazione della dirigenza nazionale o regionale. Ho esperienze politica a Cagliari e in Municipio e sono impegni assorbenti. Poi sono dell’avviso che per cambiare le cose, per migliorarle, bisogna esserci, bisogna partecipare, anche da posizioni di minoranza occorre sostenere le idee in cui si crede e il tempo sarà galantuomo. Le minoranze sono sempre state, come si dice, il sale della democrazia. Questo vale anche nel mio partito, bisogna lottare dentro, mai arrendersi. La politica è anche mediazione, è sforzo di trovare una sintesi fra valutazioni e sensibilità diverse. Quindi pazienza, diplomazia, mediazione. Gli idealisti possono permettersi i radicalismi, e naturalmente nella società c’è spazio anche per loro e il loro contributo provocatorio e di stimolo».

Io credo che ci si allontani quando il disagio fa cumulo, quando si registra uno scostamento fuori misura fra l’essere e il dover essere. Basterebbe scorrere “l’Unità” edizione Renzi, è una “Pravda” come lo era “l’Unità” comunista di vent’anni fa. Forse la stagione migliore del giornale è stata quella del tempo dell’Ulivo, dei direttori Furio Colombo e poi Padellaro, pur se le vendite diminuirono. Contraddizioni della sinistra.

«Non sarei così drastico. Io leggo “l’Unità” tutti i giorni con un certo interesse. Leggo “l’Unità” e anche “Repubblica” – non più invece “Il Fatto Quotidiano” – e leggo anche “L’Unione Sarda”, non potrei fare a meno della cronaca locale».

Non sarebbe possibile trattare di tutto. Una domanda però – oltre le emergenze che meriterebbero la prima pagina ogni giorno dell’ “Unione Sarda”, mi riferisco all’abitazione, al caos abitativo dei ceti più poveri della città, alla grave insufficienza (è mia personale radicatissima opinione) dell’assistenza sociale, alla ignava tolleranza del disordine materiale/immateriale di certo accattonaggio che specula sulle creature di pochi mesi, accattonaggio che permane e non risolve né onora, al cattivo servizio del ritiro della spazzatura o di quello delle esazioni tributarie –, una domanda sembra giusto farla guardando alle modalità di vita o passatempo delle masse di giovani che qui, residenti o pendolari o studenti fuori sede, socializzano in movide spesso frizzanti, motivo anche di frequenti proteste per il caos notturno.

«Credo di conoscere bene il fenomeno della movida cagliaritana, le sue dinamiche, anche i disagi che ne vengono a quote della popolazione che ha pure il diritto di riposare la notte. Lo sforzo che l’amministrazione ha compiuto in questi anni è stato quello di indirizzare questo flusso che esprime, in positivo, una certa qualità di vita, in luoghi nei quali le ragioni degli uni e degli altri si fanno compatibili fra loro. Penso anche alle manifestazioni concordate con le associazioni di categoria del commercio, soprattutto nel centro cittadino, con le aperture prolungate. D’estate il centro della movida sarà il Poetto, e i titolari dei baretti potrebbero prendere l’iniziativa per intrattenimenti musicali frazionati. Io penserei anche a un utilizzo del molo Ichnusa, la cosa sarebbe anche nella logica del percorso di lungomare, dal porto allo yacht club e magari a Sant’Elia. Ma perché non pensare, per i concerti, anche ad un utilizzo dei capannoni della Fiera internazionale? ».

Conclusione. Cagliari, col suo presente e il suo futuro, è affidata alla moralità e alla lungimiranza dei suoi cittadini e dei suoi amministratori. Per quanto mi riguarda non potrò mai più votare per il sindaco Zedda (assolutamente incapace di dialogo con la cittadinanza e se ne è anche data ripetuta dimostrazione) e, meno che meno, per i candidati della destra (complici o passivi davanti al disastro del ripascimento del Poetto o ai chiodi infilzati nella pietra dell’Anfiteatro, ma anche neghittosi sodali di chi in Senato insultava il presidente Ciampi e la Levi Montalcini e alla Camera celebrava la repubblica di Padania). Nella distanza insuperata dai partiti oggi sulla scena, mi rimane il gusto del confronto, amichevole e curioso, con le personalità che nel Consiglio passato e in quello prossimo io vivo un po’ come gli uomini della Casa Nuova bacareddiana, il partito della modernizzazione urbana e sociale in esordio nel tardo autunno 1889. Credo che Guido Portoghese sia in quel gruppo, forse neppure esiguo quanto si sarebbe tentati talvolta di misurare (né presente tutto in uno stesso schieramento), dei cittadini dei quali fidarsi. Facciamoci gli auguri perché è la salute civile di Cagliari – etica pubblica ed efficienza amministrativa – quel che di più deve interessarci.

 

 

 

 

 

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