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I coloni (sardi e continentali) di Arborea. Un convegno ed un documentario nella cittadina delle bonifiche e della riforma agraria, di Alberto Medda Costella

Posted By cubeddu On 9 novembre 2015 @ 12:55 In Agricoltura,Blog,Città e comuni della Sardegna,Economia sarda | Comments Disabled

La questione è se si tratti soltanto della categoria “storica”, dei pionieri della bonifica, o se meritino la classifica anche i titolari dei lotti postriforma degli anni ’50 e ’60, fino agli attuali coltivatori-proprietari di questo inizio del Duemila. Si combina con questi aspetti l’appassionante discussione sulla natura “non sarda” (o prevalentemente non sarda) dell’antica Mussolinia. Il cui primo colono fu, comunque, un sardo doc: il bosano Alfonso Giorda.

Cosa si intende oggi quando si parla dei “coloni di Arborea”? I coloni sono solamente quelli che hanno condotto a mezzadria i poderi durante il ventennio oppure lo sono anche coloro che dopo la riforma agraria del 1954 sono divenuti assegnatari?

Nella serata di sabato 24 ottobre, il documentarista oristanese Antonello Carboni ha presentato il suo nuovo lavoro dal titolo “I coloni di Arborea”, commissionatogli dalla Società Umanitaria-Cineteca Sarda. Per la prima proiezione è stata scelta proprio la cittadina della bonifica. Nei locali dell’ex Dopolavoro (oggi teatro dei salesiani) un folto pubblico ha seguito con interesse la manifestazione, ben riuscita grazie all’impegno della rete Trama e della Consulta Giovanile Arborense.

Il documentario inizia con un preambolo provocatorio sulla ricerca del gas per poi dispiegarsi – dice l’autore – «tra la storia passata, per fornire quegli elementi minimi di comprensione anche a uno spettatore che la storia di Arborea non conosce, per entrare poi nel lavoro presente, dando risalto all’allevamento e alla sua filiera», tutto messo in discussione dal recente tentativo di una multinazionale di trivellare il territorio per estrarre del gas. Un racconto filtrato dall’esperienza vissuta in prima persona da Aurelio Milan, agricoltore ottantasettenne nato ad Arborea nel 1930 da una famiglia del Polesine, immigrata qualche anno prima. Il signor Milan sembra nato per la cinematografia. «È uno che buca lo schermo», continua Antonello Carboni.

Oramai è assodato che il primo colono di Arborea è stato un sardo, Alfonso Giorda da Bosa. Eppure rimarrà quasi un’eccezione tra i pionieri. I sardi, del circondario e delle zone minerarie, vennero utilizzati in gran parte per i lavori della bonifica: carriolanti, zappatori, fabbri, falegnami, etc. Nella fase successiva al risanamento idraulico per la colonizzazione vennero opzionate famiglie continentali. Il motivo di tale scelta ce lo fornisce lo stesso Giulio Dolcetta, primo presidente della SBS, nel 1932:

 

«Le famiglie coloniche sono state in gran parte importate dal continente. Sarebbe molto più comodo per la Società di servirsi molto più largamente di famiglie sarde; contrasta però con questa aspirazione, la scarsissima forza lavorativa che le famiglie sarde presentano. Le cause di questo fenomeno risiedono nello spiccatissimo individualismo dei sardi, che esclude l’associazione e la convivenza fra parenti, largamente praticata invece dai continentali di alcune regioni e che permette a questi di presentare famiglie con una più forte percentuale d’individui atti al lavoro in confronto degli inabili (vecchi e bambini)».

 

A ciò si aggiungeva che il modello di agricoltura che si andava a impiantare, molto vicino a quello delle zone di provenienza delle famiglie scelte per la Sardegna, prevedeva la residenza permanente nel fondo, contrariamente a come si usava nelle altre regioni dell’isola.

Chiarita e ormai assodata la motivazione per il quale i continentali vennero preferiti ai sardi, ciò che probabilmente è stato fin qui poco analizzato è la ragione che ha portato gran parte dei coloni da aree ben circoscritte, in particolar modo da alcune province del Veneto.

L’arrivo dei veneti. Nella prima fase della colonizzazione furono selezionati soprattutto braccianti o persone che avevano svolto un altro mestiere – come il caso di un gondoliere e di uno stradino – provenienti in gran parte dal delta del Po, dove la crisi economica aveva mietuto più vittime e dove si voleva in tutti modi allentare la tensione sociale. Tanti dei coloni in arrivo a Mussolinia, furono alla loro prima esperienza in campo agricolo. Altri ancora ebbero un passato politico. Questa grande massa di lavoratori senza occupazione poteva riacutizzare la questione bracciantile nella Valle Padana. Saranno soprattutto polesani i primi mezzadri di Mussolinia e sarà proprio il Prefetto di Rovigo Pietro Giacone a interessarsi al loro trasferimento in Sardegna, ottenendo prima un finanziamento dalla Cassa di Risparmio delle Province Lombarde per terminare gli alloggi previsti nei poderi e per la costruzione di un villaggio nei pressi del centro colonico di Alabirdis e poi compiendo un sopralluogo in Sardegna per verificare se vi fossero tutte le condizioni necessarie per ospitare le famiglie del Polesine.

Di fronte alla necessità di sfoltire l’area della valle del Po e di gestire razionalmente i flussi nord-sud a fini di ripopolamento delle zone abbandonate, nel 1926 venne creato il “Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna”. Suo obiettivo principale fu di provvedere all’accertamento e alla razionale distribuzione di questa forza lavoro, per essere meglio impiegata nei territori del Regno. Il Commissariato riceveva mensilmente, dagli uffici e da altri enti, un rapporto sulla situazione lavorativa in provincia e con questi stabilì dimensioni e destinazione dei flussi. In tale campo spettarono a esso due compiti: l’autorizzazione allo spostamento di squadre di lavoratori o famiglie coloniche da una provincia all’altra; inviare nelle zone di bonifica o nelle aree dove vi fossero in corso lavori pubblici, braccianti disoccupati del nord, in particolar nell’Italia centrale, in Sardegna e in Libia.

Si procedette con l’invio iniziale nel 1928 di un primo scaglione di soli 150 elementi della provincia di Rovigo per la costruzione del canale di Santa Giusta: un numero relativamente esiguo al fine di non turbare le lagnanze dei locali, verificando nel frattempo se «nell’arco di sette mesi, [essi] fossero riusciti a raggiungere condizioni ottimali di adattamento al clima» della zona di Bonifica e i ritmi di lavoro imposti dalla Società. Non tutti ressero le dure condizioni di lavoro e alcuni vennero rimpatriati. Gli altri si fecero raggiungere dal resto della famiglia.

Dalla fine del 1929 fino al 1930, l’arrivo di braccianti continentali (che si stavano affiancando alle squadre di lavoro composte da sardi) cominciò ad intensificarsi. Ne arrivarono da Pizzighettone (Cr), da Vicenza e da Forlì. Vennero anche assegnati i primi poderi a 100 famiglie con un contratto di mezzadria. La popolazione crebbe di anno in anno. Si passò dai mille abitanti presenti il giorno della inaugurazione del Villaggio Mussolini nel 1928, ai 2.253 nel 1931 per arrivare agli oltre 4.000 alla vigilia del secondo conflitto mondiale.

La presenza di così tanti mezzadri veneti a Mussolinia portò molti altri loro corregionali a occupare ruoli legati ai servizi o indirettamente all’agricoltura. In una lettera al podestà, per il concorso a veterinario comunale, il dott. Giovanni Fontana di S’Urbano (PD), chiese di essere assunto proprio in virtù del fatto che il paese, essendo popolato da polesani e quindi da persone che avevano i suoi stessi costumi, si sarebbe trovato maggiormente a proprio agio. Le famiglie non venete appartengono, non a caso, alle province limitrofe di Mantova, Forlì, Rimini e Ravenna.

Nello stesso periodo dell’esodo veneto verso la Sardegna, si partiva anche verso le grandi città italiane. Anche qui i veneti, in termini numerici, riuscirono a superare le altre regioni, comprese quelle meridionali. «L’emigrare era un modo di affrontare la situazione, di non rassegnarsi, di cercare un’alternativa» scrive lo storico Antonio Lazzaroni. Vendere quel poco che si possedeva per partire verso un luogo sconosciuto fu un rimedio fisiologico, nella speranza di ricostruirsi una vita migliore di quella che si aveva lasciato.

Secondo il deputato Emilio Morpurgo se fosse esistita qualche altra via d’uscita, il contadino fortemente abitudinario avvezzo a seguire il ciclo delle stagioni e molto diffidente verso le novità sarebbe rimasto, anche pagando un prezzo maggiore. Per il bracciante avventizio, sradicato ormai dalla terra, abituato a muoversi in cerca di lavoro, presumibilmente non era cosi.

Non mancarono sicuramente tante altre motivazioni, che diedero un’ulteriore giustificazione all’abbandono di quelle terre. Dalla possibilità di tagliare quel cordone ombelicale con la famiglia patriarcale, magari per ricostituirne un’altra nel paese di arrivo, alla voglia di rivincita verso i padroni, dallo spirito di avventura alla credulità nei confronti degli agenti dell’emigrazione. Ma rimane un dato ormai assodato: la decisione della partenza fu da attribuire alla povertà estrema.

Tuttavia per una buona riuscita dell’iniziativa, non fu sufficiente la selezione di famiglie con il maggior numero di componenti. I primi tentativi di insediamento, in Sardegna, così come in Africa e nel Lazio, fallirono sia per le durissime condizioni di lavoro, sia perché non erano stati valutati attentamente alcuni requisiti.

Il fattore religioso e quello accomodante. Col passar degli anni si passò a un reclutamento sempre più selettivo delle famiglie da inviare in Bonifica. Queste dovevano disporre, oltre che di un’elevata forza lavoro, soprattutto di requisiti professionali, fisici, politici e morali, trovando in questo un validissimo alleato nella Chiesa. In particolare si cercò di limitare l’afflusso dei romagnoli poiché poco remissivi all’ordine costituito e dotati di scarsa fede religiosa. Non dimentichiamoci che si tratta delle zone d’Italia dove erano sorte le prime leghe contadine, le federazioni di mestiere e le camere del lavoro socialiste. Alcuni agenti dell’emigrazione si sentirono di poter liberamente affermare che i romagnoli, avendo un carattere o molto fiero o molto vile, andavano trattati con cautela: di conseguenza non potevano essere considerati adatti all’insediamento.

Altro criterio che doveva essere utilizzato nella scelta delle famiglie coloniche fu l’attitudine ad assumere un atteggiamento da proprietario. Secondo l’opinione di Bruno Biagi, presidente dell’INFPS, si doveva scoraggiare l’importazione di braccianti bolognesi, ormai inclini a non superare le otto ore lavorative, soliti una volta terminato l’impegno, ad «andare dal cinematografo o in bicicletta a far l’amore con le ragazze della campagna». Si consigliava il reclutamento delle famiglie dal Veneto, in particolare dalle province di Treviso, Padova e Venezia, addirittura si scendeva ancor di più nello specifico indicando la zona al di là del Piave, nei comuni di Conegliano, Oderzo, Valdobbiadene, Motta di Livenza, ecc., escludendo i paesi dell’area di Castelfranco Veneto.

Non è un caso che a partire dal 1935 le famiglie arrivate ad Arborea provengano prevalentemente da queste province, soprattutto dalla Marca trevigiana. Le zona di provenienza della famiglia materna di chi scrive è quella di Gorgo al Monticano e di Mansuè in provincia di Treviso, proprio oltre il Piave e vicino al Livenza. Sembra che da quell’anno l’onda del Polesine si sia esaurita per far spazio a quella della Marca.

I fattori a capo dei centri colonici erano invece prevalentemente quasi tutti toscani, con qualche eccezione emiliana, romagnola e lombarda. La Toscana fu anche la regione che più di ogni altra fornì i quadri dirigenti al fascismo, anche se questi si mostrarono tutti esperti agronomi, chiamati semplicemente per le loro competenze professionali, portati in Sardegna dal commendatore D’Ancona, figura questa ancora da approfondire.

L’integrazione, l’esodo, i ritorni. La vera integrazione tra sardi e continentali si realizzò dopo la riforma agraria negli anni ’60, con il boom industriale italiano, quando moltissime famiglie continentali lasciarono parte dei 262 poderi per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia. Il miracolo economico rappresentava il nuovo eldorado. Da Arborea si passava agli opifici dell’Italia del nord. Fu un vero e proprio stillicidio, che avrebbe protratto i suoi effetti fino ai primi anni ’70. Per un decennio, forse più, alcuni poderi rimasero completamente abbandonati. Saranno i contadini sardi e qualche continentale di ritorno, pentito del lavoro in fabbrica e della vita di città, a riprenderne la coltivazione. La reale situazione sociale e demografica nelle campagne di Arborea, a dieci anni dalle prime assegnazioni, la conosciamo grazie a una relazione di un’assistente sociale dell’Etfas datata 1° luglio 1964, che ci conferma che i poderi gestiti da sardi non sono più 10 rispetto al 1957, ma 90 ovvero esattamente un terzo del totale.

Il passaggio dei coloni da mezzadri ad assegnatari fu foriero non solo di un cambio di mentalità segnando una cesura profonda nella storia di Arborea da un punto di vista organizzativo e produttivo. Il “boom economico” portò all’esodo dalla Sardegna numerosissime famiglie continentali, mettendo definitivamente fine all’enclave veneta per far spazio a una comunità molto più eterogenea di quando si era formata, lasciando spazio a quella contaminazione dovuta all’innesto dei contadini sardi, che seppero dimostrare, in certi casi, di essere pienamente all’altezza del compito che era stato loro affidato.

Ritorna così la domanda iniziale: chi sono quindi i coloni di Arborea? Quelli della bonifica di 80 e passa anni fa, quelli della riforma di mezzo secolo fa, quelli dell’ultima parte del Novecento e ancora di oggi? O tutti, quelli di prima e quelli di oggi insieme? Un nuovo punto di vista è stato offerto proprio dal documentario di Antonello Carboni, per il quale il filmato presentato all’ex Dopolavoro ha «inteso fermare alcune istantanee su ciò che da Mussolinia è stato fino ad oggi per tutta la comunità Arborea. Per questo si intitola “I coloni di Arborea”, per significare cosa sono stati e cosa sono oggi», dice Antonello Carboni, e, aggiungo io, nella continuità della storia, che è storia del lavoro in Sardegna.

 

 

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